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Aboudia : I volti crudi di un’urbanità ivoriana

Pubblicato il: 20 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Nei dipinti di Aboudia si accalcano volti contorti, teschi, sagome infantili, come cartografie mentali di Abidjan in cui l’artista dà voce ai bambini di strada che osserva con acutezza.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è giunto il momento di parlare di Aboudia. Non dell’Aboudia che i mercanti d’arte vi vendono come il nuovo fenomeno africano. No. Voglio parlarvi dell’Aboudia autentico, quello che dormiva nelle aule vuote dopo che i compagni se ne erano andati, quello che si rifugiò in un seminterrato mentre i proiettili fischiavano sopra la sua testa nel 2011. Il suo vero nome è Abdoulaye Diarrassouba, e non è un prodotto di marketing creato per soddisfare la vostra sete d’esotismo. È un sopravvissuto, un testimone, un cronista ostinato della vita urbana abidjanaise.

Le gallerie di Londra e New York oggi si contendono le sue tele a colpi di centinaia di migliaia di euro. Nel 2022 è diventato l’artista contemporaneo che ha venduto più opere all’asta, superando Damien Hirst e Banksy. Un quadro che valeva alcune migliaia di euro una decina di anni fa oggi ne vale più di 500.000. Ma non illudetevi: il percorso di Aboudia non è affatto una favola.

A quindici anni suo padre lo mise fuori di casa quando seppe che voleva diventare artista. Sua madre gli diede i suoi ultimi risparmi affinché potesse terminare gli studi. Per anni ha percorso le strade di Abidjan con le sue tele sotto braccio, scontrandosi con il disprezzo delle gallerie locali che trovavano il suo stile troppo grezzo, troppo disturbante. Quando scoppiò la guerra civile nel 2011, mentre molti fuggivano, lui rimase, trasformando l’orrore in arte.

Ciò che colpisce immediatamente nell’opera di Aboudia è il suo rapporto quasi simbiotico con la città. Le sue tele sono cartografie mentali di Abidjan, dove si accumulano e si sovrappongono volti smorfiosi, teschi, silhouette infantili, graffiti. Come avrebbe analizzato il filosofo Henri Lefebvre, Aboudia pratica una vera e propria “produzione dello spazio” [1]. Egli non rappresenta semplicemente lo spazio urbano, lo produce attraverso la sua pratica artistica, creando ciò che Lefebvre chiamerebbe uno “spazio vissuto”, carico di immaginario e affetto.

Le tele di Aboudia sono testimonianze urbane in cui si leggono gli strati successivi della vita sociale. “Lo spazio sociale è un prodotto sociale”, scriveva Lefebvre, e ciò non è mai stato tanto vero quanto in questi dipinti in cui la città appare come un organismo vivente, pulsante al ritmo delle sue contraddizioni [1]. I bambini di strada, i soldati, le maschere tradizionali, i frammenti di giornali incollati, tutto si accumula per formare una sedimentazione visiva che racconta la storia di un’urbanità africana contemporanea.

Guardate “Djoly Du Mogoba” (2011), questo dittico monumentale realizzato durante la crisi post-elettorale. Teschi arrossati trapassano una fila di sagome militari. La violenza si incarna nella materia stessa del quadro: strati di acrilico grezzi, superfici graffiate, vernice che cola come sangue o sudore. È un documento storico tanto quanto un’opera d’arte, una testimonianza viscerale sulla fragilità dell’esistenza.

Ma ridurre Aboudia a un “pittore di guerra” sarebbe un errore. Lui stesso rifiuta questa etichetta. “Stavo solo dipingendo nel momento in cui c’era una guerra”, precisa. Il suo soggetto prediletto, fin dai suoi anni alla Scuola d’Arte, sono i bambini di strada, quelli che in Costa d’Avorio si chiamano “nouchi”. Non li ritrae come vittime passive, ma come attori della propria esistenza, che scarabocchiano i propri sogni sui muri della città.

Questi “nouchi” ci riportano alla nozione di agentività così cara all’antropologo Arjun Appadurai. Nella sua analisi delle culture globalizzate, Appadurai sottolinea come gli individui emarginati non siano semplicemente ricettori passivi di forze che li superano, ma agenti capaci di immaginazione e azione [2]. I bambini di strada di Abidjan, come il pittore Aboudia, sono proprio questi agenti: creano le proprie forme di espressione attraverso i graffiti, “disegnando i loro sogni sul mondo”, come dice l’artista stesso.

“Quando vedo ragazze che vogliono diventare medici disegnare ragazze in uniforme della Croce Rossa che guidano ambulanze, quando vedo ragazzi che vogliono diventare autisti disegnare macchine, trovo lì la mia vera ispirazione”, spiega Aboudia. Questi bambini usano i muri come spazi di immaginazione, proiettando futuri possibili in un presente precario. Non è esattamente quello che Appadurai definisce la “capacità di aspirare”, quella facoltà culturalmente informata di proiettare possibilità future che spesso è inegualmente distribuita nelle società [2]?

Le opere di Aboudia sono violente, certo, ma di una violenza catartica, trasformativa. Richiamano ciò che Appadurai chiama le “geografie della rabbia”, quegli spazi dove le tensioni della mondializzazione si cristallizzano e generano forme di espressione intense [2]. La rabbia che si esprime in questi quadri non è gratuita; è il grido di chi viene negato un posto nel mondo.

La stessa tecnica di Aboudia è una forma di resistenza. Egli giustappone frammenti di riviste, giornali, pezzi di fumetti, creando un dialogo continuo tra diverse temporalità e differenti linguaggi visivi. Questa tecnica del collage ricorda le pratiche avanguardiste degli inizi del XX secolo, ma qui assume una dimensione politica. Ogni frammento incollato è un pezzo di attualità, di realtà sociale, che l’artista integra in una visione coerente ma inquietante.

Spesso si è paragonato Aboudia a Jean-Michel Basquiat, un altro artista proveniente dalle marginalità che ha conquistato il mercato dell’arte. Il paragone è allettante: stessa energia grezza, stessa espressività, stesso uso del testo e riferimenti alla cultura urbana. Ma è un paragone pigro che tradisce soprattutto la nostra incapacità di guardare all’arte africana contemporanea senza filtrarla attraverso riferimenti occidentali. “Quando ho iniziato a lavorare, non conoscevo Basquiat”, afferma Aboudia. “Non c’era internet a scuola e non si parlava di questi artisti.”

La vera filiazione di Aboudia va cercata nel movimento Vohou Vohou, quel collettivo modernista ivoriano degli anni ’70, fondato da artisti come Youssouf Bath, Yacouba Touré e Kra N’Guessan. Come loro, Aboudia si interessa al suo ambiente immediato e utilizza materiali riciclati. Ma spinge questo approccio oltre, incorporando il linguaggio visivo dei bambini di strada in un’estetica che gli è propria.

Il suo stile, che lui stesso definisce “nouchi”, si è formato osservando i disegni che i bambini realizzavano sui muri con il carbone. “Disegni semplici, che rappresentano automobili, televisioni, simboli di status, dichiarazioni e detti”, descrive. Questi bambini, “considerati i più deboli, non presi sul serio e lasciati soli nel mondo”, sono diventati i suoi maestri.

Il successo commerciale di Aboudia pone tuttavia delle domande. Come può un’arte nata nelle strade di Abidjan, testimone delle sofferenze dei più vulnerabili, diventare un bene di lusso scambiato per somme astronomiche nelle aste londinesi? Non c’è qualcosa di grottesco in questa traiettoria?

Il mercato dell’arte contemporanea africana è esploso negli ultimi anni. Nel 2021, il suo valore alle aste è aumentato del 44% raggiungendo un record di 72,4 milioni di dollari. Ma questa espansione improvvisa non risponde prima di tutto a un bisogno di esotismo rinnovato? I collezionisti occidentali non cercano semplicemente di diversificare i loro portafogli con ciò che percepiscono come la nuova tendenza?

Lo stesso Aboudia sembra consapevole di questi paradossi. Rifiuta di lasciarsi definire dal mercato. “Non ho mai voluto dipingere o lavorare per qualcuno, faccio quello che voglio fare. Se vi piace, tanto meglio, altrimenti pazienza”, dichiara con una franchezza disarmante. E se oggi approfitta del suo successo, è anche per restituire alla sua comunità attraverso la Fondazione Aboudia, che sostiene i giovani artisti ivoriani e i bambini svantaggiati.

La sua opera rimane radicata in una realtà sociale specifica, quella delle strade di Abidjan, raggiungendo al contempo una dimensione universale. I volti contorti, gli occhi sbarrati, i sorrisi inquietanti che popolano le sue tele ci parlano della condizione umana in ciò che ha di più vulnerabile e di più resiliente. Queste figure al tempo stesso infantili e spettrali ci guardano dritto negli occhi, costringendoci a riconoscere la loro esistenza.

“Come artista, il mio contributo è raccontare la nostra storia per la prossima generazione. Gli scrittori scriveranno, i cantanti canteranno. Io dipingo”, afferma Aboudia. In questa semplice affermazione risiede tutta la potenza del suo approccio: testimoniare, raccontare, trasmettere. Non come un osservatore distante, ma come un partecipante pienamente impegnato nella realtà che rappresenta.

Le opere di Aboudia sono memorie visive dell’invisibile, cronache urbane che danno voce a chi non viene ascoltato. Esse operano quello che Henri Lefebvre chiamerebbe un “diritto alla città” [1], una riappropriazione dello spazio urbano da parte di chi ne è escluso. Attraverso i suoi quadri, i bambini delle strade di Abidjan affermano la loro presenza, il loro diritto di esistere e di essere visti.

Il successo internazionale di Aboudia, lungi dall’essere un effetto di moda, si rafforza anno dopo anno. È il segno dei grandi. La sua pittura, cruda e sofisticata allo stesso tempo, resiste a ogni tentativo di facile recupero. Ci confronta con i nostri stessi privilegi, con il nostro comfort. Ci ricorda che dietro le statistiche economiche, le analisi geopolitiche, i discorsi sul “sviluppo”, ci sono vite reali, corpi vulnerabili, sogni tenaci.

Quindi sì, andate a vedere Aboudia nelle grandi gallerie internazionali. Ammirate la potenza visiva delle sue opere. Ma non dimenticate da dove vengono: dalle strade di Abidjan, dall’esperienza vissuta di un artista che ha trasformato la precarietà in forza creatrice. E se siete tentati di ridurre il suo lavoro a una semplice estetica della povertà o della violenza, ricordate quello che dice lui stesso: “L’arte non è come se si vendessero melanzane al mercato.”


  1. Lefebvre, Henri. La Produzione dello spazio. Parigi: Éditions Anthropos, 1974.
  2. Appadurai, Arjun. Modernità a larghe dimensioni: Dimensioni culturali della globalizzazione. Minneapolis: University of Minnesota Press, 1996.
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Riferimento/i

Aboudia (1983)
Nome:
Cognome: ABOUDIA
Altri nome/i:

  • Abdoulaye DIARRASSOUBA

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Costa d’Avorio

Età: 42 anni (2025)

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