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Adam Pendleton: Black Dada e resistenza

Pubblicato il: 14 Luglio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 12 minuti

Adam Pendleton sviluppa da oltre vent’anni un vocabolario artistico unico attorno al concetto di “Black Dada”. Pittore, videoartista e teorico, crea opere multidisciplinari che interrogano i rapporti tra astrazione, storia e identità, trasformando gli spazi espositivi in laboratori di sperimentazione politica ed estetica.

Ascoltatemi bene, banda di snob: Adam Pendleton pratica una forma d’arte che si rifiuta ostinatamente di lasciarsi domare dalle vostre categorie rassicuranti. Da oltre due decenni, questo artista concettuale americano nato nel 1984 sviluppa un vocabolario visivo e teorico che scuote le nostre concezioni ereditate dell’astrazione, della storia e dell’identità. Il suo lavoro multidisciplinare, pittura, serigrafia, video, performance, editoria, si articola attorno al concetto che ha forgiato di “Black Dada”, una formula enigmatica che funziona meno come un manifesto e più come un virus concettuale, contaminando e riconfigurando tutto ciò che tocca.

Il progetto artistico di Pendleton si radica in un’interrogazione fondamentale sulle modalità attraverso cui l’arte può simultaneamente possedere ed essere posseduta da ideali contraddittori. Questa dialettica si esprime con particolare acutezza nelle sue pitture astratte dove frammenti di linguaggio, lettere isolate, parole tronche, frasi ripetute fino all’esaurimento del loro senso, vengono a infestare composizioni che evocano tanto l’espressionismo astratto quanto la segnaletica urbana. Queste opere, realizzate secondo un protocollo complesso che mescola pittura a spray, serigrafia e fotografia, trasformano la tela in una testimonianza temporale dove si sovrappongono tracce di una modernità incompiuta.

La mostra “Who Is Queen?” al Museum of Modern Art di New York nel 2021-2022 ha costituito l’apice più spettacolare di questa ricerca [1]. Nell’atrio Marron del museo, Pendleton ha dispiegato un’installazione totale comprendente tre strutture di impalcatura nere di diciotto metri di altezza, dipinti disposti a vari livelli, proiezioni video e un collage sonoro che mescolava le voci di Amiri Baraka, di manifestanti di Black Lives Matter e la musica di Hahn Rowe. Quest’opera d’arte totale per il XXI secolo interrogava frontalmente l’istituzione museale offrendo al contempo un’alternativa radicale alla presentazione cronologica del canone modernista. Come ha scritto Siddhartha Mitter nel New York Times, Pendleton aveva “costruito il proprio museo all’interno del MoMA, un’esperienza di cambiamento dall’interno, offrendo un metodo espositivo radicalmente diverso” [2].

Questo approccio si inscrive in una tradizione critica che si potrebbe paragonare all’approccio letterario di Maurice Sendak in “Where the Wild Things Are” (1963). Come l’illustratore americano, Pendleton rifiuta di minimizzare la complessità emotiva e politica del suo discorso per renderlo più digeribile. Sendak aveva creato uno spazio immaginario, l’isola dei Massimali, dove il giovane Max poteva esprimere la sua rabbia e le sue pulsioni distruttive prima di ritrovare il conforto della casa materna. Questa geografia fantastica funzionava come un laboratorio delle emozioni, un luogo di sperimentazione dove gli affetti proibiti potevano dispiegarsi senza conseguenze irreversibili. L’album di Sendak proponeva una cartografia alternativa dell’infanzia, riconoscendo la legittimità delle emozioni “selvagge” mantenendo al contempo la promessa di un ritorno all’ordine domestico.

Pendleton opera in modo simile creando spazi di indeterminatezza dove le certezze storiche e identitarie possono essere sospese. Le sue installazioni funzionano come “terre selvagge” concettuali dove i visitatori sono invitati a navigare senza GPS ideologico. Il concetto di “Black Dada” che sviluppa dal 2008 funziona proprio come questo spazio intermedio tra familiare e straniero, conosciuto e sconosciuto. Associando il movimento Dada europeo degli inizi del XX secolo, nato dallo shock per le distruzioni della Prima Guerra Mondiale, alle lotte emancipatrici afroamericane degli anni ’60, Pendleton crea un cortocircuito temporale che rivela le affinità sotterranee tra diverse forme di resistenza all’ordine stabilito. Questa strategia di giustapposizione inaspettata ricorda il metodo di Sendak che trasformava i suoi zii e zie polacchi in mostri benevoli, una metamorfosi che permetteva di addomesticare l’inquietante stranità del mondo adulto.

Il “Black Dada Reader” pubblicato nel 2017 costituisce il laboratorio teorico di questo approccio [3]. Questo libro-manifesto raccoglie testi di Hugo Ball, W.E.B. Du Bois, Stokely Carmichael, Sun Ra, Adrian Piper e molti altri in un montaggio che sfida qualsiasi logica cronologica o disciplinare. Quest’archivio sperimentale funziona come una macchina per produrre connessioni improbabili tra figure storiche che sembravano divise da tutto. Fotocopiando e ricompilando queste fonti, Pendleton mette in atto un’estetica dell’appropriazione che trasforma l’atto della lettura in una performance critica. Il Reader non si limita a documentare il concetto di “Black Dada”: lo attiva, lo mette in circolazione, lo rende contagioso.

Questa dimensione performativa del linguaggio trova la sua espressione più compiuta nei dipinti della serie “Untitled (WE ARE NOT)” iniziata nel 2018. Queste tele monumentali ripetono instancabilmente la formula “we are not” finché le parole perdono la loro funzione denotativa per diventare pura materia plastica. Questa strategia di esaurimento del senso ricorda le sperimentazioni della scrittrice americana Gertrude Stein, i cui “ritratti testuali” Pendleton ha studiato. In Stein come in Pendleton, la ripetizione non mira alla ridondanza ma alla rivelazione: è dicendo e ridicendo le stesse parole che si scoprono le loro potenzialità nascoste, le loro armoniche segrete.

L’opera di Pendleton dialoga così con una lunga tradizione di sperimentazione letteraria americana che va da Stein a John Ashbery passando per Amiri Baraka. Questa genealogia non è casuale: rivela una concezione dell’arte come spazio di resistenza alle logiche identitarie semplificatrici. Quando Pendleton dipinge “we are not”, non produce una dichiarazione negativa ma apre uno spazio di possibilità infinite. “We are not” diventa allora l’incipit di una frase che non finisce mai, la promessa di un’identità in perpetuo divenire.

Questa poetica dell’incompiutezza trova la sua traduzione spaziale nelle installazioni di Pendleton. Le sue strutture di impalcature trasformano lo spazio espositivo in un cantiere permanente, in un’architettura precaria che rifiuta la monumentalità fissata. Questi dispositivi evocano tanto le costruzioni di Donald Judd quanto le barricate dei movimenti sociali, creando un’ambiguità produttiva tra ordine e disordine, permanenza e temporalità. L’impalcatura diventa metafora di una società in costruzione perpetua, sempre sul punto di crollare o di trasformarsi.

Questa instabilità assunta costituisce forse l’aspetto più radicale del progetto di Pendleton. In un’epoca in cui l’arte contemporanea sembra spesso ossessionata dalla chiarificazione delle sue posizioni politiche, egli sceglie deliberatamente l’opacità, il balbettio, l’indeterminatezza. Le sue opere resistono a un’interpretazione univoca non per vezzo intellettuale ma per convinzione politica. Rifiutando di fornire messaggi pronti all’uso, esse costringono lo spettatore a impegnarsi in un processo di decifrazione che trasforma la ricezione in atto creativo.

Questa estetica della resistenza ermeneutica trova le sue radici nell’esperienza storica della diaspora africana. Come ha mostrato Édouard Glissant, l’opacità costituisce un diritto fondamentale delle culture subalterne di fronte alle imprese di totale trasparenza del potere coloniale. Coltivando l’indeterminatezza, Pendleton riattiva questa tradizione di resistenza spostandola nel territorio dell’arte contemporanea. Le sue opere diventano “macchine celibi” che producono senso senza mai esaurirlo, generatori di interpretazioni che mantengono aperta la questione del loro significato.

La mostra “Love, Queen” attualmente presentata al Hirshhorn Museum fino a gennaio 2027 porta ancora più avanti questa logica della proliferazione semantica. Nelle gallerie circolari del museo, le opere di Pendleton creano un percorso labirintico dove ogni dipinto fa eco agli altri secondo modalità che sfuggono a qualsiasi sistematizzazione definitiva. Questa circolazione del senso tra le opere richiama la struttura rizomatica cara a Gilles Deleuze e Félix Guattari, altra importante fonte di ispirazione per Pendleton. La mostra “Becoming Imperceptible” del 2016 rendeva esplicito omaggio ai filosofi francesi prendendo il titolo da “Mille Plateau”.

Questa filiazione teorica illumina la dimensione propriamente filosofica del lavoro di Pendleton. Come Deleuze e Guattari, egli concepisce l’arte come una macchina da guerra diretta contro gli apparati di cattura identitari. Le sue opere operano per deterritorializzazione, strappando i segni ai loro contesti d’origine per farli entrare in nuovi agglomerati. Il “Black Dada” funziona precisamente come uno di quei concetti nomadi che sfuggono ai tentativi di fissazione tassonomica.

Questa mobilità concettuale spiega la dimensione internazionale del lavoro di Pendleton. Le sue mostre al Palais de Tokyo, al Mumok di Vienna o al padiglione belga della Biennale di Venezia 2015 hanno dimostrato la capacità del suo vocabolario artistico di adattarsi a contesti geopolitici differenti senza perdere la sua forza critica. Interrogando l’eredità coloniale del Belgio in Congo, Pendleton rivelava le connessioni sotterranee tra la storia europea e le lotte emancipatrici africane, attualizzando la portata politica del suo progetto estetico.

Questa dimensione geopolitica dell’opera trova la sua traduzione più diretta nei video di Pendleton. “Resurrection City Revisited” (2023) assemblano immagini d’archivio della “Poor People’s Campaign” del 1968 con forme geometriche che talvolta obliterano, talvolta aureolano i volti dei manifestanti. Questa intervento grafico trasforma il documento storico in testimonianza contemporanea dove passato e presente entrano in risonanza. I triangoli e i cerchi che punteggiano le immagini evocano tanto l’arte concettuale quanto le interfacce digitali, suggerendo una continuità tra le lotte del passato e le modalità contemporanee della resistenza.

Questa temporalità stratificata caratterizza l’intero progetto di Pendleton. Le sue opere non propongono una visione nostalgica del passato ma un’archeologia del presente che rivela le stratificazioni temporali che lo compongono. Riattivando l’eredità di Sol LeWitt, i cui cubi incompleti infestano la serie “Black Dada”, o dialogando con lo spirito di libertà di Julius Eastman, compositore afroamericano gay la cui radicalità ispira diverse opere recenti, Pendleton pratica una forma di anacronismo creativo che fa esplodere la linearità del tempo storico.

Questa concezione non cronologica della storia spiega la fascinazione di Pendleton per le figure di mediatori culturali come Gertrude Stein o Glenn Ligon. Questi artisti hanno in comune la pratica di forme di nomadismo estetico, navigando tra le avanguardie e le comunità, tra l’Europa e l’America, tra i codici dominanti e le culture minoritarie. Pendleton si inserisce in questa linea di traduttori culturali che trasformano i confini in zone di contatto creativo.

La dimensione collaborativa del lavoro di Pendleton testimonia anch’essa questo approccio relazionale alla creazione. Le sue collaborazioni con musicisti come Deerhoof, coreografi come Ishmael Houston-Jones o teorici come Jack Halberstam rivelano una concezione dell’arte come pratica collettiva di produzione di senso. Questi incontri interdisciplinari generano opere ibride che sfuggono alle classificazioni tradizionali, creando nuovi territori estetici all’incrocio dei media.

L’installazione sonora che accompagna “Who Is Queen?” illustra perfettamente questa logica di contaminazione creativa. Sovrapponendo la voce di Baraka che legge le sue poesie, la musica di Hahn Rowe e le grida dei manifestanti di Ferguson, Pendleton crea una polifonia temporale che fa risuonare insieme diverse generazioni di resistenza. Questa tecnica di “controparte” audio, ispirata a Glenn Gould, trasforma lo spazio espositivo in una camera di echi storici dove si mescolano le voci del passato e del presente.

Questa estetica della sovrapposizione trova il suo equivalente plastico nei dipinti recenti di Pendleton. Le opere della serie “Black Dada” presentate nella mostra “An Abstraction” alla galleria Pace nel 2024 segnano un’evoluzione significativa rispetto ai monocromi precedenti. L’introduzione di colori vivaci, violetti intensi, verdi metallici, gialli brillanti, trasforma la palette dell’artista mantenendo tuttavia la logica della stratificazione che caratterizza il suo approccio. Queste nuove tele funzionano come schermi in cui si scontrano diverse temporalità, creando effetti di profondità che evocano tanto l’archeologia quanto la fantascienza.

Questa dimensione temporale complessa spiega l’interesse crescente di Pendleton per le nuove tecnologie. Le sue recenti sperimentazioni con la realtà virtuale e l’intelligenza artificiale rivelano una volontà di esplorare le potenzialità estetiche del digitale senza però abbandonare i media tradizionali. Questo approccio tecno-critico richiama quello di artisti come Hito Steyerl o Zach Lieberman che interrogano le modalità contemporanee di produzione e circolazione delle immagini.

Il successo commerciale e istituzionale di Pendleton, il suo ingresso presso la Pace Gallery già dal 2012, le acquisizioni da parte del MoMA e del Guggenheim, il suo recente riconoscimento da parte della American Academy of Arts and Letters, testimoniano la capacità del suo lavoro di navigare tra avanguardia e mercato dell’arte. Questa posizione ambivalente non è casuale: rivela la strategia complessa di un artista che utilizza i circuiti dominanti per diffondere proposte potenzialmente sovversive. Occupando le istituzioni più prestigiose, Pendleton pratica una forma di dirottamento che trasforma i templi della cultura in laboratori di sperimentazione politica.

Questa strumentalizzazione tattica delle strutture esistenti richiama l’approccio di alcuni scrittori postcoloniali che rivoltano la lingua del colonizzatore contro se stessa. Pendleton opera una manovra simile usando i codici dell’arte concettuale occidentale per esprimere esperienze e storie che superano questo quadro. Questo approccio “cannibale”, per riprendere la metafora sviluppata dagli antropofagi brasiliani, trasforma l’assimilazione in un processo creativo di ibridazione culturale.

L’opera di Pendleton rivela così le potenzialità critiche di un’arte che rifiuta la purezza concettuale per abbracciare la complessità del reale. Coltivando l’indeterminatezza, mantiene aperte possibilità di significato che la logica identitaria tende a chiudere. Le sue installazioni e pitture diventano spazi di libertà dove l’immaginazione può sperimentare nuove forme di soggettività, nuove modalità del vivere insieme.

Questa dimensione utopica del progetto di Pendleton non deriva da un idealismo ingenuo ma da un pragmatismo visionario che prende atto delle impasse del presente per immaginare altre configurazioni possibili. Rifiutando di scegliere tra astrazione e figurazione, tra arte e politica, tra locale e globale, apre vie alternative che sfuggono alle dicotomie paralizzanti dell’epoca. Il suo lavoro testimonia la capacità dell’arte contemporanea di produrre forme di resistenza che non si limitano a denunciare l’esistente ma inventano concretamente nuovi modi di essere al mondo.

La mostra “Love, Queen” al Hirshhorn Museum costituisce il risultato provvisorio di questa ricerca. Nelle gallerie circolari di Washington, le opere di Pendleton creano un ambiente immersivo che trasforma la visita in un’esperienza di disorientamento produttivo. Gli spettatori si trovano di fronte a un vocabolario visivo che resiste alla decodifica immediata, costringendoli a rallentare, a sospendere i loro riflessi interpretativi abituali. Questa temporalità dilatata costituisce forse l’aspetto più prezioso del lavoro di Pendleton: in un mondo dominato dall’accelerazione e dall’istantaneità, crea oasi di contemplazione critica dove il pensiero può riprendere fiato.

Questa resistenza alla velocità contemporanea si inscrive in una tradizione critica che attraversa l’arte del XX secolo, da Paul Cézanne ai minimalisti americani. Come questi predecessori, Pendleton comprende che la trasformazione dello sguardo richiede una trasformazione del tempo. Le sue opere impongono il loro ritmo proprio, costringendo lo spettatore ad accettare una forma di lentezza che diventa condizione di possibilità di un vero incontro estetico.

Questa temporalità particolare spiega l’effetto di fascinazione che producono le opere di Pendleton. Di fronte ai suoi dipinti dalle composizioni apparentemente semplici ma infinitamente complesse nell’esecuzione, di fronte alle sue installazioni che trasformano lo spazio espositivo in un campo di gioco concettuale, lo spettatore fa l’esperienza di una forma di sublime contemporaneo che non passa più dalla schiacciante impressione ma dall’apertura a possibilità infinite. Queste opere ci ricordano che l’arte, al suo massimo livello, non si limita a rappresentare il mondo ma lo trasforma rivelando potenzialità fino ad allora invisibili.

L’opera di Adam Pendleton rappresenta così un laboratorio privilegiato per riflettere sulle sfide estetiche e politiche del XXI secolo. Rifiutando le facilità del discorso militante così come quelle dell’estetismo puro, egli inventa forme di resistenza che passano attraverso la complessificazione piuttosto che attraverso la semplificazione. Il suo “Black Dada” funziona come un virus concettuale che contagia e trasforma tutto ciò che tocca, creando nuovi spazi di libertà in un mondo saturo di certezze. In questa prospettiva, l’indeterminatezza diventa non un ostacolo alla comprensione ma una condizione di possibilità della trasformazione sociale. L’arte di Pendleton ci ricorda che il futuro resta aperto, a condizione di accettare di navigare nell’incertezza creativa del presente.


  1. Adam Pendleton: “Who Is Queen?”, Museum of Modern Art, New York, 18 settembre 2021 – 30 gennaio 2022.
  2. Siddhartha Mitter, “Adam Pendleton Rethinks the Museum”, The New York Times, 10 settembre 2021.
  3. Adam Pendleton, Black Dada Reader, a cura di Stephen Squibb, Londra, Koenig Books, 2017.
  4. Terence Trouillot, “Adam Pendleton celebra la poesia, la wildness e la resistenza nera”, Frieze, 22 settembre 2021.
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Riferimento/i

Adam PENDLETON (1984)
Nome: Adam
Cognome: PENDLETON
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 41 anni (2025)

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