Ascoltatemi bene, banda di snob. Albert Janzen, questo artista nato in Siberia e residente a Berlino, non c’entra nulla con le vostre piccole certezze sull’arte contemporanea. Se pensate che tracciare linee sia alla portata del primo bambino, è perché non avete capito nulla né d’arte né di vita. Janzen non fa concessioni alle convenzioni, traccia la sua strada con la determinazione di un matematico logico diventato maestro dell’astrazione lineare.
Questo artista ha trascorso tredici lunghe anni alla Scuola di Arti e Musica di Berlino prima di proseguire gli studi in filosofia e matematica. Un percorso atipico che forgia uno sguardo singolare. Mentre voi altri saltate da una tendenza artistica all’altra come mosche attratte dalla novità scintillante, Janzen ha scelto la via dell’assoluta essenzialità: la linea.
La linea. Questo elemento fondamentale della nostra percezione visiva, così basilare da diventare invisibile per la sua onnipresenza. Janzen ci ricorda la sua importanza capitale: “Le linee fanno parte dei mezzi più intuitivi per percepire e comprendere il nostro ambiente. Ogni riconoscimento di strutture visive dipende da un riconoscimento di linee” [1]. È con questa ossessione quasi monacale per la linea che ha vinto il prestigioso Luxembourg Art Prize nel 2015, lanciando la sua carriera sulla scena internazionale.
Quello che colpisce nel suo lavoro è questa volontà feroce di fare della linea un’entità autosufficiente. “Disegno linee non per costruire qualcosa, ma per disegnare linee. Le forme e i motivi che appaiono nei miei disegni non hanno altro scopo che rivelare i movimenti delle linee” [2]. Questa autoriferenzialità potrebbe sembrare narcisistica o priva di senso, ma è in realtà profondamente radicata nella tradizione filosofica occidentale.
Perché sì, dietro l’apparente semplicità di questi intrecci di linee nere su fondo bianco si nasconde una riflessione metafisica sulla natura stessa della percezione e della realtà. Janzen non è solo un disegnatore, è un pensatore che utilizza il mezzo visivo per esplorare questioni fondamentali. Galileo, quel gigante della scienza, scriveva che “l’Universo (…) è scritto nel linguaggio matematico e i suoi caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali è umanamente impossibile comprendere una parola. Senza di essi, è un vagare vano in un labirinto oscuro [3]. Non è forse esattamente questo che Janzen ci mostra attraverso le sue composizioni astratte? Che il mondo è strutturato da linee, che la nostra comprensione della realtà passa necessariamente attraverso l’identificazione di strutture lineari, contorni, limiti, confini?
Quando Janzen traccia le sue linee su una lavagna Velleda, a inchiostro su carta o digitalmente su Photoshop, non si limita a produrre immagini esteticamente piacevoli. Ci invita a una meditazione attiva sul nostro modo di comprendere il mondo. Le sue linee non sono mai perfettamente dritte, ondeggiano, si incrociano, si evitano, si confondono. Sono come i pensieri che attraversano la nostra mente: a volte ordinati, spesso caotici, sempre in movimento.
Non è un caso se questo artista ha anche studiato logica ad Amsterdam. La logica, quella disciplina che si interessa alle strutture formali del ragionamento, condivide con l’arte di Janzen la stessa ricerca di essenzialità. Ma laddove la logica cerca di eliminare l’ambiguità, l’arte di Janzen la abbraccia appieno. I suoi disegni hanno una chiarezza assoluta nella composizione e un’infinita ambiguità nella loro interpretazione.
Prendete una delle sue opere come “No title” del 2015, questa immensa fotografia unica di un disegno effimero su lavagna bianca. A prima vista, non è altro che un intreccio di linee nere. Ma guardate più a lungo, e forse vedrete capillarità, alghe, meduse, tessuti, immagini cosmiche. Oppure potreste non vedere altro che linee, e questo è perfettamente sufficiente. Ecco tutta la bellezza dell’astrazione: non vi impone nulla, vi propone tutto.
Janzen si colloca in una tradizione artistica che include Cy Twombly, Gerhard Richter, Zao Wou-Ki e Antonio Murado. Ma apporta qualcosa di fondamentalmente nuovo: una rigore intellettuale che non è senza ricordare quello di Ludwig Wittgenstein. Il filosofo austriaco scriveva nel suo Tractatus logico-philosophicus: “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo” [4]. Janzen potrebbe parafrasare: “Le linee del mio disegno significano i limiti della mia percezione”.
Questa concezione dell’arte come esplorazione dei limiti cognitivi è particolarmente evidente nel percorso di Janzen. Non si limita a produrre immagini, interroga la nostra stessa capacità di vedere, percepire, comprendere. In questo senso, il suo lavoro è profondamente filosofico, non nel senso accademico del termine, ma nel suo interrogarsi essenziale sulla natura dell’esperienza umana.
E probabilmente è proprio per questo che le sue opere sono così coinvolgenti nonostante, o forse grazie alla loro apparente semplicità. Ci rimandano ai nostri stessi meccanismi di percezione. Di fronte alle sue linee che sembrano estendersi all’infinito oltre i bordi della tela o della carta, siamo invitati a interrogarci sulla natura stessa della nostra visione del mondo.
C’è qualcosa di profondamente contemplativo nell’arte di Janzen. Non quella contemplazione passiva e beata che si trova troppo spesso nell’arte spirituale, ma una contemplazione attiva, impegnata, quasi scientifica. Osservare le sue opere significa partecipare a un’esperienza percettiva che ci fa prendere coscienza dei nostri stessi processi cognitivi.
Questa dimensione sperimentale del suo lavoro riecheggia la teoria estetica di David Davies, che concepisce l’arte come un processo piuttosto che come un prodotto finito. Nel suo libro “L’arte come processo”, Davies sostiene che ogni opera d’arte sia il “focus di apprezzamento” di un processo precedente. In altre parole, ciò che è veramente interessante in un’opera non è l’oggetto finale, ma il processo creativo che le ha dato vita.
L’arte di Janzen illustra perfettamente questa concezione processuale. Quando guardiamo i suoi disegni, non possiamo fare a meno di interrogarci sulla loro genesi. Da quale linea ha cominciato? Dove si trova l’ultima? Quando e perché ha deciso di fermarsi? Quanto tempo è durata la creazione? Il filo del suo pensiero ha seguito le stesse direzioni delle sue linee? Le sue composizioni riflettono stati emotivi o piuttosto una calma meditazione che aspira al vuoto?
Queste domande sono tanto più pertinenti in quanto alcune delle sue opere sono per loro natura effimere. I suoi disegni su lavagna Velleda esistono solo sotto forma di fotografie. Il processo creativo è terminato, il risultato è scomparso, rimane solo la traccia documentaria. Questa dimensione temporale del suo lavoro aggiunge un ulteriore strato di significato. L’arte di Janzen non è fissata nel tempo, è il tempo stesso reso visibile.
Si potrebbe vedere in questo una metafora della condizione umana: passiamo la nostra vita a tracciare linee, creare connessioni, stabilire percorsi, ma tutto ciò è destinato a scomparire. Rimarranno solo tracce, ricordi, fotografie ingiallite. Questa coscienza acuta dell’impermanenza conferisce all’opera di Janzen una profondità esistenziale che va ben oltre l’esercizio formale.
Ma non lasciamoci sopraffare da considerazioni troppo cupe. C’è una gioia innegabile nel lavoro di Janzen, una celebrazione dell’atto creativo nel suo aspetto più puro. Le sue linee danzano sulla superficie, liberate da ogni vincolo rappresentativo. Esistono per se stesse, in uno stato di grazia che ricorda l’innocenza dell’infanzia, quando disegnare non era ancora sottoposto al giudizio estetico o all’imperativo della somiglianza.
Questa libertà è proprio ciò che Janzen difende attraverso la sua arte: “Le mie immagini rappresentano l’indipendenza e la libertà dell’essere e del pensiero. Invito lo spettatore a vedere la linea come un essere indipendente e a liberarla dalla sua funzione abituale di strumento fondamentale di rappresentazione” [5]. È un invito all’emancipazione del nostro sguardo, a una forma di percezione che non sia dettata dalle convenzioni o dalle aspettative.
In questo senso, l’arte di Janzen è profondamente politica, non nel senso banale di un’arte impegnata che prende posizione su questioni sociali specifiche, ma nel senso fondamentale di una messa in discussione dei modi dominanti di percezione e pensiero. Invitandoci a vedere la linea come un’entità autonoma anziché come un semplice strumento di rappresentazione, ci incoraggia a ripensare il nostro rapporto con il mondo, a guardare oltre le funzioni attribuite alle cose e agli esseri.
“In generale, quando percepiamo il nostro ambiente al di fuori della sua funzione, alleniamo il nostro pensiero indipendente. Perché la sua funzione corrisponde generalmente a idee che altre persone le hanno assegnato” [6]. Questa dichiarazione dell’artista rivela la dimensione critica del suo lavoro. Non si tratta solo di produrre immagini esteticamente piacevoli, ma di proporre un’alternativa ai modi di percezione dominanti, una forma di resistenza all’uniformizzazione del pensiero.
Questo approccio si inserisce in una lunga tradizione dell’arte astratta come atto di resistenza. Da Kandinsky e Malevic fino all’espressionismo astratto americano, l’astrazione è stata spesso un mezzo per opporsi ai regimi autoritari, ai dogmi estetici, alle convenzioni sociali. L’arte di Janzen prosegue questa tradizione aggiornandola alla nostra epoca, in cui la standardizzazione dei modi di pensiero assume forme più sottili ma non meno oppressive.
È interessante vedere come un artista possa, attraverso un mezzo espressivo tanto minimalista quanto la linea, affrontare questioni complesse come la libertà di pensiero, la struttura della percezione o la natura della realtà. Questo è senza dubbio il segno di un talento autentico: saper dire tanto con così poco.
Allora, naturalmente, potreste alzare le spalle e dire che sono solo linee, che chiunque potrebbe farle. Ma sarebbe perdere il punto essenziale. L’arte di Janzen non sta nella difficoltà tecnica della sua realizzazione, comunque, provate a farlo voi, ma nella profondità concettuale che la sostiene. Non si tratta di sapere se è difficile da fare, ma se è importante da pensare.
Ed è proprio lì che risiede la forza del suo lavoro: ci fa pensare. Ci fa riflettere su come percepiamo il mondo, sul modo in cui costruiamo il significato a partire da semplici linee. Ci ricorda che la nostra comprensione della realtà è sempre mediata da strutture percettive che abbiamo interiorizzato senza nemmeno rendercene conto. L’arte di Albert Janzen è un invito alla libertà. Libertà di percezione, libertà di pensiero, libertà di interpretazione. In un mondo sempre più normato, standardizzato, algoritmizzato, in cui ogni immagine deve corrispondere a un canone, in cui ogni pensiero deve inserirsi in uno schema prestabilito, le sue linee libere, sinuose, indisciplinate sono un richiamo salutare che l’arte, come la vita, non si lascia rinchiudere in categorie.
E forse è proprio questo, in definitiva, a fare il valore del suo lavoro: non la sua bellezza formale, la sua complessità concettuale o la sua originalità, ma la sua capacità di renderci un po’ più liberi. Un po’ più attenti, anche, alle linee che strutturano la nostra vita quotidiana, quelle linee che non vediamo più a forza di incontrarle tutti i giorni.
La prossima volta che vedrete un disegno di Albert Janzen, non limitatevi a osservarlo distrattamente prima di passare al successivo. Prendetevi il tempo per seguire con lo sguardo ognuna delle sue linee, per perdervi nei loro meandri, per lasciarvi sorprendere dalle loro intersezioni inattese. E forse, allora, capirete ciò che l’artista tenta di dirci: che la linea, come la vita, non ha altro scopo se non se stessa, e che è proprio questo a farne la bellezza.
- Albert Janzen, dichiarazione artistica, 2015.
- Ibid.
- Galileo, L’essayeur di Galileo, presentazione e traduzione francese a cura di Christiane Chauviré, Les Belles Lettres, “Annales littéraires de l’université de Besançon”, 1979, p. 141.
- Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, proposizione 5.6, traduzione francese di G. G. Granger, Gallimard, Parigi, 1993.
- Albert Janzen, intervista con Singulart, 2018.
- Ibid.
















