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Alexandre Diop: Il fuoco e la furia

Pubblicato il: 24 Ottobre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 12 minuti

Alexandre Diop crea assemblaggi monumentali a partire da materiali trovati per strada e nelle rottamazioni. Questo artista franco-senegalese con base a Vienna utilizza il fuoco, il metallo, i tessuti e gli oggetti abbandonati per costruire opere che interrogano la violenza coloniale, il razzismo e le gerarchie sociali con una rabbia viscerale.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Alexandre Diop non dipinge. Assembla, aggredisce, brucia. Questo franco-senegalese trentenne con base a Vienna, in Austria, costruisce monumenti ruggenti a partire dai detriti. Le sue tele di oltre tre metri non sono fatte per ornare i vostri salotti borghesi. Vi schiacciano, vi obbligano a prostrarvi. Diop colleziona i resti del mondo come un ladro di terreni abbandonati. Scatole Banania che odorano di razzismo ordinario. Pagine strappate di libri dadaisti. Metallo contorto. Tessuti carbonizzati. Tutto ciò che è svalutato, deteriorato, dimenticato. L’artista arriva in atelier con il suo bottino ed entra in trance, un chiodo in bocca, una graffettatrice e un martello nelle mani. Spesso sanguina mentre lavora. Il sangue finisce sull’opera. Ci sputa sopra.

La mostra parigina del 2022 realizzata presso Reiffers Art Initiatives sotto la guida dell’artista americano Kehinde Wiley, “La prossima volta, il fuoco”, porta un titolo preso in prestito dal libro di James Baldwin pubblicato nel 1963 [1]. Non è un caso. Baldwin scriveva in un’America lacerata dalla segregazione, dove i corpi neri venivano violati dal sistema ogni giorno. “Se ora non osiamo tutto, l’adempimento di questa profezia, ricreata dalla Bibbia in un canto di schiavi, è su di noi: Dio diede a Noè il segno dell’arcobaleno, Mai più acqua, la prossima volta il fuoco”, scriveva. Diop prende questa minaccia profetica come uno strumento. Il fuoco attraversa il suo lavoro. Nel 2020, alla vigilia della sua ammissione alle Belle Arti di Vienna, l’artista ha letteralmente dato fuoco al suo atelier berlinese. Aveva dipinto tutta la notte su grandi tavole nere, poi entrò in trance e bruciò tutto, rischiando di incendiare l’intero edificio. Una delle opere si chiama Alexandria, come la biblioteca andata in fumo. Questa distruzione purificatrice non è una performance adolescenziale. È una necessità esistenziale, un modo per tornare dagli inferi in un nuovo mondo.

La violenza in Diop non è mai gratuita. Nato a Parigi nel 1995 da padre senegalese, proveniente da un ambiente privilegiato a suo dire, l’artista afferma che sarebbe finito in prigione senza la pittura. Lo chiamavano “pitbull” quando giocava a calcio. Questa rabbia deriva da una storia personale e collettiva. Si sente violato ogni giorno nel rispetto che dovrebbe ricevere. Non nella sua intimità sessuale, ma nella sua dignità di essere umano. Approfitta del sistema patriarcale in quanto uomo, ma sente la violenza della vita in quanto uomo proveniente dall’immigrazione. Baldwin parlava di questa stessa violenza strutturale. Descriveva come la società bianca innocente, ignara delle proprie azioni, distruggesse sistematicamente gli uomini neri. Diop trasferisce questa constatazione nel linguaggio visivo della nostra epoca. I suoi personaggi smembrati, la loro anatomia e scheletro esposti alla vista di tutti, abitano un Olimpo dove non sono più vincolati dalle stesse leggi sociali e naturali. Si spogliano senza vergogna, mostrando la loro sofferenza e quanto siano spezzati dalla vita.

Baldwin cercava un’America che smettesse di considerarsi una nazione bianca e abbracciasse la sua vera natura multirazziale. Diop cerca un mondo in cui tutti siano rispettati. Le sue opere sono inviti alla pace, alla riunione, anche quando i soggetti sono violenti. Il fuoco che distrugge è anche quello che purifica e permette alla vita di manifestarsi. È lElemento che ha permesso llrischio della società, il calore umano che riscalda le persone. Lartista è rimasto particolarmente colpito da un viaggio in India dove ha visto corpi bruciati. Il fuoco come mezzo per andare in un aldilà. Questa idea di trasformazione permea tutto il suo lavoro. Gli oggetti che usa sono smontati, consumati. Le scritte che strappa dalle confezioni commerciali alimentano le sue tele. Le parole e le foto prelevate dai libri creano una poesia istantanea, automatica.

Se Diop richiama Baldwin, è per porre la stessa domanda che lo scrittore poneva nel 1963: voglio davvero essere integrato in una casa in fiamme? La risposta passa dalla rappresentazione di ciò che potremmo diventare in un futuro, di ciò che siamo stati in un passato, o di ciò che siamo in un altro presente. I suoi personaggi non sono necessariamente persone che esistono. A volte appare Malcolm X, o dei jazzisti. Un primate troneggia al centro di una delle sue nuove tele. Per Diop, la scimmia è la versione più evoluta dellomo, ciò che dovremmo essere. Ci crediamo intelligenti, ma guardiamo come trattiamo il mondo, lpurezza estrema e la sofferenza. Hai mai visto gorilla invadere la Corea del Sud in aereo, chiede con un umorismo mordace. Questa inversione delle gerarchie risuona con lurgenza di Baldwin. Se non cambiamo, verrà il fuoco. È già qui, nelle tele di Diop che sanguinano e gridano.

Ma lartista non lavora solo con leredità letteraria afroamericana. Si inscrive anche in una particolare linea artistica europea, quella del dadaismo nato a Zurigo nel 1916 [2]. Diop cita esplicitamente questo movimento. Possiede una copertina di libro Dada che ha strappato e incollato su una delle sue pitture. Il dadaismo era quellintenzione di disturbare le élite e i loro valori. Hugo Ball, Tristan Tzara, Jean Arp e gli altri dadaisti erano giovani uomini scandalizzati dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Volevano rompere con lart antico e lo spirito della società borghese. Irrespectosi delle convenzioni, cercavano di provocare per far reagire. Tzara proclamava che ciò che chiamiamo dada è una buffonata nata dal nulla. Il movimento metteva in evidenza uno spirito ribelle e caustico, un gioco con le convenienze, il suo rifiuto della ragione e della logica.

Diop riprende questo spirito di rivolta contro le istituzioni. È stato ammesso alle Belle Arti di Vienna nel 2020 ma non vi è rimasto. Lacademismo e le istituzioni non sono per lui. Come i dadaisti che trasformavano il Cabaret Voltaire in un luogo di scandali, Diop trasforma il suo atelier in un caos dove tutto è possibile. Parla di chiesa urbana per designare lo spazio espositivo. Etimologicamente, la parola religione deriva dal latino religare, legare le cose tra loro. Una chiesa urbana è un luogo in città dove si può raccogliersi e liberarsi. I suoi genitori gli hanno sempre spiegato che un artista deve essere radicato nella società e nella vita. Rappresenta un contro-potere. Lavora per il popolo, non per le gallerie o le istituzioni.

Questa posizione politica coincide con quella dei dadaisti berlinesi come Raoul Hausmann o John Heartfield, vicini all’ideologia socialista. Usavano il collage e il fotomontaggio come strumenti di satira politica. Hausmann ritagliava i corpi dai giornali come per ricordare i corpi massacrati durante la guerra. Questa tecnica permetteva loro di allontanarsi dal loro ruolo di artista nel senso tradizionale. Diop adotta un approccio simile con i suoi materiali trovati. Non si considera un pittore che cerca di creare illusioni. Mostra una realtà che viene già dal nostro mondo. Non cerca di creare qualcosa ma di mostrare ciò che le persone cercano forse di ignorare. Gli oggetti svalutati che mette sulla tela ritrovano un valore diverso, più potente.

Marcel Duchamp, figura centrale del dadaismo, aveva già operato questa mutazione con i suoi ready-made. Nel 1917 presentò la sua Fontaine, un orinatoio firmato R. Mutt. Duchamp dimostrava che l’atto di scegliere e di nominare un oggetto come opera bastava a conferirgli un valore artistico. Diop va oltre. Non si limita a presentare oggetti manufatti come arte. Li aggredisce, li smembra, li brucia, li rifonde in composizioni che urlano. I suoi dipinti concentrano un accumulo di materiali tanto diversi quanto monete, tessuti, tondini di metallo, pagine di libro. Questi oggetti formano la sua tavolozza di pittore. Li trova nelle rottamiere, per strada, in magazzini o case abbandonate dove si introduce come un ladro.

Il suo lavoro di raccolta è legato alla nozione di proibito. A Berlino passava le giornate a recuperare oggetti in bicicletta. Si piazzava in posti dove c’erano solo senzatetto. Lui stesso sembrava un barbone. È stato anzi arrestato e ammanettato più volte. Il carrello pieno di oggetti lasciato nel suo atelier è la strada, la povertà. È una metafora del suo lavoro: non dimenticare gli dimenticati, rappresentare ciò che puzza, ciò che è difficile da vedere. È anche andare a vedere la violenza, la miseria, il criminale. Questo approccio ricorda l’Arte Povera italiana che usava materiali poveri e non convenzionali. Ma mentre l’Arte Povera cercava spesso una dimensione poetica, Diop inietta un’urgenza politica e una rabbia viscérale nei suoi assemblaggi.

I suoi riferimenti alla storia dell’arte non sono mai neutrali. Quando riprende l’Olympia di Manet ne Le Mensonge d’État, usa testo, legno, cerniere di porte e plastica. Incorpora una copertina strappata di Civilisation ou Barbarie, opera principale dello storico africano Cheikh Anta Diop. Il dipinto di Manet aveva scandalizzato il Salon del 1863. Alexandre Diop aggiunge un ulteriore strato interrogando le bugie di Stato e le costruzioni coloniali della storia. Allo stesso modo, la sua opera “Honi soit qui mal y pense” rivisita La Grande Odalisque di Ingres. Questi riferimenti ai nudi femminili della storia dell’arte europea sono deliberatamente riappropriati e sabotati. L’artista non cerca di celebrare questi capolavori ma di deviarli, di far loro dire qualcos’altro sul potere e sulla violenza strutturale.

La monumentalità dei suoi formati, a volte più di tre metri, modifica radicalmente il rapporto che lo spettatore ha con l’opera. La pittura non può essere un oggetto decorativo domestico. Il suo uso dell’oro cerca di conferire loro una qualità sacrale, di obbligare lo spettatore a prosternarsi. Le sue opere sono pericolose. Letteralmente, possono ucciderti se ti cadono addosso. Questa dimensione fisica del rischio è assente nel dadaismo storico. Diop aggiunge il pericolo corporeo reale alla provocazione intellettuale. Le sue tele urlano, e questo urlo non è metaforico. È il primo urlo del neonato, i primi pianti. La violenza che tutti conosciamo alla nascita.

Cosa rende il lavoro di Diop così disturbante, così necessario nel 2025? È che rifiuta ogni consolazione estetica. Le sue opere non sono belle nel senso convenzionale. Sono potenti, terrificanti, monumentali. Portano le tracce della loro fabbricazione: il sangue dell’artista, le bruciature, gli strappi. Odorano di sudore, rabbia, disperazione. Ma portano anche la folle speranza di un mondo dove gli dimenticati sarebbero visti, dove i rifiutati avrebbero un valore, dove la violenza strutturale sarebbe nominata e combattuta. Diop non propone soluzioni facili. Mostra semplicemente ciò che è: la violenza del mondo, la sofferenza dei corpi, la menzogna delle istituzioni. E in questo rifiuto dell’illusione, in questo confronto brutale con il reale, apre una breccia.

Questa breccia è quella che Baldwin cercava quando scriveva sul fuoco che sarebbe venuto se non avessimo cambiato. È quella che i dadaisti cercavano quando urlavano le loro poesie fonetiche al Cabaret Voltaire. È quella che Diop scava a colpi di martello nel suo atelier viennese. Una breccia nella menzogna, nell’oblio, nella violenza normalizzata. Una breccia da cui potrebbe passare qualcosa di nuovo. Non un’utopia. Non un mondo perfetto. Ma un mondo in cui le persone si vedrebbero davvero l’una l’altra, in cui accetterebbero la loro nudità comune, la loro fragilità condivisa. Un mondo in cui il primate sarebbe la versione più evoluta dell’uomo, perché non fa la guerra, perché non costruisce sistemi di oppressione.

Le opere di Diop esistono in questo spazio fra disperazione e speranza, fra distruzione e creazione. Sono immagini-oggetto, come le chiama lui. Né dipinti né sculture ma qualcosa di più vivo, di più pericoloso. Rifiutano la facile categorizzazione. Oscillano fra figurazione e astrazione, fra riferimento colto e materiale grezzo. Accumulano strati di significato senza mai fissarsi in un’interpretazione unica. È questa molteplicità che ne fa la forza. Diop non ti dice cosa devi pensare. Ti mostra ciò che esiste e ti lascia fare la tua strada. Ma le sue tele di tre metri ti obbligano a sollevare la testa. Il loro peso fisico ti ricorda che potrebbero schiacciarti. La loro complessità visiva ti costringe a guardare a lungo, a cercare i dettagli, a decifrare le iscrizioni.

E in questo sguardo prolungato, qualcosa accade. Inizi a vedere le connessioni. La scatola Banania e il razzismo coloniale. Le pagine strappate e la violenza contro i libri. Il metallo contorto e i corpi spezzati. L’oro e la sacralità rubata. Il fuoco e la purificazione necessaria. Tutto si tiene insieme. Tutto racconta la stessa storia di un mondo da distruggere e ricostruire. Diop lavora con urgenza. Entra in trance. Disegna direttamente sulla tela senza schizzo preparatorio. Prende oggetti dallo studio, li mescola, li strappa, li taglia, li brucia. Questa spontaneità non è affatto ingenua. Si basa su una profonda conoscenza della storia dell’arte, della letteratura, della storia politica. Ma rifiuta di farsi paralizzare da questa conoscenza. Agisce.

Guardare un dipinto di Diop significa confrontarsi con la propria posizione nel mondo. Significa chiedersi: dove mi colloco in questa violenza? Ne approfitto? La subisco? La combatto? Queste domande non sono confortevoli. L’arte che conta non è mai confortevole. Disturba. Provoca. Costringe a pensare. È esattamente ciò che facevano Baldwin con i suoi saggi incendiari e i dadaisti con le loro performance scandalose. È ciò che fa Diop con i suoi assemblaggi monumentali. Ci obbliga a vedere ciò che preferiremmo ignorare. Gli dimenticati. I rifiutati. I violati. Ma ci mostra anche che questi dimenticati possiedono una creatività, una capacità di adattamento, una ricchezza di valori che la società dominante non riconosce.

Questa posizione è politica. Lo è sempre stata. Diop lo rivendica. L’arte è un atto di emancipazione, dice. Nessuna norma creata da altri limita il suo approccio alla vita, al pensiero e al processo creativo. Rifiuta i limiti materiali o i confini del medium. Questa libertà non è gratuita. Si conquista a colpi di chiodi e martello. Si paga con sangue e sudore. Ma produce opere che hanno una rara potenza nell’arte contemporanea. Una potenza che non cerca né di piacere né di scandalizzare per il solo gusto di scandalizzare. Una potenza che proviene da una necessità interiore assoluta.

Ecco cosa bisogna ricordare di Alexandre Diop nell’anno 2025 [3]. Rappresenta una voce singolare che rifiuta i compromessi, che mantiene una rigorosa esigenza etica ed estetica senza concessioni. Le sue opere continueranno a evolversi, a cambiare, a incrinarsi. Continueranno a testimoniare i valori intrinseci dell’uomo creatore. Continueranno a porre la domanda fondamentale che Baldwin poneva più di sessant’anni fa: vogliamo davvero essere integrati in una casa in fiamme? O preferiamo bruciare quella casa e costruirne una nuova, dove ciascuno abbia il suo posto, dove nessuno sia dimenticato, dove la violenza strutturale sia nominata e combattuta? Diop non dà la risposta. Pone la domanda. E in questa domanda ardente, urgente e necessaria risiede tutta la forza della sua arte.


  1. James Baldwin, The Fire Next Time, New York, Dial Press, 1963.
  2. Il movimento dadaista nacque a Zurigo nel 1916 al Cabaret Voltaire, fondato da Hugo Ball, Tristan Tzara, Jean Arp e altri artisti e scrittori che fuggivano dalla Prima Guerra Mondiale.
  3. Alexandre Diop espone attualmente anche a Londra alla Stephen Friedman Gallery. Mostra individuale intitolata Run For Your Life !, dal 19 settembre al 1º novembre 2025.
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Riferimento/i

Alexandre DIOP (1995)
Nome: Alexandre
Cognome: DIOP
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Francia
  • Senegal

Età: 30 anni (2025)

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