Ascoltatemi bene, banda di snob: Ben Sledsens dipinge l’antidoto al vostro cinismo. Nei suoi dipinti monumentali, questo trentenne di Anversa trasforma la banalità del quotidiano in epiche colorate dove si mescolano favole d’infanzia e reminiscenze pittoriche. Se cercate l’arte contemporanea che lusinga le vostre nevrosi urbane e le vostre angosce esistenziali, passate oltre. Sledsens crea qualcos’altro: un universo parallelo dove la bellezza non ha vergogna di sé stessa.
Formato all’Accademia Reale di Belle Arti di Anversa, Sledsens attinge all’iconografia di Henri Rousseau, Henri Matisse e Pieter Bruegel il Vecchio per costruire la sua mitologia personale. Le sue composizioni di una ingenuità calcolata ci immergono in foreste con alberi geometrici, interni saturi di colori impossibili, scene di caccia dove le donne sostituiscono gli uomini tradizionali. L’artista stesso ammette: “Non lavoro mai in vista di una mostra, ma da un’opera all’altra; in questo modo, un certo lavoro mi ispira a iniziarne un altro” [1]. Questo approccio organico genera un corpus coerente in cui ogni tela dialoga con le altre, creando un mondo fittizio che trascende i limiti della cornice.
Il pittore belga sviluppa un linguaggio visivo che prende in prestito dai maestri pur mantenendo un singolare tratto distintivo. I suoi paesaggi monocromatici giallo limone o i suoi ritratti dalle carnagioni rosate ricordano le audacie fauve, ma qui opera qualcos’altro. Sledsens manipola la prospettiva con la disinvoltura di un miniaturista medievale e la sofisticazione tecnica di un post-impressionista. I suoi personaggi si muovono in scenari dove la logica spaziale cede il passo all’emozione pura. Quando dipinge “Nella foresta gialla” (2022), trasforma un semplice sottobosco in una cattedrale luminosa dove il colore diventa quasi allucinogeno.
Questa estetica dell’incanto trova le sue radici in un’infanzia nutrita di racconti e leggende. L’artista spiega: “La dimensione narrativa deriva involontariamente dalla mia infanzia, dove favole e mitologia hanno avuto un ruolo. Ho vividi ricordi di mio nonno che mi leggeva storie alla buonanotte, lasciando un’impressione duratura” [2]. Questa confessione illumina l’intera sua opera: Sledsens dipinge con la sincerità di un bambino che scopre il mondo e la tecnica di un virtuoso che domina perfettamente il suo mezzo. Le sue volpi, i suoi corvi, le sue cacciatrici si muovono in un bestiario umanizzato dove ogni animale porta un carico simbolico ereditato dalle favole di Esopo.
L’aspetto più interessante di questa pittura risiede nella sua capacità di creare una cosmogonia coerente senza cadere nell’ermetismo. Sledsens sviluppa un sistema di personaggi ricorrenti: il Vagabondo (che lo rappresenta stesso), la Cacciatrice (che incarna la sua compagna Charlotte De Geyter), gli animali archetipici. Queste figure evolvono da una tela all’altra, creando una continuità narrativa che trasforma ogni mostra in un capitolo di un romanzo visivo più ampio. Contrariamente agli artisti contemporanei ossessionati dalla decostruzione e dall’ironia, Sledsens assume pienamente il piacere di raccontare storie.
L’influenza della letteratura fantastica permea profondamente l’universo di Sledsens, particolarmente quella delle fiabe popolari europee che strutturano il nostro immaginario collettivo da secoli. Come nei racconti dei fratelli Grimm o di Charles Perrault, le foreste di Sledsens nascondono misteri dove l’ordinario si trasforma in straordinario. Le sue composizioni ricordano quei momenti di suspense narrativa in cui tutto può cambiare: la calma prima della tempesta, l’incontro inatteso dietro a un sentiero, l’istante che precede la rivelazione. Questa temporalità particolare, che l’artista stesso definisce “istanze di climax”, trasforma ogni tela in un racconto potenziale.
In “La Cacciatrice e il Vagabondo” (2020), Sledsens orchestra un incontro enigmatico tra i suoi due avatar principali. La composizione evoca irresistibilmente l’universo delle fiabe meravigliose: due personaggi si fronteggiano in un ambiente forestale stilizzato, i loro atteggiamenti suggeriscono un dialogo muto carico di sottintesi. Come nelle migliori fiabe, il visibile nasconde l’invisibile, e lo spettatore diventa complice di una storia i cui sviluppi deve intuire. Questa capacità di mantenere l’ambiguità narrativa senza cadere nell’oscurità distingue Sledsens da molti artisti contemporanei che confondono mistero e confusione.
L’artista attinge anche alla tradizione letteraria del meraviglioso domestico, quella vena che trasforma l’ambiente familiare in un teatro di eventi straordinari. I suoi interni saturi di colori, i suoi giardini con prospettive impossibili, i suoi salotti invasi da una vegetazione lussureggiante evocano l’estetica delle fiabe in cui la magia si insinua nella quotidianità più banale. Questa contaminazione del reale da parte dell’immaginario si manifesta in Sledsens con una sottigliezza notevole: le sue anomalie cromatiche e le sue deformazioni prospettiche si impongono progressivamente allo sguardo, creando una sensazione di straniamento familiare particolarmente efficace.
La dimensione folkloristica del suo lavoro si arricchisce di una conoscenza approfondita dei motivi tradizionali europei. I suoi animali portano il carico simbolico accumulato da secoli di tradizione orale: la volpe astuta, il corvo messaggero, l’orso protettore. Ma Sledsens evita la trappola del pittoresco aggiornando questi archetipi in un linguaggio plastico contemporaneo. Le sue creature ibride tra realismo e stilizzazione evocano contemporaneamente l’arte popolare e la sofisticazione museale, creando un ponte tra cultura colta e immaginario collettivo.
Il rapporto di Sledsens con l’architettura rivela una dimensione supplementare del suo genio creativo, particolarmente visibile nel suo modo di concepire lo spazio pittorico come un ambiente abitabile. A differenza dei pittori che trattano la tela come una superficie piana, Sledsens costruisce vere architetture visive in cui lo spettatore può mentalmente entrare e passeggiare. Le sue composizioni si organizzano secondo una logica spaziale che deve tanto ai maestri fiamminghi quanto agli architetti contemporanei.
Questo approccio architettonico si manifesta innanzitutto nella sua gestione della profondità di campo. Sledsens stratifica lo spazio in piani successivi che si incastrano come i pezzi di un edificio complesso. I suoi primi piani traboccano spesso di elementi decorativi (fiori, oggetti, personaggi) che funzionano come soglie d’ingresso nell’immagine. I suoi sfondi si organizzano in prospettive calcolate che guidano lo sguardo verso punti di fuga sapientemente orchestrati. Questa costruzione sapiente dello spazio ricorda le architetture dipinte del Rinascimento mantenendo però una libertà di trattamento risolutamente contemporanea.
L’influenza dell’architettura fiamminga tradizionale traspare nei suoi interni dai volumi generosi e dai dettagli accuratamente repertoriati. Sledsens dipinge salotti borghesi con boiserie colorate, verande invase dalla vegetazione, camere con carte da parati cangianti che evocano l’arte di vivere di Anversa. Ma trasfigura questi spazi familiari saturandoli di colori impossibili e introducendo elementi onirici che perturbano la logica decorativa abituale. Un salotto rosa confetto, una camera con pareti blu elettrico, un giardino d’inverno con piante geometriche: Sledsens trasforma l’architettura domestica in un décor da fiaba.
Questa sensibilità architettonica si esprime anche nel modo in cui compone i suoi paesaggi. Le sue foreste si organizzano secondo una geometria rigorosa dove ogni albero trova il suo posto in un insieme armonioso. Le sue radure disegnano spazi teatrali perfettamente delimitati dove possono dispiegarsi le sue messa in scena narrative. Le sue montagne e i suoi laghi creano orizzonti che strutturano lo spazio pittorico con la precisione di un urbanista. Questa padronanza dello spazio rivela in Sledsens una comprensione intuitiva delle leggi dell’architettura che arricchisce considerevolmente la sua tavolozza espressiva.
L’artista trasforma anche le sue tele in veri ambienti immersivi grazie ai formati monumentali. Le sue grandi tele (spesso superiori ai due metri) creano un rapporto fisico particolare con lo spettatore che si trova letteralmente avvolto dall’immagine. Questa dimensione ambientale avvicina Sledsens agli architetti contemporanei che progettano spazi totali destinati a trasformare l’esperienza sensoriale dei visitatori. Le sue mostre diventano così percorsi architettonici in cui ogni opera dialoga con lo spazio espositivo per creare un’atmosfera globale.
Il successo commerciale di Sledsens infastidisce alcuni puristi che vi vedono la prova di un compromesso con il mercato dell’arte. I prezzi raggiunti dalle sue opere all’asta (più di 250.000 dollari per “Two Bathers” nel 2022) testimoniano un entusiasmo che va ben oltre il cerchio degli iniziati. Ma questa popolarità riflette forse semplicemente la capacità dell’artista di creare immagini che parlano al nostro tempo senza rinunciare alle loro ambizioni estetiche. In un mondo saturo di ironia e negatività, Sledsens osa proporre una visione positiva dell’arte e dell’esistenza.
I suoi collezionisti non si sbagliano: comprano frammenti di utopia, pezzi di sogno cristallizzati nella pittura. Tim Van Laere, il suo gallerista storico, non dice altro quando afferma che “Ben crea il proprio mondo: un universo alternativo, una sorta di utopia” [3]. Questa dimensione catartica del suo lavoro risponde a un bisogno profondo della nostra epoca disincantata. Sledsens offre un’alternativa credibile al pessimismo ambientale senza cadere nella banalità o nella cecità volontaria.
La tecnica di Sledsens è particolarmente interessante. Combina acrilico, olio e a volte vernice spray per creare texture di una ricchezza sorprendente. I suoi verdi muschio, i suoi rosa polverosi, i suoi blu elettrici sembrano uscire direttamente da un manuale di colorimetria immaginaria. Questa padronanza del mestiere, acquisita durante la sua formazione accademica, gli permette tutte le audacie cromatiche senza mai cadere nell’arbitrario decorativo. Ogni colore trova la sua giustificazione nell’economia generale dell’opera.
La lentezza della sua produzione (un mese per tela) rivela un artista perfezionista che privilegia la qualità alla quantità. Questo approccio artigianale contrasta con la produzione industriale di molti artisti contemporanei. Sledsens dipinge come un miniaturista medievale, accumulando dettagli con la pazienza di un orafo. Questa temporalità particolare imprime alle sue opere una densità visiva che ricompensa l’attenzione prolungata dello spettatore.
L’evoluzione recente di Sledsens verso la scultura in ceramica arricchisce ancora il suo vocabolario plastico. I suoi vasi dipinti esplorano le relazioni tra superficie e volume, tra bidimensionalità e tridimensionalità. Questa diversificazione tecnica testimonia una curiosità artistica che rifiuta la prigionia in una formula collaudata. L’artista spiega: “C’è una lunga storia della forma e della funzione del vaso in quasi tutte le culture sviluppate” [4]. Questa coscienza storica alimenta la sua ricerca contemporanea di un linguaggio plastico personale.
Ben Sledsens inventa una pittura della felicità che evita le trappole della melassa grazie alla sua sofisticazione tecnica e alla sua cultura artistica. Dimostra che si può creare un’arte popolare senza essere populisti, un’arte accessibile senza essere semplicistica. Le sue opere riconciliano infine bellezza e intelligenza, piacere estetico e profondità concettuale. In un panorama artistico spesso dominato dalla nevrosi e dall’auto-flagellazione, Sledsens propone una via alternativa: quella dell’incanto consapevole e della gioia di dipingere.
- Camilla Boemio, “Ben Sledsens”, Guida del curatore, gennaio 2024
- Ibid.
- “Libro della settimana: Ben Sledsens”, Imagicasa, marzo 2025
- “Ben Sledsens presenta nuove pitture e sculture alla Tim Van Laere Gallery”, Club Paradis, 2022
















