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Bronwyn Oliver : La poetica del metallo intrecciato

Pubblicato il: 20 Maggio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 13 minuti

Bronwyn Oliver trasforma il metallo in forme organiche che sembrano respirare. Lavorando meticolosamente il rame filo per filo, crea strutture areate che catturano la luce e proiettano ombre complesse. Le sue sculture esplorano la tensione tra pieno e vuoto, diventando presenze vive nello spazio.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Vi parlerò di un’artista che ha trasformato fili di rame ordinari in poesia visiva, e la cui visione trascende le categorie facili in cui cercate continuamente di rinchiudere l’arte. Bronwyn Oliver, questa scultrice australiana prematuramente scomparsa nel 2006, non era semplicemente un’artista che creava bei oggetti, era un’architetta dell’invisibile, una matematica della forma, che cercava di catturare l’essenza stessa dell’esistenza.

Dimenticate quello che pensate di sapere sulla scultura contemporanea. L’opera di Oliver non si iscrive nelle tendenze effimere o nelle mode passeggere che ossessionano il mondo dell’arte. In un’epoca in cui tanti artisti si orientavano verso l’installazione, il video e altre forme d’arte effimere, Oliver ha risolutamente perseguito la sua ricerca per creare opere complesse e sostanziali, prima in carta e fibre di vetro, poi esclusivamente in metallo. Le sue sculture sfidano la nostra comprensione convenzionale di cosa possa essere un oggetto tridimensionale.

Quando osservo un’opera come “Hatchery” (1991), questa forma di corno di ariete in rame che ospita tre uova nella sua cavità, non vedo semplicemente un oggetto decorativo, ma una meditazione profonda sulla protezione, la gestazione e la vulnerabilità. La stessa Oliver ha detto: “Cerco di creare la vita. Non nel senso di esseri, animali, piante o macchine, ma ‘la vita’ nel senso di una sorta di forza. Una presenza, un’energia nei miei oggetti a cui un essere umano può rispondere a livello dell’anima o dello spirito” [1]. Questa ricerca spirituale fa di Oliver non una semplice artigiana, ma una vera filosofa della forma.

C’è qualcosa di profondamente paradossale nel suo lavoro. Le sue sculture in rame sembrano al contempo arcaiche e futuriste, organiche e geometriche, massive e leggere. Prendete “Globe” (2002), questa sfera di tre metri di diametro installata presso l’Università del Nuovo Galles del Sud, l’opera occupa lo spazio con autorità, ma la sua struttura traforata permette all’aria e alla luce di attraversarla, creando un gioco di ombre che diventa parte integrante dell’esperienza. È come se Oliver avesse capito che la materia è solo una manifestazione temporanea di energie più profonde.

Ciò che colpisce immediatamente nell’opera di Oliver è la sua maestria tecnica. Ogni scultura rappresenta mesi di lavoro meticoloso, di torsione e saldatura di fili di rame. Questo approccio laborioso non può non ricordare l’arte medievale, dove la devozione si manifestava attraverso l’attenzione minuziosa ai dettagli. Nella nostra cultura dell’immediato e usa e getta, il lavoro di Oliver costituisce un atto di resistenza, una celebrazione della lentezza e della contemplazione.

Ma ridurre la sua arte alla tecnica sarebbe un errore grossolano. Oliver ha espressamente contestato questo approccio quando ha risposto allo storico dell’arte Graeme Sturgeon, che poneva troppo enfasi sull’aspetto artigianale del suo lavoro: “Ritengo che il riferimento all’aspetto artigianale del mio lavoro banalizzi le mie intenzioni. L’artigianato della realizzazione è importante solo al servizio di un’idea. È l’impegno verso l’idea che conta” [2]. E che idea! Oliver cercava di creare oggetti che trascendessero la loro materialità per diventare portali verso un’altra dimensione dell’esistenza.

Se si vuole davvero comprendere la profondità dell’opera di Oliver, bisogna esaminarla attraverso il prisma della poetica dello spazio. Non quella teorizzata da Gaston Bachelard, ma quella che emerge dall’incontro tra il vuoto e la forma, tra l’interno e l’esterno. Oliver era ossessionata da questa dialettica, questa tensione fertile tra ciò che contiene e ciò che è contenuto.

In “Siren” (1986), questa conchiglia gigante in carta, fibra di vetro e canna, la cui apertura rivela un interno rosa e intimo, Oliver invita lo spettatore a esaminare lo spazio interno della scultura. Questo rapporto tra interno ed esterno costituisce una preoccupazione costante nel suo lavoro. Come ha dichiarato: “Cerco di attirare l’attenzione sullo spazio interno nel mio lavoro. Cerco di energizzare il vuoto. L’esterno dell’opera è una descrizione del potenziale nel vuoto all’interno. L’ombra comprime il vuoto” [3].

Questa preoccupazione per lo spazio interno non è semplicemente formale, è profondamente filosofica. Nella tradizione occidentale, tendiamo a pensare in termini di sostanze solide, di materialità concreta. Ma Oliver, forse influenzata dalla sua formazione alla Chelsea School of Art di Londra e dai suoi soggiorni in Francia, ha sviluppato una sensibilità che valorizza tanto il vuoto quanto la pienezza, l’assenza quanto la presenza.

Prendete “Vine” (2005), questa scultura monumentale alta 16,5 metri che si erge nella hall dell’Hilton di Sydney come una liana fantastica. Realizzata con 380 chilogrammi di alluminio, sfida la gravità, creando un’impressione di leggerezza e di movimento ascendente. Non è semplicemente un esercizio tecnico, è una meditazione su come lo spazio possa essere attivato, energizzato, trasformato dalla presenza di una forma che sembra allo stesso tempo solida ed evanescente.

Oliver era affascinata dalle strutture che sembrano emergere dall’interno verso l’esterno, come se fossero generate da una forza vitale invisibile. Le sue opere spesso danno “indizi criptici della loro fabbricazione”, come ha osservato la sua biografa Hannah Fink [4]. Questa qualità autopoietica, questa impressione che le sculture si siano in qualche modo create da sé, conferisce al suo lavoro un’aura di mistero e autonomia.

In “Eddy” (1993), una forma serpentina che sembra catturare il movimento di un vortice congelato nel metallo, Oliver riesce a tradurre un fenomeno dinamico e fluido in una struttura solida e duratura. Così facendo, ci invita a ripensare la nostra comprensione della materia e dell’energia, a vedere come le forze invisibili che plasmano il nostro mondo possano essere rese tangibili e visibili attraverso l’arte.

La relazione tra l’opera e la sua ombra è inoltre fondamentale nella poetica spaziale di Oliver. Come ha notato Julie Ewington, curatrice della mostra retrospettiva di TarraWarra, le ombre proiettate dalle sue sculture “fanno concorrenza alle sculture stesse e le perseguitano”. Questi disegni spettrali sulle pareti moltiplicano la fisicità delle opere, creando una dimensione aggiuntiva che trascende la semplice materialità dell’oggetto.

Se la poetica dello spazio costituisce una chiave essenziale per comprendere l’opera di Oliver, il suo rapporto con la scrittura e il linguaggio offre una prospettiva interessante. Oliver era profondamente interessata alla calligrafia, al modo in cui i movimenti della mano traducono il pensiero in segni visibili. Questa preoccupazione è particolarmente evidente in opere come “Trace” (2001), dove la scultura sembra incarnare il flusso di una scrittura tridimensionale.

“Formando lettere per fare parole, la penna si alza e si abbassa contro la carta in un ritmo legato al significato delle parole e allo spirito dello scrittore”, spiegava Oliver. “La forma tridimensionale della scultura si alza e si abbassa contro il muro, a volte restringendosi, a volte gonfiandosi, a volte sovrapponendosi o curvandosi su se stessa, ma sempre in un movimento continuo come se sprigionasse da una ‘mano’ invisibile” [5].

Questa analogia con la scrittura non è superficiale. Rivela una comprensione profonda di come il pensiero si incarni in gesti fisici, di come le idee astratte prendano forma nel mondo materiale. Oliver ha paragonato il suo lavoro a una fuga di Bach, “qualcosa di formale con vita”, suggerendo che, come nella musica del compositore tedesco, le sue sculture cercano un equilibrio perfetto tra struttura matematica ed espressione emotiva.

In quanto esperta di maglieria e cucito, Oliver vedeva parallelismi tra queste attività tradizionalmente femminili e il suo lavoro di scultrice. “Tutta quella faccenda dei grossi pesi”, diceva parlando della saldatura e della brasatura, “è solo cucito” [6]. Questa prospettiva sovversiva sfida le gerarchie convenzionali che separano le belle arti dall’artigianato, il lavoro intellettuale dal lavoro manuale.

Il rapporto di Oliver con il linguaggio si manifesta anche nei titoli che dava alle sue opere. Parole semplici, spesso monosillabiche, “Globo”, “Lucchetto”, “Traccia”, “Palmo”, che risuonano come incantesimi poetici, aprendo spazi di significato senza imporre interpretazioni rigide. Questi titoli funzionano come inviti piuttosto che spiegazioni, creando un campo semantico aperto dove l’immaginazione dello spettatore può vagare liberamente.

In “Web” (2002), Oliver ha letteralmente cucito insieme pezzi di rame con filo metallico, creando una struttura che evoca sia una tela di ragno sia una rete complessa. Quest’opera incarna perfettamente la sua concezione della scultura come una forma di scrittura spaziale, in cui ogni connessione, ogni giuntura, contribuisce a un sistema di significati complesso e organico.

Oliver ha spesso utilizzato forme a spirale nel suo lavoro, un motivo che appare con una “regolarità metronomica”, secondo Helen Hughes. Che evochi la conchiglia di una lumaca, un vortice o una coclea umana, la spirale rappresenta una figura profondamente significativa: “La linea di una spirale ritorna su se stessa avanzando verso un altro luogo; culmina anche in un’apertura, suggerendo, come ha scritto Svetlana Boym a proposito della spirale diagonalmente ascendente del Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin, ‘l’infinita finalità, e non la sintesi'” [7].

Questa apertura, questo rifiuto della chiusura, caratterizza l’insieme dell’opera di Oliver. Nonostante la solidità del suo medium, quasi tutte le sue sculture affermano un’apertura essenziale, un rifiuto di essere chiuse, introspettive o di voltare le spalle al mondo. Invitano lo sguardo a attraversarle, a esplorare i loro interni misteriosi, a seguire i loro contorni come si segue il filo di un pensiero o i meandri di un testo poetico.

C’è qualcosa di alchemico nel lavoro di Oliver, una trasformazione profonda che va ben oltre la semplice modellazione del metallo. Le sue sculture, con le loro patine verdi e marroni, evocano oggetti archeologici, manufatti di una civiltà scomparsa o reliquie di un futuro lontano. Esistono in un tempo che non è del tutto il nostro, sfidando la temporalità lineare per collegarci a ritmi più profondi e ciclici.

La critica d’arte Hannah Fink ha giustamente osservato che Oliver “aveva questa rara abilità: sapeva come creare la bellezza” [8]. Ma questa bellezza non è mai superficiale o decorativa. Essa emerge da un confronto onesto con la materia, da una comprensione profonda delle sue proprietà e potenzialità. Il rame, con la sua duttilità e la capacità di sviluppare una patina ricca nel tempo, era il materiale perfetto per le sue esplorazioni della forma e del tempo.

Alcune sue opere evocano forme biologiche, conchiglie, artigli, nidi, piume, ma Oliver ha sempre resistito all’idea che il suo lavoro fosse “fondato sulla natura”. Come ha dichiarato fermamente a Graeme Sturgeon, che insisteva su questa interpretazione: “Non ho osservato né imparato dalla natura. Non sono, e non ero allora, “tentata di ottenere un risultato simile applicando gli stessi principi strutturali trovati in natura.” Non interessata. Sono interessata a cosa i materiali possono fare” [9].

Questa insistenza sull’autonomia del suo lavoro rispetto alle forme naturali è significativa. Suggerisce che Oliver vedeva le sue sculture non come imitazioni o rappresentazioni, ma come entità a sé stanti, che esistono secondo le proprie leggi e logiche. Come ha spiegato, cercava di fare in modo che il suo lavoro fosse sia, sia nessuno dei due, organico e artificiale, e sperava che le sue opere migliori potessero “fluttuare tra le due possibilità di creazione”.

Questa posizione ambigua, questa oscillazione tra diverse categorie ontologiche, conferisce all’opera di Oliver una qualità veramente unica. Le sue sculture non sono né astratte né figurative, né concettuali né espressioniste, né minimaliste né barocche, o meglio, sono tutto ciò insieme, trascendendo le dicotomie facili per creare un’esperienza estetica che sfida la categorizzazione.

Prendete “Big Feathers” (1999), queste due grandi forme a forma di piume sospese sopra il centro pedonale di Queen Street a Brisbane. Al di là della loro bellezza formale, queste sculture stabiliscono “la storia delle parate di Queen Street nonché la connessione della passeggiata tra la terra e il cielo” [10]. Funzionano simultaneamente come oggetti estetici e come marcatori simbolici, creando uno spazio di risonanza tra il quotidiano e il cosmico, il materiale e lo spirituale.

Questa capacità di infondere a forme apparentemente semplici un significato profondo e multistrato distingue Oliver dagli scultori più letterali o didattici. Le sue opere non dicono cosa pensare o sentire, creano condizioni in cui può emergere un’esperienza autentica, dove lo spettatore diventa un partecipante attivo nella creazione del senso.

C’è una certa ironia nel fatto che l’opera di Oliver, così profondamente interessata alla connessione e alla relazione, sia stata creata in un isolamento relativo. Descritta come “reclusa” e “molto riservata”, manteneva una distanza deliberata tra sé stessa e il mondo dell’arte più ampio, preferendo concentrarsi intensamente sul proprio processo creativo piuttosto che partecipare ai giochi sociali e politici che animano così spesso la scena artistica contemporanea.

Questa solitudine non era semplicemente una preferenza personale, era intrinseca alla sua pratica artistica. Il processo di creazione delle sue sculture era fisicamente impegnativo e solitario, implicando ore infinite di lavoro meticoloso con materiali ostinati. Le sue mani sanguinavano spesso a causa dei tagli causati dal filo di rame. Questa dimensione corporea, questo confronto diretto con la materia, è essenziale per comprendere la profondità del suo impegno.

Oliver lavorava con una disciplina quasi monastica, svegliandosi alle 5 del mattino (usando tre sveglie per assicurarsi di non perdere l’orario), facendo una corsa di sette chilometri prima di colazione, poi lavorando fino alle 23. Questo rigido regime, associato a una dieta rigorosa basata su cereali, frutta e verdura, escludendo la carne, testimonia una devozione totale alla sua arte che rasentava l’ascetismo.

È allettante vedere in questa intensità una spiegazione della sua tragica fine. Nel 2006, all’età di 47 anni, Oliver si è suicidata per impiccagione nel suo studio. Analisi postume hanno rivelato livelli tossici di rame nel suo organismo, nove volte la quantità normale, forse dovuti alla sua prolungata esposizione al materiale delle sue sculture. Il rame, che era stato il mezzo della sua espressione artistica, era diventato letteralmente parte di lei, forse contribuendo al suo stato mentale negli ultimi anni della sua vita.

Ma ridurre la sua vita e la sua opera a questa tragica fine sarebbe un errore. La potenza delle sue sculture trascende le circostanze della loro creazione, parlando a noi con una chiarezza e una vitalità che sfidano il tempo. Come ha osservato John McDonald: “Tutte le cose che sono state recentemente dette su Oliver, che era bella, intelligente, affascinante, potrebbero essere dette anche sul suo lavoro” [11].

Ciò che resta sono questi oggetti straordinari che continuano a catturare la nostra immaginazione e stimolare il nostro pensiero. Opere come “Unity” (2001), con le sue curve voluttuose e la sua struttura ariosa, che appare allo stesso tempo solida ed eterea, sostanziale e immateriale. O “Shield” (1995) e “Wrap” (1997), quei rari pezzi che contraddicono l’apertura essenziale della maggior parte delle sue sculture, suggerendo temi di protezione, isolamento, forse persino rinchiudimento.

Nonostante queste occasionali note di malinconia, l’opera di Oliver è fondamentalmente affermativa, celebrando la bellezza e la complessità del mondo materiale mentre indica dimensioni di esperienza che vanno oltre la semplice materialità. Le sue sculture ci invitano a vedere il mondo con occhi nuovi, a notare come la luce giochi sulle superfici, come le forme emergano dallo spazio, come il vuoto e la pienezza si definiscono reciprocamente.

L’opera di Bronwyn Oliver ci ricorda perché l’arte è importante. In un mondo sempre più virtuale e disincarnato, le sue sculture ci ancorano alla realtà fisica, invitandoci a un incontro diretto e non mediato con la materia trasformata dall’immaginazione umana. Ci ricordano che la bellezza non è un lusso ma una necessità, un’espressione della nostra capacità fondamentale di trovare senso e valore nella nostra esistenza incarnata.

Come ha detto la stessa Oliver: “Il mio lavoro riguarda la struttura e l’ordine. È una ricerca di un tipo di logica: una logica formale, scultorea e poetica. È un processo concettuale e fisico di costruzione e ritiro allo stesso tempo. Cerco di spogliare le idee e le associazioni fino a (fisicamente e metaforicamente) soltanto le ossa, esponendo la vita ancora contenuta all’interno” [12].

In questo spogliare, questa riduzione all’essenziale, Oliver ha trovato una ricchezza e una profondità che continua a parlarci, invitandoci a esplorare le nostre stesse esperienze di vita, morte, materia e spirito. Il suo lascito non è semplicemente un insieme di oggetti belli, ma un modo di vedere e di essere nel mondo che valorizza l’attenzione, la precisione e l’apertura alla meraviglia.

Allora, banda di snob, la prossima volta che vedrete una scultura di Oliver, che sia “Palm” nei Giardini Botanici di Sydney, “Globe” all’Università del Nuovo Galles del Sud, o “Big Feathers” a Brisbane, prendetevi il tempo di osservarla attentamente. Non uno sguardo superficiale, ma un’osservazione prolungata che vi permetta di dialogare davvero con l’opera. Le rivelazioni che essa può offrire potrebbero sorprendervi.


  1. Oliver, citata in “The sculpture of Bronwyn Oliver” al TarraWarra Museum of Art, Healesville, Victoria, 2016.
  2. Oliver, Bronwyn, corrispondenza con Graeme Sturgeon, citata in Hannah Fink, “Bronwyn Oliver: Strange Things”, Piper Press, Sydney, 2017.
  3. Oliver, intervista con Max Cullen, Sunday, ABC TV, 1993.
  4. Fink, Hannah, “Strange Things”, in HEAT 4. Burnt Ground, a cura di Ivor Indyk, novembre 2002.
  5. Oliver, citata in National Sculpture Prize & Exhibition 2001, National Gallery of Australia, Canberra, 2001.
  6. Oliver, intervista con Hannah Fink, 1999.
  7. Hughes, Helen, “The Sculpture of Bronwyn Oliver”, memoreview.net, 2017.
  8. Fink, Hannah, Bronwyn Oliver (1959, 2006), necrologio, Roslyn Oxley9 Gallery, Sydney, 10 luglio 2006.
  9. Oliver, Bronwyn, corrispondenza con Graeme Sturgeon, citata in Kip Williams, discorso di lancio per “Bronwyn Oliver: Strange Things”, 14 ottobre 2017.
  10. Descrizione di “Big Feathers” per la città di Brisbane, 1999.
  11. McDonald, John, “La decostruzione della vita e del lavoro”, in Spectrum, The Sydney Morning Herald, 19-20 agosto 2006.
  12. Oliver, dichiarazione dell’artista, citata in Felicity Fenner, Bronwyn Oliver, Moet & Chandon, Epernay, 1995.
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Riferimento/i

Bronwyn OLIVER (1959-2006)
Nome: Bronwyn
Cognome: OLIVER
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Australia

Età: 47 anni (2006)

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