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Cady Noland e il crollo del sogno americano

Pubblicato il: 2 Maggio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Cady Noland trasforma gli oggetti quotidiani americani in potenti installazioni che rivelano le strutture di potere invisibili. Attraverso i suoi assemblaggi di barriere, bandiere forate e serigrafie su metallo, disseziona clinicamente una società in cui la celebrità, la violenza e l’umiliazione pubblica sono diventate i pilastri di uno spettacolo permanente.

Ascoltatemi bene, banda di snob che pretendete di capire l’arte contemporanea senza mai sporcarvi le mani con la cruda realtà dell’America. Sono diverse decadi che Cady Noland ci infligge una verità brutale che rifiutiamo ostinatamente di ascoltare. Le sue installazioni disturbanti, i suoi assemblaggi di oggetti trovati e le sue serigrafie su metallo non sono opere da appendere sopra il vostro divano di design per impressionare i vostri amici durante le vostre serate mondane. No. Sono autopsie cliniche di un’America malata, autoproclamata terra della libertà ma cancrenata dalla violenza, dal voyeurismo, dalla celebrità e dall’umiliazione pubblica.

In questo paese dove si venera la bandiera calpestandone allo stesso tempo i valori fondanti, Noland ha capito prima di tutti che l’American Dream non è altro che un incubo collettivo mascherato da storia di successo. Un incubo i cui protagonisti, assassini, vittime, eroi caduti e celebrità distrutte, sono intercambiabili, semplici pedine in quello che lei chiama giustamente un “meta-gioco” dove le regole sono conosciute solo dai potenti.

Quando Noland impila lattine di Budweiser, appende manette a tubi di metallo o attacca bandiere americane forate, non fa decorazione pop. Esercita una forma di archeologia sociale, riesumando i cadaveri che l’America ha seppellito sotto il suo racconto nazionale trionfante. Questa donna nata nel 1956 a Washington DC, figlia del pittore Kenneth Noland, non ha bisogno di contorcersi intellettualmente per mostrarci la miseria morale nascosta dietro la facciata scintillante del capitalismo americano. La presenta cruda, senza veli, nella sua trivialità terrificante.

Se si vuole veramente comprendere l’importanza del lavoro di Noland, bisogna metterlo in prospettiva con il pensiero del filosofo francese Michel Foucault. In “Sorvegliare e punire” (1975), Foucault analizza come i meccanismi di sorveglianza e punizione si siano trasformati attraverso la storia, passando dalla punizione spettacolare a forme più insidiose di controllo sociale [1]. Questo passaggio dalla supplizio pubblico all’incarcerazione disciplinare trova un’eco straordinaria nei pilastri della pratica artistica di Noland.

Prendiamo “Publyck Sculpture” (1994), questa installazione monumentale composta da pneumatici sospesi a catene, che evoca contemporaneamente un parco giochi per bambini e uno strumento di tortura. O i suoi famosi “stocks” in alluminio, reinterpretazione moderna dei ceppi usati nell’America coloniale per l’umiliazione pubblica dei delinquenti. Noland stessa ha dichiarato di considerare questi ceppi come “le prime sculture pubbliche dell’America coloniale”. Stabilisce così un’archeologia visiva dei dispositivi punitivi americani, rivelando la continuità tra le punizioni di un tempo e i meccanismi contemporanei di controllo sociale.

Quando Foucault scrive che “il corpo è preso in un sistema di vincoli e privazioni, di obblighi e divieti”, potrebbe altrettanto bene descrivere le installazioni di Noland, dove le barriere di sicurezza, i cordoni, le catene e le strutture architettoniche costringono fisicamente lo spettatore, obbligandolo a negoziare lo spazio secondo regole predefinite. L’artista non si limita a rappresentare i meccanismi disciplinari: li attiva, trasformando la galleria in uno spazio panottico dove il visitatore diventa contemporaneamente osservatore e osservato.

La famosa installazione “This Piece Has No Title Yet” (1989), con le sue migliaia di lattine di Budweiser impilate dietro impalcature metalliche, simboleggia perfettamente questa idea foucaultiana della prigione come metafora sociale. Le lattine, accuratamente allineate, evocano sia l’uniformità carceraria che la standardizzazione della società di consumo. L’impalcatura, invece, ricorda le sbarre di una cella gigante in cui tutti noi siamo rinchiusi, senza nemmeno rendercene conto.

La prospettiva foucaultiana ci permette così di leggere l’opera di Noland come una critica profonda ai sistemi di controllo che regolano la società americana. Per Foucault, il potere non è semplicemente repressivo, è produttivo: crea soggetti, saperi, piaceri. Allo stesso modo, Noland mostra come l’America produca le proprie mitologie, le proprie celebrità, i propri criminali mediatici, in un ciclo infinito di produzione e consumo di immagini e racconti sensazionalistici.

Se Foucault ci aiuta a comprendere la dimensione disciplinare del lavoro di Noland, è verso Guy Debord e la sua “Società dello Spettacolo” (1967) che bisogna guardare per cogliere la sua critica aspra della cultura mediatica americana. Debord afferma che “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra persone, mediato da immagini” [2]. Questa concezione trova un’eco diretta nelle serigrafie su metallo di Noland che rappresentano Lee Harvey Oswald, Patty Hearst o altre figure spettacolari della cultura americana.

In “Oozewald” (1989), Noland riproduce su alluminio l’immagine iconica dell’assassinio di Oswald da parte di Jack Ruby, ma perfora la superficie con fori circolari, come colpi di pistola, e inserisce una bandiera americana in uno di essi, vicino alla bocca di Oswald, come per imbavagliarlo. Quest’opera è emblematica del suo approccio: prendere un’immagine spettacolare, già svuotata della sua sostanza dalla sua circolazione mediatica, e trasformarla in un oggetto tridimensionale che ne espone la vacuità riattivandone al contempo il carico politico.

Per Debord, lo spettacolo è una forma di alienazione, una separazione tra la realtà vissuta e la sua rappresentazione mediata. Noland esplora proprio questa separazione trasformando immagini bidimensionali in oggetti fisici, costringendoci a riconsiderare il nostro rapporto con queste icone mediatiche. Perforando queste immagini, deformandole, rompe il loro potere ipnotico e rivela il vuoto che nascondono.

Il suo metodo risuona con la strategia situazionista del détournement promossa da Debord: appropriarsi di elementi della cultura dominante per sovvertirne il significato. Quando Noland utilizza simboli commerciali come le lattine di Budweiser, o emblemi patriottici come la bandiera americana, li devia dalla loro funzione iniziale per mettere in luce le contraddizioni della società americana.

La sociologia debordiana ci permette anche di comprendere la fascinazione di Noland per le celebrità cadute in disgrazia e i criminali mediatici. Nella società dello spettacolo, la celebrità è una forma di capitale simbolico che può rapidamente trasformarsi in infamia. Le figure che Noland seleziona, Patty Hearst, Thomas Eagleton, Burt Reynolds, Betty Ford, sono tutte esempi di questa volatilità mediatica, persone il cui valore spettacolare è fluttuato al ritmo degli scandali e delle riabilitazioni.

Affiancando questi ritratti a oggetti che evocano la detenzione, la restrizione o la violenza (manette, barriere, armi), Noland suggerisce che la celebrità è essa stessa una forma di incarcerazione spettacolare. Come scrive Debord, “più contempla, meno vive”, una formula che potrebbe descrivere la condizione dello spettatore di fronte ai media, ma anche quella della celebrità intrappolata nella propria immagine.

Il ritiro di Noland dalla scena artistica all’inizio degli anni 2000 è stato spesso interpretato come un atto di capitolazione o esaurimento. In realtà, questa scomparsa volontaria costituisce forse il suo gesto artistico più radicale, il suo commento più incisivo sul sistema dell’arte contemporanea che lei aveva così brillantemente smantellato.

In un’industria artistica ossessionata dalla visibilità costante, dalla presenza mediatica e dalla produttività incessante, sparire è un atto di resistenza. Come avrebbe confidato a Sarah Thornton nel 2013: “Gli artisti vanno da Gagosian per morire. È come un cimitero degli elefanti” [3]. Suprema ironia, è proprio da Gagosian che ha scelto di presentare nuove opere nel 2023, dopo decenni di silenzio.

Questo ritorno inaspettato, dopo aver rifiutato retrospettive al MoMA e altrove, dimostra che Noland non ha mai smesso di esercitare un controllo meticoloso sulla sua pratica artistica e la sua carriera. Le sue battaglie legali note contro i collezionisti e le case d’asta, come quando ha “disconosciuto” un’opera che riteneva danneggiata prima di una vendita da Sotheby’s, testimoniano il suo rifiuto assoluto di lasciare che il mercato detti le condizioni di ricezione del suo lavoro.

Controllando così la sua presenza e la sua assenza, Noland pratica quella che potremmo chiamare un’estetica del rifiuto. I suoi “no” clamorosi, a mostre non autorizzate, a restauri inappropriati, alle interviste, sono tanto eloquenti quanto le sue opere fisiche. In un mondo dell’arte dove tutto sembra negoziabile, ha tracciato una linea invalicabile.

Noland ha compreso che l’arte non si limita agli oggetti esposti nelle gallerie, ma include anche le condizioni sociali, economiche e istituzionali della loro produzione e circolazione. Contestando queste condizioni, ha trasformato le quinte del mondo dell’arte in uno spazio di performance critica.

Cosa ci dice l’opera di Cady Noland sull’America di oggi? Tutto. Assolutamente tutto. La sua visione premonitrice di una nazione frammentata, in cui la violenza strutturale si nasconde dietro lo spettacolo mediatico, in cui i simboli patriottici mascherano una profonda decadenza morale, non è mai stata così pertinente come nella nostra epoca di polarizzazione estrema.

Quando Donald Trump è stato eletto presidente nel 2016, poi rieletto nel 2024, molti hanno parlato di rottura storica, di anomalia politica. Ma per chiunque conosca l’opera di Noland, questi eventi appaiono piuttosto come l’esito logico delle tendenze che lei aveva identificato già dagli anni ’80. L’imprenditore narcisista elevato a celebrità mediatiche e poi a figura politica suprema incarna perfettamente questo “meta-gioco” americano che lei ha così lucidamente analizzato.

Nel suo saggio “Towards a Metalanguage of Evil” (1989), Noland metteva già a confronto l’imprenditore americano con lo psicopatico, sottolineando la loro comune capacità di oggettivare gli altri per servire i propri fini. Non è forse proprio questo ciò che osserviamo oggi nella retorica politica americana, dove gli avversari vengono sistematicamente disumanizzati, dove i migranti diventano “invasori”, dove gli oppositori sono trattati da “traditori”?

Le installazioni di Noland, con le loro barriere e i loro meccanismi di restrizione, prefiguravano anche la crescente militarizzazione dello spazio pubblico americano, dal muro di confine alle zone di sicurezza intorno alle istituzioni governative, passando per i quartieri residenziali recintati dove si isolano i più ricchi.

Ma è forse nella rappresentazione dell’umiliazione pubblica che Noland si mostra la più profetica. I suoi stock in alluminio, evocazione contemporanea dei pilori coloniali, annunciano l’era dei social network in cui la vergogna pubblica è diventata una forma di intrattenimento di massa e uno strumento di controllo sociale. L’umiliazione, un tempo amministrata nella piazza del villaggio, si dispiega ora su scala planetaria, colpendo tanto gli anonimi quanto i potenti.

L’opera di Cady Noland ci confronta con le nostre contraddizioni. Contempliamo le sue installazioni negli spazi asettici di musei e gallerie, analizziamo la sua critica al capitalismo mentre partecipiamo al sistema che lei denuncia. Le sue opere, inizialmente concepite come dissezioni senza indulgenza della cultura americana, sono diventate merci di lusso, raggiungendo prezzi vertiginosi nel mercato dell’arte.

Questa paradossale recuperazione del suo lavoro conferma, in definitiva, la giustezza della sua diagnosi. Il “meta-gioco” che ha identificato non si ferma mai, anzi assorbe persino le sue stesse critiche, trasformandole in nuove forme di capitale simbolico ed economico.

Ma non illudiamoci: nonostante questa recuperazione, il potere sovversivo dell’arte di Noland rimane intatto. Perché ciò che ci mostra non è solo l’America in tutta la sua mostruosità spettacolare, ma anche la nostra stessa complicità nel sistema che denuncia. Le sue installazioni ci pongono fisicamente in una posizione insostenibile, costringendoci a negoziare spazi angusti, a superare ostacoli, a fare esperienza corporea delle strutture di potere che organizzano le nostre vite.

In questo senso, Noland non fa arte politica nel senso convenzionale del termine. Non ci dice cosa pensare, né ci propone soluzioni. Piuttosto crea le condizioni per una presa di coscienza fisica e intellettuale dei meccanismi che governano le nostre società. Tocca a noi, spettatori, trarre le conclusioni necessarie e agire di conseguenza.

In un mondo dove l’arte contemporanea spesso si compiace dell’ermetismo concettuale o dell’attivismo di facciata, Noland ci ricorda che la vera radicalità artistica consiste nel rendere visibile l’invisibile, nel materializzare le strutture astratte che determinano le nostre esistenze. E se la sua opera ci mette a disagio, è proprio perché colpisce nel segno. Dopotutto, come diceva Oscar Wilde, “se vuoi dire la verità alle persone, falla ridere, altrimenti ti uccideranno”.


  1. Foucault, Michel. Surveiller et Punir : Naissance de la prison. Paris: Gallimard, 1975.
  2. Debord, Guy. La Société du Spectacle. Paris: Buchet/Chastel, 1967.
  3. Thornton, Sarah. 33 Artists in 3 Acts. New York: W. W. Norton & Company, 2014.
  4. Noland, Cady. “Towards a Metalanguage of Evil”. Balcon, n° 4, 1989.
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Riferimento/i

Cady NOLAND (1956)
Nome: Cady
Cognome: NOLAND
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 69 anni (2025)

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