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Carroll Dunham e i territori del rimosso

Pubblicato il: 27 Maggio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Carroll Dunham trasforma le sue ossessioni personali in archetipi universali. Da diversi decenni, questo pittore americano seziona l’inconscio occidentale con la precisione di uno psicanalista, creando un bestiario di figure antropomorfe che rivelano le nostre pulsioni più nascoste in composizioni di potenza visiva straordinaria.

Ascoltatemi bene, banda di snob: Carroll Dunham dipinge l’America per quella che è, senza inganni né compiacimento, con la brutalità di uno psicoanalista che ha scambiato il suo divano per un pennello. Da diversi decenni, quest’uomo disseziona le nostre pulsioni più crude su tele che hanno l’effetto di schiaffi dati in pieno volto alla nostra buona coscienza borghese. Le sue ultime opere, esposte recentemente da Max Hetzler a Londra in Open Studio & Empty Spaces, confermano ciò che già sapevamo: Dunham non dipinge, opera a cuore aperto sull’inconscio collettivo occidentale.

Bisogna arrendersi all’evidenza: l’opera di Carroll Dunham si inscrive nella diretta discendenza del surrealismo, ma un surrealismo americano, liberato dalle sue pretese poetiche europee. Dove André Breton cercava di “cambiare la vita” attraverso la scrittura automatica, Dunham cambia la nostra percezione con quella che potremmo chiamare “pittura automatica”. I suoi personaggi antropomorfi, quei famosi “dickheads” con un naso fallico che infestano le sue tele dagli anni Novanta, non sono creature di fantasia ma archetipi junghiani usciti direttamente dal nostro inconscio collettivo.

Lo stesso artista lo ammette: attinge a “l’arte storica ma anche alla cultura pop compresa la fantascienza e i cartoni animati”, revisionando “i temi duraturi che compongono la nostra esistenza” [1]. Questo approccio non è casuale. Rivela una comprensione profonda dei meccanismi dell’inconscio come descritti da Sigmund Freud in L’Interpretazione dei sogni. Le immagini di Dunham funzionano come sogni ad occhi aperti, mescolando il rimosso sessuale con riferimenti culturali popolari per creare un linguaggio pittorico di una efficacia temibile.

Il surrealismo storico promuoveva la “risoluzione dei principali problemi della vita” tramite l’automatismo e la scrittura spontanea. Dunham, invece, risolve le nostre contraddizioni americane contemporanee con una figurazione che assume pienamente la sua volgarità. Le sue bagnanti dalle forme geometriche e i suoi lottatori dai corpi smisurati non cercano di sublimare l’istinto ma di esporlo in tutta la sua crudezza. È in questo che Dunham supera i suoi predecessori europei: non fugge dalla realtà con il sogno ma la confronta con l’esplicito.

L’influenza della psicoanalisi sull’arte di Dunham non è solo ispirazione ma un metodo di lavoro. Come un paziente sul divano freudiano, l’artista lascia emergere le sue libere associazioni sulla tela. I suoi disegni quotidiani, che lui stesso paragona a un diario intimo, funzionano come sedute di analisi in cui l’inconscio detta legge al conscio. Questo approccio spiega perché i suoi personaggi sfuggono a ogni volontà narrativa coerente per diventare frammenti psicologici puri, “clichet dell’inconscio” per riprendere l’espressione di Breton.

La dimensione archetipica del suo lavoro diventa ancora più evidente osservando l’evoluzione delle sue serie. Le sue “Bathers” degli anni 2000, quelle donne nude con i dreadlocks che nuotano in paesaggi edenici, non sono pin-up ma incarnazioni dell’eterno femminino junghiano. Esse portano in sé tutta l’ambivalenza del nostro rapporto con la natura e la sessualità, oscillando tra innocenza primitiva e conoscenza corrotta. Dunham dipinge così i nostri Eden perduti con la precisione di un cartografo dell’anima.

Questa dimensione psicoanalitica della sua arte trova il suo apice nelle sue opere più recenti della serie “Qualiascope”. Il titolo stesso, neologismo raffinato che fonde “qualia” (le proprietà qualitative dell’esperienza conscia) e “scope” (lo strumento di osservazione), rivela l’ambizione dell’artista: osservare scientificamente i meccanismi della percezione e della coscienza [2]. Queste tele funzionano come macchine per rivelare l’inconscio, dei “qualiascopi” pittorici che ci mostrano ciò che rifiutiamo di vedere in noi stessi.

Ma ciò che distingue veramente Dunham dai suoi contemporanei è la sua comprensione innovativa dello spazio pittorico come architettura della mente. Questa dimensione appare con particolare forza nelle sue ultime opere, dove l’artista integra la rappresentazione del proprio atelier nelle sue composizioni. Questa messa in abisso non è un esercizio di stile bensì una rivelazione della natura stessa della creazione artistica.

L’architettura, fin da Vitruvio, si fonda su tre principi fondamentali: la solidità (firmitas), l’utilità (utilitas) e la bellezza (venustas). Dunham devia questi concetti per farne i pilastri di un’architettura psichica. I suoi spazi dipinti possiedono una propria solidità strutturale, quella dell’inconscio che resiste a tutti gli assalti della ragione. Hanno un’utilità propria, quella di rivelare le nostre pulsioni represse. E raggiungono una bellezza particolare, quella bellezza convulsiva cara ai surrealisti che nasce dallo choc tra l’atteso e l’inaspettato.

L’influenza di Andrea Palladio sull’architettura occidentale trova qui un’eco inaspettata. Come l’architetto veneziano teorizzava la villa perfetta, Dunham teorizza l’atelier perfetto come luogo di rivelazione dell’anima. I suoi Open Studio non sono rappresentazioni di spazi di lavoro ma piante architettoniche dell’inconscio. Ogni elemento vi è disposto secondo una logica che sfugge alla ragione ma obbedisce alle leggi segrete del desiderio.

Questo approccio architettonico alla pittura si radica in una tradizione che risale alle Prigioni di Piranesi, quelle incisioni del XVIII secolo che rappresentavano architetture carcerarie impossibili. Ma là dove Piranesi creava spazi di oppressione, Dunham concepisce spazi di liberazione. I suoi atelier dipinti sono prigioni le cui sbarre sono state spezzate dalla forza dell’arte. L’artista vi appare come un prigioniero liberato, nudo e trionfante, in uno spazio che è al contempo il suo atelier reale e il teatro del suo immaginario.

L’innovazione di Dunham risiede nella sua capacità di fare dell’architettura un personaggio a pieno titolo delle sue composizioni. I muri dei suoi atelier dipinti non sono semplici decorazioni ma attori della drammaturgia pittorica. Incorniciano, costringono, liberano a turno le figure umane che si muovono entro i loro limiti. Questa antropomorfizzazione dello spazio architettonico rivela una profonda comprensione dei legami tra psiche e ambiente, tra interiorità e esteriorità.

L’influenza degli architetti decostruttivisti come Bernard Tschumi o Daniel Libeskind si percepisce qui, non nella forma ma nello spirito. Come questi architetti rompono le convenzioni spaziali per rivelare nuovi modi di abitare, Dunham rompe le convenzioni pittoriche per rivelare nuovi modi di essere. I suoi spazi dipinti possiedono quella qualità destabilizzante propria dell’architettura decostruttivista: ci obbligano a ripensare il nostro rapporto con lo spazio e, per estensione, con noi stessi.

Questa dimensione architettonica della sua opera raggiunge il suo apice nelle sue composizioni più recenti dove lo studio diventa una metafora della coscienza [3]. Gli oggetti rappresentati (cavalletti, tele, pennelli) funzionano come attributi psichici, strumenti dell’anima piuttosto che strumenti materiali. Dunham ci rivela così che ogni atelier d’artista è prima di tutto un laboratorio della mente, un luogo dove il pensiero prende forma nella materia.

Carroll Dunham dipinge l’America contemporanea con la ferocia di un Gerolamo Bosch del XXI secolo. Le sue creature deforme, i suoi paesaggi psichedelici, le sue scene di copulazione primitiva rivelano una nazione ossessionata dal sesso e dalla violenza, incapace di affrontare i suoi impulsi se non attraverso la pornografia o la guerra. L’artista diventa così il cronista spietato di una civiltà in crisi, quella di un paese che ha perso i suoi riferimenti morali e spirituali.

Questa dimensione critica della sua opera sfugge troppo spesso ai commentatori, abbagliati dalla virtuosità tecnica dell’artista. Eppure, i “Wrestlers” di Dunham, questi lottatori nudi che si affrontano in paesaggi desolati, non sono semplici esercizi di stile, ma allegorie politiche di una violenza inaudita. Essi incarnano l’America trumpiana, quell’America della brutalità assunta che preferisce la forza alla negoziazione, il dominio alla cooperazione.

Gli “uomini e donne di Carroll Dunham hanno fisici stereotipati, con caratteristiche immediatamente riconoscibili” ma “sfuggono a qualsiasi riferimento alla pornografia” per la loro “neutralità e obiettività” [4]. Questa osservazione rivela tutta la sottigliezza dell’approccio dell’artista. Rappresentando il sesso con la freddezza di un anatomista, Dunham denuncia l’ipersessualizzazione della società americana rivelando al contempo ciò che essa nasconde: l’incapacità di vivere serenamente la propria sessualità.

L’arte di Dunham funziona come uno specchio deformante teso all’America contemporanea. Le sue bagnanti dalle forme impossibili rivelano l’ossessione americana per la trasformazione corporea, questa fuga perpetua di fronte all’invecchiamento e alla morte. I suoi personaggi maschili con il naso fallico denunciano una mascolinità tossica che si definisce solo attraverso l’aggressione e il dominio. I suoi paesaggi paradisiaci contaminati dalla presenza umana illustrano la distruzione sistematica della natura da parte dell’industria e dell’avidità.

Questa dimensione critica raggiunge il suo apice nelle opere più recenti dove l’artista rappresenta scene di accoppiamento di una crudezza sconcertante. Questi “Proof of Concept” non sono opere pornografiche ma studi antropologici sull’animalità dell’uomo occidentale. Dunham vi rivela ciò che la nostra civiltà preferisce nascondere: siamo solo primati civilizzati, bestie che hanno imparato a parlare ma non ad amare.

L’influenza dell’arte tribale africana e oceanica sull’opera di Dunham non è casuale. Come le maschere dogon o i totem maori, i suoi personaggi possiedono quella potenza di evocazione che trascende il realismo per toccare l’essenziale. Rivelano l’uomo dietro il cittadino, la bestia dietro il consumatore, l’impulso dietro la ragione. In questo Dunham si unisce alla tradizione delle “Arti prime” che non separano mai l’estetica dallo spirituale, il bello dal vero.

Oggi Carroll Dunham appartiene a quella generazione di artisti che hanno attraversato tutte le mode senza mai rinnegarsi. Formatosi negli anni ’70 a contatto con il minimalismo trionfante, ha saputo inventare un linguaggio pittorico personale che prende tanto dal surrealismo quanto dal fumetto, tanto dall’arte brut quanto dall’espressionismo astratto. Questa capacità di sintesi lo rende uno dei pittori più importanti della sua generazione, accanto a David Salle o Julian Schnabel.

Ma, a differenza dei suoi contemporanei, Dunham non ha mai ceduto alle sirene del mercato dell’arte. Le sue tele rimangono fedeli alla loro ispirazione originaria, quella di un’arte che disturba più che decorare, che interroga più che rassicurare. Le sue mostre recenti confermano questa costanza: “Camminare sulla linea tra ordine e caos, figurazione e astrazione, piattezza e profondità pittorica”, l’artista continua a esplorare i territori dell’inconscio con la rigore di uno scienziato e la passione di un poeta.

L’influenza di Dunham sulle nuove generazioni di artisti diventa sempre più evidente. La sua capacità di mescolare la cultura high e low, l’arte colta e la cultura popolare, annuncia le preoccupazioni dell’arte contemporanea del XXI secolo. Artisti come Matthew Ritchie o Inka Essenhigh gli devono molto, anche se non sempre lo ammettono. Dunham ha aperto la strada a un’arte che assume le sue contraddizioni senza cercare di risolverle, un’arte che accetta di essere volgare per rivelare meglio la nostra umanità.

Il futuro dirà se Carroll Dunham rimarrà nella storia dell’arte come un innovatore o come un epigono. Ma una cosa è certa: è riuscito a creare un universo pittorico di coerenza e potenza evocativa rare. I suoi personaggi, una volta visti, non si dimenticano più. Si installano nella nostra memoria visiva come virus benefici che contaminano poco a poco la nostra percezione del mondo. In questo, Dunham avrà compiuto la missione di ogni grande artista: cambiare il nostro sguardo su noi stessi e sul nostro tempo.


  1. Galleria Max Hetzler, “Carroll Dunham”, presentazione dell’artista, 2025.
  2. Éric Simon, “Carroll Dunham ‘Somatic Transmission & Qualiascope'”, ACTUART, maggio 2022.
  3. Galleria Max Hetzler, “Open Studio & Empty Spaces”, comunicato stampa della mostra, 2025.
  4. Sigmund Freud, L’Interpretazione dei sogni, Parigi, PUF, 1899.
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Riferimento/i

Carroll DUNHAM (1949)
Nome: Carroll
Cognome: DUNHAM
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 76 anni (2025)

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