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Celeste Rapone: Scacchi e anatomie

Pubblicato il: 25 Ottobre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Celeste Rapone costruisce da quindici anni un’opera che interroga la condizione femminile contemporanea attraverso composizioni saturate dove i corpi si contorcono in posture anatomiche impossibili. Le sue tele comprimono figure e oggetti verso il primo piano, materializzando visivamente le pressioni esercitate sulle donne contemporanee.

Ascoltatemi bene, banda di snob: Celeste Rapone dipinge come si gioca a scacchi, con la differenza che le sue mosse sbagliate diventano vittorie formali. Nata nel 1985 nel New Jersey e stabilita a Chicago, quest’artista costruisce da quindici anni un’opera che interroga la condizione femminile contemporanea attraverso composizioni saturate dove i corpi si contorcono, gli oggetti proliferano e lo spazio pittorico rifiuta ostinatamente di respirare.

La recente mostra “Big Chess” da Corbett vs. Dempsey nel 2024 cristallizza il suo approccio: undici tele divise tra “spettacoli” e “spettatori”, dove donne sovra-performano in allestimenti teatrali mentre altre, ridotte alla scala del ritratto, mostrano rassegnazione e rimpianto. Questa dicotomia non è nuova in Rapone, ma qui raggiunge una particolare acutezza. Le figure giocano a scacchi giganti in un parco, fanno escursioni e pescano uno squalo da un canotto. Sono attività banali trasformate in prove esistenziali dal modo in cui l’artista comprime lo spazio e deforma le anatomie.

Il riferimento al Secolo d’Oro olandese attraversa l’opera di Rapone come un’ossessione produttiva. L’artista stessa afferma il suo interesse per “questa idea di partenza semplice” propria della pittura olandese del XVII secolo [1]. Ma contrariamente a Vermeer che immergeva i suoi interni domestici in una luce meditativa, Rapone inonda le sue composizioni di una profusione di oggetti contemporanei che generano ansia piuttosto che rassicurazione. In Nightshade (2022), una donna osserva una scena attraverso un’inquadratura formata dalle dita. Questa messa in abisso ricorda i dispositivi visivi impiegati dai pittori olandesi del XVII secolo, finestre che incorniciano scene esterne da Vermeer, specchi che rivelano spazi nascosti da Van Eyck, ma con un’ironia mordace assente nelle opere originali.

Le nature morte fiamminghe celebravano l’abbondanza mercantile e la vanità terrena attraverso l’accumulazione controllata di oggetti preziosi. Rapone riprende questo vocabolario ma lo ribalta: i suoi accumuli, confezioni di Ricola, sacchetti di gel di silice, lattine di Cherry 7UP e bottiglie di Yellow Tail Shiraz, diventano le vanità del XXI secolo, testimoniando non più la ricchezza ma un consumismo compulsivo e una vita domestica sovraccarica. Questa trasformazione del genere pittorico olandese in critica sociologica si realizza senza didattismi. Gli oggetti specifici che Rapone include, una borraccia Klean Kanteen, riproduzioni di Caravaggio su una giacca e le sedie David Burry “Shoe” rese popolari su TikTok, funzionano come marcatori temporali e culturali, ancorando fermamente queste composizioni nella nostra contemporaneità pur mantenendo il dialogo con la tradizione pittorica.

La luce rappresenta un altro punto di contatto con l’eredità olandese, sebbene radicalmente reinterpretata. Dove Vermeer orchestrava le sue illuminazioni naturali per creare spazi contemplativi, Rapone costruisce scenografie luminose artificiali e teatrali. I suoi interni notturni, come in “Blue Basement” (2023), dove tre figure giocano a poker affacciate su sedie-scarpa mentre l’acqua invade la cantina, generano un’atmosfera opprimente. L’acqua che sale, dettaglio narrativo inquietante, richiama le preoccupazioni dei pittori olandesi per la loro geografia precaria, ma qui trasformata in metafora di una catastrofe domestica ignorata.

La spazialità costituisce forse la differenza più significativa tra Rapone e i suoi predecessori olandesi. Gli interni di Pieter de Hooch organizzavano prospettiva e profondità secondo una geometria rassicurante. Rapone, invece, schiaccia sistematicamente la profondità, spingendo figure e oggetti verso il primo piano in una compressione che genera disagio e claustrofobia. Questa planarità assunta, ereditata più dal cubismo e dal modernismo che dal XVII secolo, trasforma lo sguardo rivolto alla scena domestica: non siamo più invitati a contemplare uno spazio armonioso, ma confrontati con un accumulo vertiginoso di elementi che minacciano di traboccare dal quadro.

Al di là dei riferimenti storici, l’opera di Rapone costituisce uno studio sociologico sul corpo femminile contemporaneo preso nelle contraddittorie imposizioni della nostra epoca. Le sue figure assumono posture anatomiche impossibili, arti allungati, corpi compressi, articolazioni contorte oltre il verosimile. Questa deformazione sistematica non è né gratuita né puramente formale: materializza visivamente la pressione esercitata sulle donne per occupare simultaneamente tutti i ruoli: professionista ambiziosa, partner desiderabile, madre potenziale e artista affermata.

“Muscle for Hire” (2022) offre un’illustrazione vivida di questo tema. Una donna in tuta di velluto rosa scava un buco nero verso il nulla al centro di un campo da calcio, un piccione posato sul suo tallone sporco. Intorno a lei si accumulano gli scarti della maternità suburbana: ticket del parcheggio, bottiglia d’acqua, pastiglie Ricola, sacchetto di gel di silice. L’opera è stata dipinta mentre Rapone, prossima ai quarant’anni, si interrogava sul proprio rapporto con la maternità. Questa dimensione autobiografica attraversa tutta la sua produzione senza mai sfociare in una confessione diretta. Le figure rimangono sufficientemente generiche da funzionare come avatar di una condizione condivisa da un’intera generazione di donne istruite, ambiziose, confrontate con la vertigine delle scelte non fatte.

La serie “House Sounds” (2023) sviluppa questa sociologia della quotidianità femminile contemporanea. In “Drawing Corner”, una donna tenta simultaneamente di fare esercizi con una banda elastica e di disegnare una natura morta barocca: teschio luminoso, asparagi viola, stivale in pelle di serpente e parmigiano disposti su un asse da stiro. Questo tentativo assurdo di multitasking illustra l’imposizione alle donne di fare tutto contemporaneamente, trasformando anche lo spazio domestico in teatro di una performance permanente. Una busta ufficiale vuota giace sul pavimento, suggerendo forse l’urgenza economica che motiva questa frenesia creativa.

L’umorismo costituisce per Rapone una strategia di resistenza di fronte a queste pressioni. “Trymaker” (2023) mostra una donna accasciata su una sedia a sdraio dietro una recinzione di rete metallica, che indossa un cappello bob rosa e lingerie bianca consumata, mentre un tosaerba robotico cura il minuscolo giardino. Il gioco della palla appesa che sembra volare verso lo spettatore materializza sia l’aspirazione alla fuga sia l’impossibilità della libertà: legata dalla sua corda, finirà inevitabilmente per ricadere. Questa immagine del confinamento domestico presentato come emancipazione riassume la critica sociologica che l’opera porta con sé.

Gli oggetti specifici che Rapone include meticolosamente nelle sue composizioni funzionano come dati etnografici. Collane tatuaggi, decalcomanie Chanel, tote bag, cerette brasiliane, reggiseni di pizzo: questi elementi documentano le pratiche corporee e consumistiche di una particolare classe sociale e generazione. Proveniente da una famiglia italo-americana cattolica del New Jersey, Rapone attinge al proprio passato per costruire un vocabolario visivo che supera ampiamente l’aneddoto personale. Le sneakers che desiderava da adolescente e che i suoi genitori si rifiutavano di comprare, le collane luminose che si rompevano per farle brillare durante le feste del liceo, questi dettagli diventano i sintomi di una cultura della classe media che aspira al prestigio pur rimanendo prigioniera del kitsch.

La dimensione generazionale appare con chiarezza nella mostra “Nightshade” (2022). Le tonalità funebri, i selfie scattati nel New Jersey Transit con un telefono ornato da una riproduzione de “La Nascita di Venere” di Botticelli, l’aglio affettato con un rasoio alle tre e quattordici del mattino: queste scene evocano una nostalgia ambivalente per una giovinezza passata, mista all’angoscia di un presente insoddisfacente. Rapone interroga esplicitamente cosa sarebbe successo se la sua carriera artistica fosse fallita, se fosse rimasta nella sua periferia natale, consultando occasionalmente i musei newyorkesi ma privata del compimento professionale che ha infine raggiunto.

Questa esplorazione sociologica non risparmia la stessa pratica pittorica. Rapone dipinge alla prima, senza bozza preparatoria, costruendo intuitivamente le sue composizioni strato dopo strato. Lei paragona esplicitamente il suo metodo al gioco degli scacchi: “Ciò che mi interessava nel paragone con gli scacchi è come nella pittura si faccia una serie di scelte senza poter essere sicuri di come esse si svilupperanno o risponderanno l’una all’altra. Si continua e si prova ad entrare da diversi angoli finché qualcosa non si apre. E spesso si perde. Ma poi si può provare ancora e ancora e ancora” [2]. Questa dichiarazione riassume perfettamente l’intersezione tra preoccupazioni formali ed esistenziali nella sua opera: il fallimento pittorico diventa metafora del fallimento vitale, e viceversa.

L’opera di Celeste Rapone si situa nell’inquietante intersezione tra eredità pittoriche e urgenze contemporanee, tra virtuosismo tecnico e dubbio permanente, tra umorismo e disperazione. La sua decisione di costringere tutto il corpo nel quadro, rifiutando il ritaglio favorevole, costituisce un gesto politico quanto estetico: esporre totalmente queste donne nella loro vulnerabilità, goffaggine e nelle loro pose impossibili.

L’artista ha confidato a suo marito che sa che un dipinto progredisce bene quando il lavoro in corso la fa ridere [3]. Questa ammissione rivela la funzione liberatoria dell’umorismo nella sua pratica. Di fronte alle contraddittorie imposizioni, all’ansia diffusa, alle aspettative schiaccianti, la risata diventa un atto di resistenza. Le figure di Rapone falliscono spettacolosamente nel mantenere una postura, nel compiere un compito, nell’incarnare un ideale, ma proprio questo fallimento le libera dalle tirannie della perfezione.

Questa celebrazione dell’imperfezione prosegue il lavoro di artiste come Paula Rego o Nicole Eisenman, che rifiutano di abbellire la condizione femminile per esporne crudelmente le contraddizioni. Ma Rapone vi aggiunge la sua voce personale, segnata dalla sua origine italo-americana della periferia, dalla sua formazione accademica rigorosa e soprattutto da questa capacità di trasformare il disagio in forza pittorica.

Quando rappresenta una donna che stira una tela in “Swan” (2019), titolo ironico che evoca la grazia assente di questo gesto laborioso, Rapone compie forse la sua mossa più rivelatrice: mostrare la pittura come lavoro fisico, sforzo ingrato, lotta contro la materia e contro se stessa. Il quadro diventa il retro della tela, rivelandone la struttura interna, rifiutando l’illusione per esibire la sua costruzione. Questa onestà formale riflette l’onestà emotiva che attraversa tutta l’opera.

Rapone non offre alcuna risoluzione, nessun facile conforto. Le sue figure rimangono intrappolate nei loro spazi compressi, schiacciate dalle loro proprietà e contorte dalle loro ambizioni. Ma in questa rappresentazione senza compromessi della difficoltà di essere donna oggi, in questo rifiuto della seduzione pittorica convenzionale, in questa accumulazione assunta di dettagli imbarazzanti, emerge paradossalmente una forma di dignità. Queste donne falliscono, certo, ma ci provano. Ancora e ancora. Come l’artista davanti alla sua tela, continuano, entrano da angoli diversi, sperano che alla fine qualcosa si apra.


  1. Art Verge, “Playful Interplay of Volumes and Colours Command Celeste Rapone’s Paintings”, Yannis Kostarias, 8 marzo 2019
  2. Meer Art, “Big Chess”, 25 novembre 2024
  3. Femme Art Review, “The Figure Does Not Win Every Time: In Discussion with Celeste Rapone”, Elaine Tam, 30 luglio 2020
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Riferimento/i

Celeste RAPONE (1985)
Nome: Celeste
Cognome: RAPONE
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 40 anni (2025)

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