English | Italiano

Martedì 18 Novembre

ArtCritic favicon

Cindy Sherman: Lrtdel simulacro identitario

Pubblicato il: 31 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Lopera di Cindy Sherman funziona come uno specchio deformante della nostra società, in cui lartista interpreta una moltitudine di personaggi per interrogare il nostro rapporto con limmagine. Le sue fotografie diventano così unesplorazione vertiginosa dellidentità che risuona particolarmente nellera dei social network.

Ascoltatemi bene, banda di snob, la storia dell’arte è piena di figure che hanno ridefinito il nostro rapporto con l’immagine, ma poche ci sono riuscite con altrettanto audacia e pertinenza come Cindy Sherman, nata nel 1954. Questa fotografa americana, tanto sfuggente quanto onnipresente nella sua opera, ha costruito da oltre quattro decadi un’esplorazione vertiginosa dell’identità che continua a interpellarci con un’acuità rinnovata nell’era dei social network. Il suo lavoro, che sfida ogni semplice categorizzazione, rappresenta una delle indagini più profonde e coerenti sulla natura dell’identità e della rappresentazione nell’arte contemporanea.

Nell’universo fotografico di Sherman, ogni immagine è un teatro dove interpreta una moltitudine di personaggi, creando messe in scena in cui è allo stesso tempo soggetto e oggetto, fotografa e modella. Questa dualità fondamentale ci rimanda direttamente al concetto filosofico del “simulacro” sviluppato da Jean Baudrillard. Per il filosofo francese, il simulacro non è una semplice copia del reale, ma una realtà autonoma che finisce per sostituirsi all’originale, creando ciò che chiama iperrealtà. Le fotografie di Sherman incarnano perfettamente questa nozione: i suoi personaggi non sono imitazioni di persone reali, ma costruzioni che rivelano il carattere artificiale di ogni rappresentazione. Quando si trasforma in una star del cinema degli anni ’50 o in un personaggio di un quadro del Rinascimento, non cerca di riprodurre fedelmente un originale, ma di creare una nuova realtà che espone i meccanismi stessi della rappresentazione.

Questa dimensione del suo lavoro assume una risonanza particolare nella nostra società contemporanea saturata di immagini. Sherman ha anticipato, sin dagli anni Settanta, il nostro attuale rapporto con l’immagine di sé, dove ciascuno diventa il regista della propria vita sui social network. I suoi “Untitled Film Stills” (1977-1980) appaiono oggi come una geniale prefigurazione della nostra cultura del selfie e dei filtri di Instagram. La differenza fondamentale è che Sherman svela consapevolmente l’artificio dove i social media cercano di nasconderlo. Esplicitando sistematicamente i meccanismi della costruzione identitaria, ci invita a una riflessione critica sulle nostre pratiche di rappresentazione di sé.

L’artista spinge questa riflessione ancora più lontano nella sua serie “Centerfolds” (1981), dove sovverte il formato delle riviste erotiche per creare immagini inquietanti di donne vulnerabili. Queste fotografie orizzontali di grande formato, inizialmente commissionate da Artforum ma mai pubblicate dalla rivista, trasformano lo sguardo maschile tradizionalmente associato a questo formato in un’esperienza sconcertante che costringe lo spettatore a interrogare la propria posizione di voyeur. Sherman vi appare in pose che suggeriscono vulnerabilità o angoscia, creando una tensione deliberata tra il formato seducente e il contenuto inquietante. Questa serie segna una svolta nella sua carriera, dimostrando la sua capacità di usare i codici visivi dominanti per decostruirli meglio.

La dimensione performativa dell’opera di Sherman costituisce un altro aspetto importante del suo lavoro, che riecheggia le teorie di Judith Butler sulla performatività del genere. Per Butler, il genere non è un’essenza ma una performance, una serie di atti ripetuti che creano l’illusione di una natura profonda. Sherman mette in scena questa performatività in modo magistrale: le sue trasformazioni successive non rivelano un’identità nascosta ma mostrano anzi che l’identità stessa è una costruzione, un ruolo che interpretiamo. Nella sua serie dei “History Portraits” (1988-1990), ricrea dipinti classici con una precisione sconcertante lasciando volutamente visibili gli artifici della messa in scena: protesi mal adattate, trucco apparente, accessori contemporanei che stonano in questi pastiche di dipinti antichi.

Questo approccio trova la sua continuazione nei “Society Portraits” (2008), dove interpreta donne dell’alta società. Questi ritratti non sono semplici caricature di donne ricche, ma un’esplorazione complessa di come lo status sociale si manifesta attraverso segni visibili: vestiti di lusso, gioielli, chirurgia estetica. Sherman rivela come queste donne rappresentino la loro classe sociale, proprio come i suoi personaggi degli “Untitled Film Stills” rappresentavano la loro femminilità. La performatività diventa così un filo conduttore che attraversa tutta la sua opera, collegando le sue prime esplorazioni del genere alle sue più recenti riflessioni sullo status sociale e l’invecchiamento.

Il lavoro di Sherman si inserisce anche in una critica più ampia degli stereotipi veicolati dai media e dalla cultura popolare. I suoi personaggi, spinti talvolta fino all’estremo grottesco, funzionano come uno specchio deformante che ci riflette i nostri stessi pregiudizi. Nella sua serie “Clowns” (2003-2004), esplora i limiti tra il comico e l’inquietante, trasformando queste figure tradizionalmente associate all’intrattenimento in presenze disturbanti che interrogano il nostro rapporto con la normalità e la diversità. Questa serie segna anche il suo passaggio al digitale, permettendole di creare sfondi psichedelici che accentuano ulteriormente la dimensione da incubo di questi ritratti.

L’utilizzo che Sherman fa delle nuove tecnologie digitali è particolarmente interessante. Mentre le sue prime opere erano realizzate con mezzi tradizionali, trucco, costumi, accessori, ha progressivamente integrato gli strumenti digitali nel suo processo creativo. Questo passaggio al digitale non rappresenta una rottura nel suo lavoro ma piuttosto un’evoluzione naturale che le permette di esplorare nuove possibilità pur rimanendo fedele alle sue preoccupazioni fondamentali. Le manipolazioni digitali le consentono di spingere ancora oltre le sue trasformazioni, creando personaggi che oscillano tra il reale e l’artificiale in un modo che risuona con il nostro stesso rapporto con le tecnologie dell’immagine.

Nelle sue opere più recenti, Sherman si è interessata all’invecchiamento e a come la società tratta le donne anziane. Queste immagini, in cui interpreta donne mature che lottano contro gli effetti del tempo, sono particolarmente toccanti in una cultura ossessionata dalla giovinezza. Esplora le strategie, spesso disperate, impiegate per mantenere un’apparenza di giovinezza, rivelando al contempo la violenza simbolica esercitata sui corpi femminili invecchiati. Questi ritratti recenti dimostrano la sua capacità di rinnovare il suo sguardo critico approfondendo al contempo i suoi temi prediletti.

L’artista non si limita a criticare le rappresentazioni esistenti, ma crea un nuovo linguaggio visivo che destabilizza le nostre certezze. Le sue fotografie sono sempre “senza titolo”, rifiutando deliberatamente di orientare la nostra interpretazione. Questa strategia si inscrive nella tradizione della “morte dell’autore” teorizzata da Roland Barthes: cancellando la propria identità dietro i suoi molteplici personaggi, Sherman lascia libero lo spettatore di costruire il senso dell’opera. Paradossalmente, è moltiplicandosi che riesce a cancellarsi. Questo approccio risuona con la concezione barthesiana del testo come “tessuto di citazioni”, le sue immagini sono esse stesse intrecci complessi di riferimenti culturali e artistici.

La questione dello sguardo è centrale nell’opera di Sherman. Controllando sia la creazione che la ricezione dell’immagine, è contemporaneamente colei che guarda e colei che è guardata, sovverte le dinamiche tradizionali dello sguardo nell’arte. Questa posizione unica le permette di decostruire ciò che Laura Mulvey ha chiamato il “male gaze”, lo sguardo maschile che oggettifica tradizionalmente il corpo femminile nell’arte e nei media. Le donne che interpreta non sono mai semplicemente oggetti passivi dello sguardo: guardano a loro volta, sfidano lo spettatore o sembrano assorbite nelle loro preoccupazioni, ignorando deliberatamente la presenza di un pubblico.

L’influenza di Sherman sull’arte contemporanea è considerevole. Ha aperto la strada a chi esplora le questioni di identità e rappresentazione attraverso la fotografia messa in scena. Il suo lavoro ha anche anticipato molte preoccupazioni attuali riguardo all’identità virtuale e alla presentazione di sé nello spazio digitale. Nell’era dei social network, dove ciascuno diventa il curatore della propria immagine, la sua esplorazione della costruzione identitaria assume una nuova risonanza.

Le questioni sollevate da Sherman sull’identità, la rappresentazione e la performatività sono più pertinenti che mai. Nell’epoca in cui le identità virtuali si moltiplicano, dove filtri e avatar diventano estensioni di noi stessi, il suo lavoro appare profetico. Aveva compreso, molto prima dell’avvento del digitale, che l’identità non è un dato fisso ma una costruzione mobile, un gioco di maschere e specchi. Le sue fotografie ci invitano a riflettere sulla nostra stessa partecipazione a questi giochi di maschere contemporanei.

La sua capacità di reinventarsi costantemente, di esplorare nuovi territori pur rimanendo fedele alle sue fondamentali questioni, fa di Sherman un’artista di rilievo del nostro tempo. La sua influenza si estende ben oltre il mondo dell’arte contemporanea: ha cambiato il nostro modo di vedere e di vederci, anticipando le trasformazioni del nostro rapporto con l’immagine nell’era digitale. Se il suo lavoro continua a incantarci, è perché continua a porre domande essenziali su cosa significhi essere se stessi in un mondo dove l’immagine è diventata il principale vettore d’identità.

Sherman sa mantenere un sottile equilibrio tra critica ed empatia. Anche quando spinge i suoi personaggi verso il grottesco o l’assurdo, si percepisce una profonda comprensione dei meccanismi psicologici e sociali che sottendono i nostri comportamenti. Il suo lavoro non è mai semplicemente derisorio o accusatorio: rivela la complessità delle relazioni che intratteniamo con le nostre immagini e quelle altrui.

Mentre navighiamo in un oceano di immagini digitali, costruendo e ricostruendo continuamente le nostre identità online, l’opera di Sherman risuona con una forza nuova. Ci ricorda che dietro ogni immagine si cela una messa in scena, che dietro ogni identità si trova una performance. In un mondo dove il confine tra reale e virtuale diventa sempre più sfocato, il suo lavoro ci invita a mantenere uno sguardo critico e lucido sulle immagini che ci circondano e ci costituiscono.

L’eredità di Sherman non risiede solo nelle sue innovazioni formali o nella sua critica sociale, ma nella capacità di farci vedere diversamente. Trasformando il proprio corpo in uno spazio di sperimentazione infinita, ci mostra che l’identità è sempre una costruzione, un processo più che uno stato. Questa lezione, più che mai pertinente nell’era dei social network e della realtà virtuale, rende la sua opera uno strumento prezioso per comprendere il nostro presente e forse persino anticipare il nostro futuro.

Was this helpful?
0/400

Riferimento/i

Cindy SHERMAN (1954)
Nome: Cindy
Cognome: SHERMAN
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 71 anni (2025)

Seguimi