Ascoltatemi bene, banda di snob. Damien Hirst (nato nel 1965) non è semplicemente un artista, è uno specchio deformante della nostra epoca malata. Un riflesso grottesco delle nostre ossessioni collettive per la morte, il denaro e l’immortalità. Alcuni lo vedono come lo Shakespeare dell’arte contemporanea, altri come un ciarlatano che è riuscito a trasformare carcasse di animali in lingotti d’oro. La verità è più complessa e più inquietante.
Iniziamo con la sua relazione ossessiva con la morte, quella danza macabra che attraversa la sua opera come un filo nero. The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, il suo squalo tigre di 4,3 metri che galleggia nel formaldeide, non è una semplice provocazione. È una meditazione viscerale sulla nostra incapacità di concepire la nostra finitudine, un concetto che Heidegger chiamava “l’essere-per-la-morte”. Ma laddove il filosofo tedesco teorizzava, Hirst concretizza. Ci costringe a guardare la morte in faccia, a sentire il suo alito freddo sul nostro collo. Lo squalo diventa il nostro memento mori personale, un predatore congelato nell’eternità che ci ricorda il nostro posto nella catena alimentare cosmica.
Non è un caso se questo lavoro è emerso negli anni ’90, periodo in cui l’Occidente cominciava a perdere le ultime illusioni sul progresso infinito. La fine della storia annunciata da Fukuyama si è trasformata in un inizio di apocalisse al rallentatore. Hirst ha catturato quest’aria del tempo con precisione chirurgica. Le sue vetrine mediche clinicamente asettiche, piene di medicinali accuratamente allineati, sono altari moderni dedicati alla nostra fede cieca nella scienza e nella farmacologia. Pharmacy (1992) non è solo un’installazione, è una dissezione della nostra società medicalizzata all’estremo, dove ogni stato d’animo ha la sua pillola corrispondente.
Passiamo ora alla sua seconda grande ossessione: il mercato dell’arte stesso. For the Love of God, quel teschio incastonato con 8.601 diamanti, è l’opera più cinicamente brillante del XXI secolo. Creando un oggetto il cui valore materiale supera il valore artistico, Hirst è riuscito a trasformare il mercato dell’arte in un medium artistico. È un Marcel Duchamp sotto steroidi capitalisti. Walter Benjamin parlava dell’aura dell’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica; Hirst crea opere la cui aura è precisamente il loro valore di mercato stratosferico.
I critici diranno che è volgare, che è provocazione gratuita. Ma è proprio questo il tema. In un mondo dove l’arte è diventata una classe di asset come un’altra, dove le opere circolano tra porti franchi come azioni in borsa, Hirst non fa che spingere questa logica al suo parossismo assurdo. È il nostro Andy Warhol, ma là dove Warhol celebrava la superficie lucida del capitalismo di consumo, Hirst ne rivela le viscere putrescenti.
La sua serie Natural History, con animali sezionati che galleggiano nel formaldeide, può essere vista come una metafora di questa dissezione del sistema dell’arte contemporanea. Mother and Child Divided (1993), questa mucca e il suo vitello tagliati in due, non è solo una riflessione sulla morte e sulla separazione. È anche un’immagine perfetta di come il mercato taglia e commercializza l’arte, trasformando esseri viventi in merci morte.
E che dire delle sue Spot Paintings, quelle tele coperte di punti colorati allineati con precisione maniacale? Queste opere, prodotte in serie da assistenti, sono l’equivalente artistico dei prodotti derivati finanziari: astrazioni di astrazioni, segni che rimandano solo ad altri segni in una spirale infinita di speculazione. È minimalismo trasformato in macchina per fare cassa, arte concettuale divenuta prodotto d’investimento.
Ma attenzione, non cadete nella trappola di vedere Hirst solo come un cinico manipolatore del mercato. La sua fascinazione per la morte è autentica, quasi ingenua nella sua intensità. Fin dai sedici anni si faceva fotografare con cadaveri nella camera mortuaria di Leeds. Questa ossessione morbosa si inserisce in una lunga tradizione artistica che risale alle vanità del XVII secolo. Come sottolineava Georges Bataille, c’è una connessione profonda tra la morte, il sacro e la spesa improduttiva. Le installazioni monumentali di Hirst sono cattedrali secolari dedicate a questa trinità postmoderna.
Prendete A Thousand Years (1990), quella vetrina contenente una testa di mucca in decomposizione e mosche che nascono, si riproducono e muoiono fulminate da un insetticida. È teatro metafisico alla Samuel Beckett, un’allegoria brutale del ciclo della vita ridotto alla sua espressione più semplice. Ma è anche una critica pungente della nostra società che mantiene la morte a distanza pur essendone affascinata. Come scriveva Zygmunt Bauman, viviamo in un’epoca di “morte addomesticata”, medicalizzata, asettica. Hirst ce la restituisce in tutta la sua brutalità primitiva.
I suoi studi medici, con le loro infinite file di pillole multicolori, sono vanità contemporanee che interrogano il nostro rapporto con la mortalità. Là dove i pittori fiamminghi del XVII secolo usavano teschi e candele consumate per ricordare la futilità dell’esistenza, Hirst usa medicinali, i nostri talismani moderni contro la morte. Queste installazioni sono meditazioni su ciò che Foucault chiamava la “medicalizzazione indefinita”, questa tendenza della società moderna a trattare ogni aspetto della vita come un problema medico.
C’è una coerenza intellettuale impressionante nel suo lavoro, anche se spesso è mascherata dallo spettacolare e dallo scandaloso. La sua pratica artistica può essere vista come un’esplorazione sistematica di ciò che Arthur Danto chiamava “la trasfigurazione del banale”, il modo in cui il contesto artistico trasforma oggetti ordinari in opere d’arte. Ma Hirst spinge questa logica oltre: non trasfigura solo il banale, trasfigura la stessa morte.
I critici che lo paragonano a Jeff Koons mancano il punto essenziale. Là dove Koons celebra la superficie lucida della nostra cultura di consumo, Hirst ne rivela il cadavere in decomposizione sotto lo smalto. È più vicino a Joseph Beuys nella sua comprensione del potere sciamanico dell’arte, anche se il suo sciamanesimo è quello del capitalismo maturo. Come Beuys usava il grasso e il feltro per il loro potere simbolico di guarigione, Hirst usa il formaldeide e i diamanti per il loro potere di conservazione e trasformazione.
Guardate Beautiful Inside My Head Forever, la sua storica asta da Sotheby’s del 2008, che ha raccolto 111 milioni di sterline proprio il giorno in cui Lehman Brothers crollava. Non era solo una vendita, era una performance artistica che anticipava la finanziarizzazione totale dell’arte. Come avrebbe detto Guy Debord, lo spettacolo è diventato il suo stesso prodotto.
La traiettoria di Hirst è quella dell’arte contemporanea stessa: partito da un’autenticità punk nei magazzini abbandonati dell’East London, è diventato un impero commerciale globale. Ma anche nei suoi progetti più commerciali, c’è sempre questa ossessione per la morte che conferisce alla sua opera una gravità che i suoi imitatori non hanno mai saputo eguagliare.
Alcuni diranno che si è venduto al mercato, che ha perso la sua anima artistica lungo il cammino. Ma è proprio vendendosi che ha creato le sue opere più potenti sulla mercificazione dell’arte. È diventato il Mefistofele del proprio Faust, trasformando la sua corruzione in arte e la sua arte in corruzione in un cerchio perfetto.
Damien Hirst è il più grande artista antropologo del nostro tempo. Non si limita a rappresentare il nostro rapporto con la morte, il denaro e il sacro, lo incarna fino all’assurdo. Le sue opere sono diagnosi implacabili della nostra civiltà malata di se stessa, dove anche la morte è diventata una merce come un’altra. E se trovate tutto ciò deprimente, è perché non avete ancora capito che nel mondo di Hirst, la depressione stessa è un’opportunità di mercato.
















