Ascoltatemi bene, banda di snob. Pensate di conoscere tutto dell’arte contemporanea con le vostre teorie fumose e i vostri vernissage in cui fingete di capire ciò che guardate. Ma vi siete davvero presi il tempo di osservare i cavalli fantasma di Deborah Butterfield? Queste creature spettrali che ci fissano con le loro orbite vuote come per ricordarci la nostra stessa fragilità di fronte al passare del tempo?
Nel suo studio nel Montana, lontano dai riflettori newyorkesi, questa scultrice americana nata nel 1949 modella da quasi mezzo secolo cavalli che sfidano ogni classificazione. Cavalli che non sono cavalli, ma assemblaggi meticolosi di rami secchi, detriti metallici e, più recentemente, di bronzo patinato che imita perfettamente il legno levigato dal mare. Equidi scheletrici che sembrano aver attraversato i secoli per venire a perseguitarci.
Quando contemplo queste sculture, non posso fare a meno di pensare al concetto giapponese di wabi-sabi, quell’estetica dell’impermanenza e dell’imperfezione che celebra la bellezza del passare del tempo. I cavalli di Butterfield incarnano perfettamente questa filosofia orientale che vede nell’usura e nel decadimento una forma superiore di bellezza [1]. Le sue sculture non sono mai lisce o perfette, portano le cicatrici del tempo, i segni dell’erosione, la patina degli agenti atmosferici. Ogni ramo contorto, ogni pezzo di metallo arrugginito racconta una storia di sopravvivenza e resilienza.
Il wabi-sabi ci insegna che nulla è permanente, nulla è completo, nulla è perfetto. I cavalli di Butterfield sono memento mori, richiami poetici della nostra stessa mortalità. Stanno davanti a noi, graziosi e fragili, allo stesso tempo presenti e assenti, come fantasmi materializzati. L’artista stessa riconosce questa dimensione metafisica: “Questi primi cavalli erano enormi giumente di gesso la cui presenza era estremamente dolce e calma. Erano a riposo, e in completa opposizione con il cavallo di guerra infuriato (lo stallone) che rappresenta la maggior parte delle sculture equestri”.
Ma non lasciatevi ingannare. Questi assemblaggi non sono semplici evocazioni nostalgiche di una natura idealizzata. Portano in sé una critica acuta del nostro rapporto con il mondo naturale. Quando Butterfield utilizza detriti metallici, pezzi di macchinari agricoli abbandonati o frammenti di recinzioni per costruire i suoi cavalli, ci confronta direttamente con le conseguenze dell’industrializzazione e dell’espansione americana. Il cavallo, un tempo centrale nell’economia e nella cultura occidentali, è stato reso obsoleto dalla macchina. Ecco che l’artista utilizza proprio i resti di questa industrializzazione per ridare vita all’animale che essa ha soppiantato. Che ironia pungente!
Questo approccio ecologico è particolarmente evidente nella sua serie ispirata dallo tsunami giapponese del 2011. In “Three Sorrows”, Butterfield ha recuperato detriti che hanno attraversato il Pacifico dal Giappone fino alle Isole Aleutine dell’Alaska. Caschi schiacciati, giocattoli per bambini, spazzolini da denti… L’artista ha trasformato queste reliquie tragiche in un monumento commemorativo toccante. Il cavallo diventa così l’altare stesso, il testimone silenzioso di una catastrofe che ha causato quasi 20.000 vittime.
Questo lavoro di riciclo artistico si inserisce perfettamente nella tradizione dell’Arte Povera, quel movimento italiano degli anni ’60 che rifiutava i materiali nobili a favore di elementi poveri e quotidiani [2]. Come Jannis Kounellis che espose i suoi cavalli viventi alla Galleria L’Attico di Roma nel 1969, Butterfield utilizza l’animale come un potente simbolo politico ed esistenziale. Ma dove Kounellis provocava con la presenza reale e l’odore dei cavalli, Butterfield ci colpisce con la loro assenza spettrale, con quegli scheletri che sono solo la traccia, l’impronta di una presenza scomparsa.
Perché c’è qualcosa di innegabilmente spettrale in queste sculture. Evocano ossa sbiancate dal sole che si potrebbero scoprire nel deserto, carcasse abbandonate dopo un incendio boschivo, scheletri riesumati da un sito archeologico. La critica d’arte C.L. Morrison lo ha ben compreso quando ha scritto: “Io personalmente vedo questi animali come simboli di sofferenza. Coperti di fango, incatenati e intrecciati da bastoni pesanti e ruvidi che seguono la struttura di ogni gamba, appesantiscono la coda, si incrociano sul naso”. Ogni scultura è al tempo stesso una celebrazione della vita animale e una meditazione sulla sua fragilità.
È interessante notare che Butterfield considera i suoi cavalli come autoritratti camuffati. “Ho usato inizialmente le immagini dei cavalli come un sostituto metaforico di me stessa, era un modo per fare un autoritratto a un grado lontano dalla specificità di Deborah Butterfield”, confida. All’epoca in cui inizia la sua carriera, negli anni ’70, l’arte femminista è in pieno fermento. Artiste come Judy Chicago o Ana Mendieta rivendicano il corpo femminile come territorio politico. Butterfield, invece, sceglie una via più sottile ma altrettanto potente.
Scolpendo giumente anziché stalloni, opera un ribaltamento radicale della tradizione scultorea equestre, tradizionalmente dominata da immagini di uomini a cavallo, simboli di potere marziale e dominio. “Volevo fare queste grandi e belle giumente che fossero forti e imponenti quanto gli stalloni ma capaci di creare e nutrire la vita. Era una dichiarazione femminista molto personale”, spiega. Le giumente di Butterfield non sono cavalcature da guerra, ma creature autonome, spesso a riposo, in posture che suggeriscono tanto vulnerabilità quanto forza.
Questa dimensione di genere del suo lavoro è spesso trascurata dalla critica, troppo occupata ad ammirare la virtuosità tecnica dell’artista. Eppure è essenziale per comprendere la portata politica di queste sculture apparentemente così pacifiche. Scegliendo di rappresentare i suoi cavalli senza fantino, Butterfield libera simbolicamente l’animale dalla dominazione umana, così come afferma, in quanto artista donna, la sua indipendenza in un mondo dell’arte ancora largamente dominato dagli uomini.
La tecnica di Butterfield è singolare e sofisticata. Dagli anni ’80, ha sviluppato un processo complesso di creazione che implica una vera e propria trasformazione della materia. Inizia raccogliendo rami e legno galleggiante che assembla minuziosamente per formare un cavallo. Questa scultura originale viene poi fotografata da ogni angolazione, quindi smontata pezzo per pezzo. Ogni ramo viene stampato e fuso in bronzo, quindi patinato per riprodurre esattamente l’aspetto del legno originale. Infine, i pezzi in bronzo sono saldati tra loro, seguendo rigorosamente la composizione originale.
Questa alchimia tecnica in cui il naturale diventa artificiale pur conservando l’aspetto naturale ricorda le sperimentazioni di Giuseppe Penone, l’artista italiano che fondeva in bronzo alberi per rivelarne la struttura interna. Come lui, Butterfield gioca su questa sottile linea tra natura e cultura, tra il vivente e l’inerte, tra l’effimero e il permanente. Il critico d’arte John Yau riassume perfettamente questa tensione: “Si potrebbe dire che i cavalli di Butterfield sono sopravvissuti. Nonostante il mondo contemporaneo turbolento in cui vivono, sono riusciti a perdurare e, in una certa misura, a prosperare”.
Ma questa trasmutazione del legno in bronzo non piace a tutti i critici. Alcuni, come Ken Johnson del New York Times, la vedono come un tradimento dello spirito originario dell’opera: “Fusi in bronzo, le sculture della signora Butterfield suonano false, simulazioni materialmente lussuose ma esteticamente indebolite delle costruzioni originali”. È vero che questa evoluzione verso il bronzo ha coinciso con un crescente riconoscimento istituzionale e commerciale dell’artista. Le sue opere, ora più durevoli e quindi più collezionabili, si sono ritrovate nei più grandi musei americani e in importanti collezioni private.
Questa tensione tra integrità artistica e successo commerciale non è certamente unica di Butterfield. Ma solleva importanti questioni sull’evoluzione di un’opera nel tempo e sui compromessi che gli artisti a volte devono accettare. Nel caso di Butterfield, il passaggio al bronzo può essere interpretato come una volontà di rendere il suo lavoro duraturo, di conferirgli una permanenza che i materiali naturali non potevano offrire. Ma facendo ciò, non ha forse sacrificato qualcosa dell’autenticità e della precarietà che rappresentavano la forza delle sue prime opere?
Seph Rodney di Hyperallergic esprime bene questo sentimento ambivalente: “I cavalli sembrano fragili, appena assemblati, ma realizzati in bronzo invece che in legno galleggiante sbiancato, dureranno per secoli in un atrio aziendale e probabilmente ci sopravviveranno tutti”. Il bronzo trasforma queste creature apparentemente vulnerabili in monumenti duraturi, contraddicendo forse il loro messaggio iniziale sulla fragilità e l’impermanenza.
Ma è forse proprio in questa contraddizione che risiede la forza del lavoro di Butterfield. I suoi cavalli sono paradossi incarnati: sembrano allo stesso tempo solidi e fragili, naturali e artificiali, presenti e assenti, vivi e morti. Ci parlano del nostro desiderio contraddittorio di preservare la natura pur dominandola, della nostra nostalgia per un mondo pre-industriale pur godendo dei vantaggi della tecnologia.
Più che semplici rappresentazioni di animali, le sculture di Butterfield sono profonde meditazioni sul nostro rapporto ambiguo con il mondo naturale, sulla nostra stessa mortalità, e sulla possibilità della bellezza nell’imperfezione e nel decadimento. Ci ricordano che tutto ciò che vive finirà per morire, ma che in questa fine inevitabile risiede forse la più grande poesia.
Perché si tratta proprio di poesia con Deborah Butterfield. Una poesia della materia, dove ogni ramo, ogni pezzo di metallo diventa una linea, un verso in una poesia tridimensionale. Una poesia del tempo, dove le tracce dell’erosione e dell’usura raccontano storie più eloquenti delle superfici lisce e perfette. Una poesia dell’assenza, dove ciò che non c’è, la carne, i muscoli, la vita, diventa più presente di ciò che è materialmente visibile.
Allora, andate oltre le apparenze, come suggerisce il titolo della sua recente mostra all’UC Davis: “P.S. These are not horses”. Questi cavalli non sono cavalli, ma metafore, fantasmi, tracce. Sono ciò che rimane quando tutto il resto è scomparso. E in un mondo ossessionato dalla novità e dalla perfezione, non è forse proprio questo ciò di cui abbiamo bisogno? Opere che ci ricordano la bellezza di ciò che passa, di ciò che si trasforma, di ciò che persiste nonostante tutto.
- Koren, Leonard. Wabi-Sabi: per Artisti, Designer, Poeti & Filosofi. Imperfect Publishing, 2008.
- Christov-Bakargiev, Carolyn. Arte Povera. Phaidon Press, 1999.
















