Ascoltatemi bene, banda di snob, Donald Baechler non è mai stato l’artista che pensavate fosse. Per decenni lo avete collocato nella comoda casella del “neo-espressionismo degli anni 1980”, accanto a Basquiat e Haring, come se quel triumvirato newyorkese condividesse le stesse preoccupazioni artistiche. Che errore monumentale! Baechler stesso lo ripeteva a chiunque volesse sentire: “Sono un artista astratto prima di tutto”. Eppure, abbiamo continuato a vedere nei suoi fiori, nelle sue teste rotonde e nelle sue silhouette infantili un’estetica falsamente ingenua, mentre costruiva pazientemente un’opera ossessionata dalla linea, dalla forma e dall’equilibrio.
L’opera di Baechler, scomparso nel 2022, richiede di essere rivalutata secondo i propri termini. I suoi grandi quadri con linee nere spesse, posate su sfondi lavorati come sovrapposizioni contemporanee, trascendono le interpretazioni semplicistiche che vi vedevano un recupero dell’arte infantile. Ciò che mi piace di Baechler è la sua capacità di camminare su un filo sottile, come ha perfettamente detto Robert Pincus-Witten, “tra la buccia di banana dell’evidenza e quella dell’oscurità” [1]. Un passo falso e l’opera cade nel bathos comico. Ma Baechler, come un funambolo consumato, si ferma sempre appena prima della caduta.
Per capire Baechler, occorre prima comprendere la sua relazione con la storia dell’arte, non quella che gli viene solitamente attribuita (la filiazione con l’arte outsider), ma quella che lui stesso rivendicava. Interrogato sulle sue influenze maggiori, citava senza esitazione Cy Twombly, Giotto e Rauschenberg. Nientemeno! Questa trinità rivela tutto il suo progetto artistico: la linea primordiale e la ricchezza delle superfici in Twombly, la monumentalità narrativa e la chiarezza formale in Giotto, la tecnica del collage e la giustapposizione di immagini disparate in Rauschenberg.
L’approccio di Baechler alla pittura si inserisce in una tradizione americana che può essere fatta risalire a Robert Motherwell, figura emblematica dell’espressionismo astratto e teorico principale dell’arte moderna. Questa filiazione è particolarmente visibile nel modo in cui Baechler manipola le tensioni tra semplicità e complessità, tra apparente spontaneità e meticolosa deliberazione. Come Motherwell, Baechler era un intellettuale travestito da pittore intuitivo, un erudito che nascondeva la sua vasta cultura sotto forme di apparente immediatezza. Motherwell scriveva che “il problema centrale della pittura moderna è scoprire quali possibilità di sentimento contiene la struttura moderna”, ed è esattamente ciò che Baechler esplorava nella sua opera [2]. Il rapporto di Baechler con Motherwell si articola attorno a questa ricerca comune: trovare un equilibrio tra espressione personale e le esigenze formali della pittura. Nei suoi collage complessi e nelle immagini apparentemente banali, Baechler evoca lo spirito di Motherwell che cercava di trasformare l’atto privato della creazione in esperienza pubblica. Come il suo predecessore, manipola forme archetipiche (il fiore, la testa, il globo) per infondere loro una risonanza emotiva che trascende la loro apparente semplicità. Il suo uso di superfici altamente testurizzate riecheggia l’interesse di Motherwell per le qualità materiali della pittura, per quella che chiamava “la sostanza stessa” dell’arte. Quando Baechler costruisce i suoi sfondi complessi, accumulazioni di tessuti, carte e strati di pittura, prosegue la tradizione di Motherwell che considerava la tela come un campo di battaglia dove si scontrano materialità e concetto. I due artisti condividevano anche una fascinazione per il processo creativo stesso, per le possibilità e i vincoli insiti nei materiali usati. Baechler amava costruire superfici accidentate proprio perché il suo tratto non potesse seguire un percorso troppo fluido, ricercava quella che chiamava una “frattura integrata”, una resistenza materiale al gesto pittorico. Questo approccio richiama l’osservazione di Motherwell secondo cui “la pittura è una serie di decisioni prese in uno stato di intensa tensione”. Per entrambi gli artisti, l’autenticità emerge non da un’espressione sfrenata, ma da un dialogo costante con i vincoli formali e materiali. Se Motherwell esplorava le possibilità espressive dell’astrazione pura, Baechler navigava al confine tra figurazione e astrazione, utilizzando immagini riconoscibili come pretesti per esplorazioni formali. Il suo modo di isolare forme semplici contro sfondi complessi ricorda le “Elegie per la Repubblica spagnola” di Motherwell, dove forme nere monumentali si stagliano su sfondi animati da sottili variazioni cromatiche. Questo rapporto di figura a sfondo, centrale nelle opere di entrambi gli artisti, diventa per Baechler il teatro di una tensione permanente tra riconoscimento e estraneità, tra familiarità e alienazione.
Parallelamente a questa filiazione con Motherwell, l’opera di Donald Baechler intrattiene un dialogo affascinante con la tradizione del teatro dell’assurdo, in particolare con le opere di Samuel Beckett. Questa connessione può sembrare sorprendente, ma illumina in modo sorprendente l’approccio artistico di Baechler. I suoi personaggi semplificati, i suoi fiori senza radici e i suoi oggetti fluttuanti evocano irresistibilmente l’universo beckettiano popolato da figure isolate in spazi indeterminati. In “Aspettando Godot”, Beckett riduce l’esistenza umana alla sua essenza più elementare, due vagabondi che aspettano qualcuno che non arriverà mai, in un paesaggio definito solo da un albero scheletrico [3]. Allo stesso modo, Baechler isola i suoi motivi in spazi ambigui, spogliandoli di ogni contesto narrativo convenzionale. Questa strategia di riduzione e isolamento è al cuore dell’estetica di entrambi i creatori. Quando Beckett scrive “Niente è più divertente della sventura”, esprime una sensibilità che si ritrova nelle opere di Baechler, dove il comico e il tragico sono indissolubilmente legati. Le teste semplificate di Baechler, con le loro espressioni minime e ambigue, ricordano i personaggi beckettiani, al tempo stesso clowneschi e profondamente malinconici. Si pensa in particolare a “Flower”, quella scultura monumentale di Baechler che presenta un fiore stilizzato, quasi caricaturale, ma la cui presenza massiccia evoca tanto la celebrazione quanto il lutto, ambivalenza tipicamente beckettiana. La temporalità particolare che abita l’opera di Baechler fa eco anche a quella di Beckett. Nei suoi dipinti, il tempo sembra sospeso, congelato in un presente eterno dove i motivi fluttuano come apparizioni. Questa sospensione temporale ricorda quella delle opere di Beckett, dove l’azione sembra svolgersi in un tempo ciclico, senza progresso né risoluzione. “Walking Figure”, quella scultura emblematica di Baechler installata all’aeroporto Gabreski, rappresenta una silhouette in movimento perpetuo ma paradossalmente immobile, incarnazione perfetta della celebre frase di “Fine partita”: “Qualcosa segue il suo corso”. L’economia dei mezzi è un’altra caratteristica condivisa dai due artisti. Beckett riduceva progressivamente la sua scrittura all’essenziale, eliminando tutto ciò che considerava superfluo, fino a raggiungere nelle sue ultime opere una concentrazione estrema. Baechler, in modo analogo, distilla le sue immagini alla loro forma più elementare, cercando di catturare l’essenza dei suoi soggetti con un minimo di tratti. Questa parsimonia non è un minimalismo freddo, ma piuttosto la ricerca di un’intensità massima tramite la riduzione. I silenzi di Beckett trovano il loro equivalente pittorico negli spazi vuoti delle composizioni di Baechler, queste zone di respiro che caricano l’opera di una tensione palpabile. Entrambi gli artisti comprendono che l’assenza può essere altrettanto espressiva della presenza. La ripetizione, strategia centrale nell’opera di Beckett (pensiamo ai dialoghi circolari di “Godot”), trova un parallelo nel modo in cui Baechler riprende instancabilmente gli stessi motivi, teste, fiori, globi, sottoponendoli a infinite variazioni, come per esaurire le loro possibilità o rivelarne la loro insipienza fondamentale. In definitiva, l’umorismo particolare che permea l’opera di Baechler si avvicina a quello di Beckett: un umorismo nero, a volte tagliente, che emerge dall’assurdità stessa della condizione umana, dai nostri disperati tentativi di creare senso in un mondo che forse ne è privo. Come scriveva Beckett in “L’Innommable”: “Non posso continuare, continuerò”, una formula che potrebbe descrivere perfettamente la tensione produttiva al cuore dell’impresa artistica di Baechler.
Per apprezzare pienamente Baechler, è necessario comprendere il suo metodo di lavoro. Lungi dall’essere un gesto spontaneo, ogni quadro è il frutto di un processo di accumulazione e cancellazione. Nel suo vasto atelier a Manhattan, collezionava ossessivamente immagini, fotografie, ritagli di giornale, disegni trovati, di cui alla fine conservava solo una minima frazione per le sue opere. “Su mille immagini che salvo, probabilmente ne uso una o due”, confidava. Questa accumulazione maniacale non era un fine in sé, ma la condizione necessaria per una scelta successiva, una selezione rigorosa.
Ciò che rende le opere di Baechler così affascinanti è proprio questa tensione tra accumulazione e riduzione, tra complessità e semplicità. I suoi fondi sono labirinti visivi, sovrapposizioni di tessuti, carte e strati pittorici, mentre le sue figure, questi famosi profili, fiori o globi, sono di una semplicità disarmante. C’è qualcosa di eroico in questo approccio: estrarre dal caos visivo contemporaneo forme essenziali, quasi arcaiche.
Prendiamo “Standing Nude (After Shelby Creagh)” del 1982. Quest’opera rivela un artista che, paradossalmente, si sforza di disimparare a disegnare. Le forme sono grezze, goffe, deliberatamente inesperte. La testa del modello è tronca da una nube bianca che attiva lo spazio vuoto sopra la figura. Mani e piedi non sono nemmeno abbozzati, gli arti si assottigliano in punte acuminate o sono tagliati dai bordi del foglio. Questo approccio segna una rottura nello stile di Baechler, tra i disegni relativamente aggraziati del 1981 e le sue opere deliberatamente goffe del 1983-84, dove spessi tratti neri convergono verso immagini emblematiche, primitive, infantili, che conservano tutta la loro potenza.
C’è qualcosa di impressionante in questa assenza di articolazione, in questa resistenza agli obiettivi convenzionali del disegno dal vero. L’artista sembra costringersi a vedere con uno sguardo nuovo, a sentire ciò che vede, forse usando la mano non dominante. Il risultato è una linea più forte, più sicura, ma anche più ruvida.
Questa evoluzione verso una ruvidezza e una texture più marcate caratterizza le opere degli anni seguenti. La linea diventa un’entità sinuosa che fonde perfettamente pittura e disegno. La superficie assume una personalità spigolosa, con pezzi di carta incollati e pagine di taccuino strappate che aumentano la tattilità del supporto. Gli elementi di collage servono anche da cancellature, obliterando porzioni dell’immagine, a volte riformulate o riviste, altre volte lasciate come lacune.
Ciò che molti hanno interpretato come un’estetica naïf, infantile, era in realtà una strategia sofisticata per creare quella che Baechler chiamava una “frattura integrata”. “Costruisco le mie superfici perché non voglio sapere cosa farà la linea”, spiegava. “Voglio che il percorso del pennello sulla tela non sia un viaggio fluido e facile, voglio problemi lungo la strada.”
Questo approccio materiale abrasivo è diventato predominante con i disegni ispirati da Shelby Creagh, dove pezzi di mussola sono applicati per creare una superficie più ruvida e densa, costringendo i tratti di grafite e acrilico nero a manovrare attraverso una topografia mutevole di creste e fessure, un ostacolo autoimposto che ha rallentato i gesti spruzzati delle sue opere precedenti.
Uno delle opere più significative di questo periodo è “Afrikareise” (1984), apparentemente ispirata al documentario d’avanguardia del cineasta austriaco Peter Kubelka, “Unsere Afrikareise” (Il nostro viaggio in Africa, 1966), che segue un gruppo di cacciatori bianchi europei durante un safari africano. Nonostante la struttura non narrativa del film, le disuguaglianze del colonialismo e il contrasto tra gli sfruttatori stranieri coccolati e gli sfruttati indigeni non potrebbero essere più evidenti.
La testa stoicamente miserabile che galleggia al centro di “Afrikareise” evoca una moltitudine di associazioni, dall’ultima battaglia di Custer e, per implicazione, dalla storia della conquista e dello spoglio del Destino Manifesto, fino alla freccia umoristica che Steve Martin portava in testa nei suoi spettacoli comici degli anni ’70.
Anche le sculture di Baechler, quei fiori monumentali in bronzo che sembrano ritagliati direttamente dalle sue tele, partecipano a questa estetica della “frattura integrata”. “Walking Figure” (2008), questa silhouette femminile di 9 metri di altezza in alluminio che accoglie i visitatori all’aeroporto della contea di Suffolk, ne è l’esempio perfetto. Deliberatamente piatta, quasi bidimensionale, sfida le aspettative della scultura tradizionale pur creando una presenza visiva innegabile.
Ciò che rende Donald Baechler un artista essenziale è la sua capacità di navigare tra mondi apparentemente contraddittori: l’astrazione e la figurazione, la sofisticatezza e la naïveté, l’umorismo e la gravità. In un panorama artistico contemporaneo ossessionato dalla novità e dalla rottura, Baechler ha costruito un’opera che dialoga sottilmente con la storia dell’arte creando allo stesso tempo la propria mitologia visiva.
Non fraintendetemi: Baechler non era un artista “graffiti” né un semplice nostalgico dell’infanzia. Era un pittore serio, ossessionato da questioni formali che risalgono all’alba dell’arte moderna. Il fatto che le sue opere ci facciano sorridere non diminuisce affatto la loro ambizione artistica, al contrario, testimonia la sua profonda comprensione della condizione umana, sia tragica che assurda.
Quindi, la prossima volta che vi troverete davanti a una di quelle teste rotonde, quei fiori stilizzati o quei globi emblematici, guardate oltre l’immagine. Osservate come la linea nera lotta contro la superficie strutturata, come la figura semplice emerge da uno sfondo caotico, come l’intera opera oscilla tra ordine e disordine, controllo e abbandono. È qui, in questa tensione irrisolta, che risiede il genio di Donald Baechler.
- Robert Pincus-Witten, “Donald Baechler”, Artforum, 2010.
- Robert Motherwell, “Il mondo del pittore moderno”, Dyn, n. 6, Novembre 1944.
- Samuel Beckett, “Aspettando Godot”, Les Éditions de Minuit, 1952.
















