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Gottfried Helnwein: L’angelo e il demone

Pubblicato il: 9 Giugno 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Gottfried Helnwein trasforma l’iperrealismo in un’arma di resistenza. I suoi bambini con il volto bendato e le sue bambine cicatrizzate rivelano la violenza nascosta nelle nostre società. Questo artista austriaco naturalizzato irlandese rifiuta ogni compromesso, utilizzando l’arte come rivelatore implacabile delle nostre zone d’ombra collettive più profonde.

Ascoltatemi bene, banda di snob, perché ci troviamo di fronte a uno degli ultimi veri provocatori della nostra epoca, un uomo che osa ancora fare ciò che l’arte dovrebbe fare da sempre: schiaffeggiarci con la verità della nostra condizione umana. Gottfried Helnwein non è uno di quegli artisti contemporanei che si compiacciono nell’autosoddisfazione di un mercato dell’arte asettico. No, questo austriaco divenuto irlandese ci confronta da più di cinquant’anni con le nostre zone d’ombra più profonde, attraverso un’opera che fa dell’infanzia martirizzata lo specchio implacabile delle nostre società.

Nato nel 1948 in una Vienna ancora tormentata dai fantasmi del nazismo, Helnwein è cresciuto in quell’atmosfera di silenzio complice che Stefan Zweig descrive così bene nelle sue memorie d’esilio. Questa città spezzata, dove nessuno cantava né rideva, dove gli adulti cercavano di farsi dimenticare in un’amnesia collettiva, ha formato l’artista ribelle che conosciamo. Fin dall’adolescenza, rifiuta le convenzioni, abbandona la scuola, respinge l’autorità in tutte le sue forme. La sua prima trasgressione artistica, quel presunto ritratto di Hitler dipinto col proprio sangue che gli costò l’espulsione dalla scuola d’arte, annuncia già la radicalità del suo impegno estetico.

L’iperrealismo di Helnwein trascende la semplice prodezza tecnica per diventare strumento di resistenza. I suoi bambini con i volti bendati, le sue bambine con cicatrici profonde, i suoi piccoli che impugnano armi da guerra non rientrano nel sensazionalismo gratuito ma in una necessità interiore impellente. Come ha dichiarato lui stesso: “Fin da piccolo ho sempre visto la violenza intorno a me e gli effetti della violenza: la paura” [1]. Questa violenza la trasforma in una bellezza inquietante, in una poesia stridente che ci costringe a guardare ciò che preferiremmo ignorare.

Le sue prime mostre viennesi degli anni ’70 scatenarono proteste violente, chiusure di esposizioni, sequestri da parte della polizia. Il pubblico borghese dell’epoca non sopportava quelle immagini di bambini torturati che rimandavano troppo crudamente ai crimini recenti della Storia. Tuttavia, Helnwein persevera e firma, convinto che l’arte debba servire da pungolo alla coscienza collettiva. Le sue acquerelli di bambini mutilati divennero rapidamente la sua firma estetica, un marchio di fabbrica che non smise mai di disturbare.

L’opera di Helnwein affonda profondamente le sue radici nella tradizione letteraria europea, particolarmente nell’universo kafkiano dell’assurdo e dell’alienazione. Come in Franz Kafka, l’individuo helnweiniano si trova intrappolato in un sistema che lo schiaccia inesorabilmente. Il bambino bendato diventa la metafora universale dell’uomo moderno, vittima di meccanismi sociali che non comprende e non controlla. Questa parentela con lo scrittore praghese non è casuale: entrambi sono cresciuti nell’Impero austro-ungarico in declino, entrambi hanno assistito al crollo delle certezze borghesi, entrambi hanno fatto dell’angoscia esistenziale il cuore della loro creazione.

In Kafka, il protagonista si trasforma letteralmente in un insetto in La Metamorfosi, subendo una mutazione che lo rende estraneo alla propria famiglia. In Helnwein, il bambino subisce una metamorfosi inversa: conserva il suo aspetto umano ma porta sul volto i segni di una violenza che lo trasforma in una creatura ibrida, mezzo angelo mezzo demone. Questa trasformazione si compie attraverso la ferita, la mutilazione, l’aggiunta di accessori medici che disumanizzano pur rivelando paradossalmente l’essenza stessa dell’umanità. L’artista austriaco spinge ancora più lontano la logica dell’assurdo rispetto a Kafka: dove lo scrittore mantiene una distanza ironica, Helnwein ci immerge direttamente nell’orrore senza via di fuga.

Il processo creativo di Helnwein somiglia a quello di Kafka nella sua metodologia quasi ossessiva. Come l’autore de Il Processo, che scriveva di notte, perseguitato dalle sue visioni incubi, Helnwein lavora in assoluta solitudine, circondato dalle sue bambole mutilate e dalle sue referenze visive raccolte nelle morgue europee. Questa dimensione solitaria della creazione, questa necessità di isolarsi dal mondo per rivelarlo meglio, costituisce un tratto comune ad entrambi gli artisti. In entrambi, l’arte nasce dall’impossibilità di vivere normalmente in un mondo impazzito.

La tecnica iperrealista di Helnwein serve questa estetica dello straniamento inquietante cara a Kafka. I suoi bambini dai volti di una precisione fotografica si muovono in spazi indeterminati, fuori dal tempo e dallo spazio, esattamente come i personaggi kafkiani si muovono in scenari urbani anonimi e labirintici. Questa precisione del dettaglio al servizio dell’irreale crea un effetto di disagio costante nello spettatore, che non riesce più a distinguere il sogno dalla realtà, l’incubo dalla normalità. L’arte di Helnwein funziona come una macchina per produrre angoscia, esattamente come la letteratura kafkiana.

L’influenza della cultura popolare americana sull’opera di Helnwein costituisce l’altro pilastro della sua estetica. Paperino, questa figura tutelare della sua infanzia viennese, attraversa tutta la sua produzione artistica come un leitmotiv ossessivo. Questo attaccamento all’anatra di Disney può sembrare incongruo in un artista che denuncia la violenza del mondo contemporaneo, ma rivela in realtà una strategia estetica di grande coerenza. Paperino incarna per Helnwein l’antieroe per eccellenza, il perdente magnifico che resiste a tutte le avversità senza mai perdere la sua dignità.

Questa fascinazione per l’universo Disney si inserisce in un approccio sociologico più ampio che interroga i meccanismi della cultura di massa. Helnwein utilizza i codici estetici del fumetto americano per meglio distorcerli, pervertirli, ribaltarli contro se stessi. I suoi Topolino ghignanti, i personaggi dei cartoni trasformati in creature minacciose rivelano il lato oscuro dell’industria dell’intrattenimento. L’artista opera una critica radicale della società dei consumi usando le sue stesse armi, i suoi stessi simboli, le sue stesse referenze.

Questa strategia di dirottamento raggiunge il suo apice nelle sue installazioni monumentali come Ninth November Night, realizzata nel 1988 a Colonia per commemorare la Notte dei Cristalli. Cento metri di volti di bambini a grandezza naturale sfilano tra il museo Ludwig e la cattedrale, evocando irresistibilmente le selezioni nei campi di concentramento. Il pubblico non può sfuggire a questo confronto forzato con la Storia, proprio come i consumatori non possono sfuggire alla pubblicità nello spazio urbano. Helnwein rivolta i meccanismi della comunicazione di massa contro se stessi per creare una contropropaganda della memoria.

L’arte di Helnwein si radica anche in una critica sociologica dell’educazione e delle istituzioni. I suoi bambini bendati denunciano implicitamente i sistemi educativi che formattano e mutilano le giovani menti. Come egli stesso spiega: “L’infanzia è quella breve fase innocente della vita in cui un essere umano integro possiede ancora creatività e immaginazione prima che i sistemi educativi esterni le distruggano” [2]. Questa visione pessimistica della scuola e dell’educazione si inscrive nella tradizione sociologica critica inaugurata da pensatori come Ivan Illich o Paulo Freire.

L’artista austriaco prosegue questa critica denunciando l’ipocrisia delle società democratiche che pretendono di proteggere l’infanzia mentre la sacrificano quotidianamente sull’altare dei loro interessi economici e politici. Le sue opere funzionano come rivelatori delle nostre contraddizioni collettive, dei nostri volontari ciechi, dei nostri compromessi con la violenza istituzionale. Il bambino helnweiniano diventa il simbolo di tutte le vittime collaterali dei nostri sistemi sociali, di tutte le innocenze spezzate dalla nostra indifferenza organizzata.

Questa dimensione sociologica dell’opera trova la sua traduzione più esplicita nelle sue collaborazioni con musicisti come Marilyn Manson o nei suoi lavori per l’opera. Helnwein rifiuta di confinare la sua arte negli spazi tradizionali della cultura elitista, preferendo investire i circuiti della cultura popolare per raggiungere un pubblico più vasto. Questa strategia democratica dell’arte si unisce alle sue convinzioni politiche profonde: l’arte non deve restare confinata nelle gallerie borghesi ma deve scendere in strada, apparire sulle copertine delle riviste, interpellare il passante ordinario.

L’installazione del 2018 sulla torre del Ring a Vienna, che mostra una bambina bionda che punta una mitragliatrice verso i passanti, illustra perfettamente questa volontà di confronto diretto con lo spazio pubblico. Quest’opera monumentale trasforma il centro storico di Vienna in una galleria a cielo aperto, costringendo gli abitanti a interrogarsi sulla violenza che attraversa la loro quotidianità. Non importa se l’immagine disturba o sconvolge: l’essenziale sta nella sua capacità di far riflettere, di scuotere le certezze, di risvegliare le coscienze assopite.

L’opera di Helnwein si inscrive inoltre in una riflessione psicoanalitica sul trauma e la memoria collettiva. I suoi bambini feriti possono essere letti come tanti sintomi della rimozione storica, come il ritorno del represso nell’inconscio europeo. L’Austria del dopoguerra, quella società amnesica che rifiuta di affrontare il proprio passato nazista, produce necessariamente immagini ossessive che vengono a infestare i suoi sogni collettivi.

L’artista funziona qui come uno psicoanalista della società, rivelando i traumi nascosti, costringendo alla parola dove regna il silenzio, imponendo la verità dove prospera la menzogna. I suoi autoritratti bendati, i suoi volti mutilati ci rimandano ciascuno alle proprie ferite, alle proprie zone d’ombra, ai propri compromessi con la violenza. L’arte diventa terapia collettiva, esorcismo della colpa, rivelatore dell’inconscio rimosso.

Questa dimensione psicoanalitica spiega la violenza delle reazioni suscitata dalle opere di Helnwein. Come osserva lo storico dell’arte Peter Gorsen, il bambino maltrattato costituisce “un’invenzione originale” che rompe le nostre rappresentazioni idealizzate dell’infanzia [3]. Questa rottura con le nostre costruzioni mentali rassicuranti provoca uno shock salutare che ci costringe a riconsiderare i nostri pregiudizi, le nostre cecità, le nostre negazioni. L’arte di Helnwein funziona come uno specchio spietato rivolto alle nostre società: ci restituisce un’immagine di noi stessi che preferiremmo non vedere.

L’evoluzione recente dell’opera di Helnwein, contrassegnata dalla sua critica alla “cancel culture” e al politicamente corretto, rivela la coerenza del suo impegno artistico. Da più di cinquant’anni, quest’uomo rifiuta ogni forma di censura, sia che provenga dalla destra o dalla sinistra, che sia religiosa o laica, politica o morale. La sua libertà di creazione non si negozia, non si mercanteggia, non si compromette. In un mondo dove l’arte contemporanea sembra sempre più formattata dagli imperativi del mercato e dalle imposizioni ideologiche, Helnwein mantiene intatto il suo potere di disturbare.

Questa intransigenza gli vale oggi le critiche di coloro che ieri applaudivano la sua ribellione contro l’ordine borghese. Ma l’artista autentico non può scegliere le sue battaglie in base alle mode intellettuali: deve rimanere fedele alla sua visione, costi quel che costi. Helnwein paga il prezzo di questa fedeltà a se stesso, di questo rifiuto di sottomettersi ai nuovi conformismi, di questa volontà di rimanere un elettrone libero in un mondo sempre più normalizzato.

L’opera di Gottfried Helnwein attraversa i decenni senza invecchiare perché tocca l’universo umano universale. I suoi bambini feriti parlano a tutte le generazioni, a tutte le culture, a tutte le sensibilità. Ci ricordano che dietro le nostre maschere di civiltà si nasconde sempre la stessa barbarie primitiva, che sotto i nostri bei discorsi umanisti persiste la stessa indifferenza alla sofferenza altrui. Questa verità scomoda ma necessaria fa di Helnwein uno dei pochi artisti contemporanei ancora capaci di commuoverci, interrogarci, trasformarci.

Di fronte alle sue tele monumentali, non possiamo più fingere ignoranza né coltivare indifferenza. L’arte torna ad essere ciò che non avrebbe mai dovuto smettere di essere: un’arma di resistenza contro tutte le forme di oppressione, un grido di rivolta contro tutte le ingiustizie, un appello alla dignità in un mondo che ne manca crudelmente. Gottfried Helnwein ci ricorda che l’artista autentico non è mai un intrattenitore ma sempre un guastafeste, mai un decoratore ma sempre un rivelatore, mai un cortigiano ma sempre un ribelle.

In quest’epoca di confusione generalizzata in cui l’arte si perde nei meandri dello spettacolo e della mercificazione, Helnwein mantiene viva la tradizione dell’impegno estetico. Le sue opere ci dimostrano che è ancora possibile creare senza compromessi, denunciare senza concessioni, resistere senza indebolirsi. Per questo solo, merita il nostro riconoscimento e la nostra ammirazione.


  1. Gottfried Helnwein, citato in Los Angeles Review of Books, “Confronting the Intolerable”, gennaio 2017
  2. Documentazione Wikipedia su Gottfried Helnwein, giugno 2025
  3. Peter Gorsen, citato nella documentazione Wikipedia su Gottfried Helnwein, giugno 2025
  4. Intervista a Max magazine, “Der lange Schatten”, giugno 2024
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Riferimento/i

Gottfried HELNWEIN (1948)
Nome: Gottfried
Cognome: HELNWEIN
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Austria
  • Irlanda

Età: 77 anni (2025)

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