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Grotjahn: La violenza primordiale dell’astrazione

Pubblicato il: 25 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 6 minuti

Mark Grotjahn ridefinisce il nostro rapporto con l’astrazione attraverso le sue serie ‘Butterflies’ e ‘Face Paintings’. Le sue opere, tra brutalità e precisione, mettono lo spettatore di fronte a un’esperienza viscerale in cui la materia pittorica diventa il terreno di una lotta senza quartiere.

Ascoltatemi bene, banda di snob, la storia di Mark Grotjahn (nato nel 1968) è quella di un artista che ci costringe a ripensare il nostro rapporto con l’astrazione e la materialità della pittura. Ma attenzione, non lasciatevi ingannare, non è uno di quei pseudo-intellettuali che passano il tempo a teorizzare l’arte nei salotti dorati del 16º arrondissement. No, Grotjahn è un animale selvaggio della pittura, un predatore che bracca la sua preda con una precisione chirurgica, armato dei suoi coltelli da pittore e dei suoi tubetti di colore a olio.

Vi parlerò di due aspetti fondamentali della sua opera che illustrano perfettamente il suo approccio singolare: la sua serie “Butterflies” e i suoi “Face Paintings”. E credetemi, se pensate che l’astrazione geometrica sia un concetto superato, dovrete ricredervi.

Cominciamo con i suoi “Butterflies”, quelle tele ipnotiche emerse alla fine degli anni ’90. Non lasciatevi ingannare da questo titolo fuorviante, queste opere non hanno nulla a che vedere con le farfalle decorative che adornano le pareti delle gallerie per turisti. No, Grotjahn qui si appropria delle tecniche prospettiche del Rinascimento per farle esplodere in mille frammenti. Crea composizioni radiosissime che sembrano pulsare di energia, come se Piero della Francesca e Barnett Newman avessero avuto un figlio illegittimo allevato da Frank Stella. Ogni linea è tracciata con una precisione ossessiva, creando molteplici punti di fuga che destabilizzano la nostra percezione. È come se l’artista ci dicesse: “Volete prospettiva? Ve ne darò fino all’overdose.”

Questo approccio richiama ciò che Maurice Merleau-Ponty scriveva in “L’Oeil et l’Esprit” sulla nostra percezione del mondo visibile. Grotjahn non si limita a rappresentare lo spazio, lo decompone per costringerci a interrogare il nostro stesso rapporto con la realtà. E mentre alcuni collezionisti si entusiasmano di fronte a NFT a colori, lui esplora le stesse fondamenta della nostra percezione visiva con una rigore quasi scientifico.

Ma è nelle sue “Face Paintings” che Grotjahn raggiunge una dimensione ancora più affascinante. Dopo essersi ferito alla spalla nel 2008 (un incidente sciistico, non una rissa in un bar alla moda di Los Angeles), ha dovuto reinventare il suo modo di dipingere. Il risultato? Volti astratti di una brutalità sconvolgente, applicati con coltello da pittore su cartone montato su tela. Queste opere sono come maschere primitive passate in un trituratore post-moderno. Gli occhi, il naso, la bocca emergono da spesse stratificazioni di colore come fossili nella roccia.

Questa serie evoca le riflessioni di Georges Bataille sull’informe e sulla trasgressione dei limiti. Ogni tela è un campo di battaglia dove figurazione e astrazione si scontrano in una danza macabra. La superficie pittorica diventa un terreno di sperimentazione dove la materia stessa sembra viva, pulsante. Siamo lontani dalle delicate nature morte di cui si vantano alcuni collezionisti parigini, sapete, quelli che confondono ancora Picasso con Picabia.

Grotjahn lavora come un pugile, concatenando colpi di coltello da pittore con una violenza controllata. I suoi gesti sono allo stesso tempo brutali e precisi, creando accumuli di materia che sfidano la gravità. La tavolozza cromatica di Grotjahn è altrettanto provocante. Usa colori che sembrano usciti da un incubo psichedelico: verdi acidi, rossi sangue, gialli tossici. Queste scelte non sono casuali, contribuiscono a creare una tensione visiva che mantiene lo spettatore in uno stato di allerta costante. È come se Francis Bacon avesse deciso di fare un remake di “2001: Odissea nello spazio” collaborando con Helen Frankenthaler.

Il suo atelier a Little Armenia a Los Angeles è diventato una sorta di laboratorio dove spinge sempre più avanti le sue sperimentazioni. Al di fuori di ogni concetto o discorso, Grotjahn rimane fedele a un approccio fisico, quasi violento alla pittura. Non teorizza, agisce. Non concettualizza, attacca la tela.

Questo approccio richiama le teorie di Theodor Adorno sulla negatività nell’arte moderna. Grotjahn rifiuta consapevolmente le convenzioni estetiche dominanti per creare qualcosa di radicalmente nuovo. Le sue opere non cercano di piacere, ma di provocare una reazione viscerale nello spettatore.

Il mercato dell’arte ha ovviamente risposto con entusiasmo, come sempre accade di fronte a una ribellione apparente. Le sue opere raggiungono prezzi stratosferici alle aste, culminando a 16,8 milioni di euro nel 2017 per “Untitled (S III Released to France Face 43.14)”. Ma non fatevi ingannare, Grotjahn non è un ribelle di facciata. È profondamente radicato in una tradizione pittorica che spinge ai suoi limiti estremi.

Questa dualità tra tradizione e innovazione è particolarmente visibile nel suo modo di trattare la superficie pittorica. Gli strati di pittura si accumulano come stratificazioni geologiche, creando una topografia complessa che ricorda i rilievi accidentati delle Montagne Rocciose. Si potrebbe vedere una metafora della storia stessa della pittura, ogni strato rappresenta un nuovo tentativo di spingere i limiti del mezzo.

Se alcuni critici vedono nel suo lavoro una semplice continuazione del tardo modernismo, mancano il punto essenziale. Grotjahn non si limita a riciclare le forme del passato, le digerisce e le trasforma in qualcosa di radicalmente nuovo. Questo è ciò che Roland Barthes chiamava il “grado zero della scrittura”, applicato qui alla pittura: un tentativo di creare un linguaggio visivo che sfugga alle convenzioni pur riconoscendole.

Il suo processo creativo è tanto affascinante quanto il risultato finale. Lavora in modo ossessivo, trascorrendo ore ad applicare e grattare la pittura, creando superfici che sembrano avere vita propria. Questo approccio richiama ciò che Gilles Deleuze scriveva su Francis Bacon, l’idea che la pittura debba catturare le forze invisibili che attraversano il corpo.

I “Face Paintings” in particolare rivelano una tensione costante tra ordine e caos. I volti emergono dagli strati di pittura come spettri, allo stesso tempo presenti e assenti. È come se Grotjahn cercasse di cogliere quel momento preciso in cui la figura emerge dall’astrazione, o forse al contrario, il momento in cui si dissolve in essa.

Questa ambiguità deliberata è al centro della sua pratica. Mentre molti artisti contemporanei cercano di imporre un messaggio chiaro, Grotjahn preferisce coltivare l’incertezza. Le sue opere resistono a un’interpretazione facile, costringendo lo spettatore a impegnarsi attivamente nel processo di creazione del senso.

C’è qualcosa di profondamente americano in questo approccio, una sorta di pragmatismo pittorico che ricorda gli scritti di William James sull’esperienza diretta. Grotjahn non si perde in teorie astratte, esplora direttamente le possibilità fisiche del suo mezzo.

Ma dietro questa apparente spontaneità si nasconde una riflessione profonda sulla natura stessa della pittura. Ogni gesto, ogni scelta di colore è il risultato di anni di sperimentazione e ricerca. Questo è ciò che Michel Foucault avrebbe chiamato un'”archeologia del sapere pittorico”.

Il lavoro di Mark Grotjahn ci ricorda che la pittura non è morta, contrariamente a quanto alcuni vorrebbero farci credere. È viva, pulsante, persino pericolosa. Grotjahn mantiene una pratica che è allo stesso tempo profondamente seria e radicalmente sperimentale.

Non sta semplicemente dipingendo quadri, sta ridefinendo cosa può essere la pittura nel XXI secolo. E mentre alcuni continuano a discutere sulla pertinenza della pittura astratta nel nostro mondo digitale, Grotjahn continua tranquillamente a spingere i limiti di ciò che è possibile con la pittura su una superficie piana.

Il suo lavoro ci ricorda che l’arte non è una gentile attività decorativa destinata ad abbellire le pareti degli appartamenti borghesi. È un confronto brutale con la materia, una lotta costante per strappare senso dal caos. E in questa lotta, Grotjahn si rivela come uno dei combattenti più feroci e determinati della sua generazione.

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Riferimento/i

Mark GROTJAHN (1968)
Nome: Mark
Cognome: GROTJAHN
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 57 anni (2025)

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