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Harold Ancart: Esploratore delle frontiere visive

Pubblicato il: 16 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 11 minuti

Harold Ancart trasforma i suoi ricordi di alberi in visioni allucinatorie dove il colore diventa sostanza dell’esperienza. Lavorando con pastelli a olio, questo pittore belga crea opere che oscillano tra astrazione e figurazione, trasportandoci altrove pur mantenendoci ancorati alla materialità.

Ascoltatemi bene, banda di snob, Harold Ancart non è solo un altro pittore belga che ha conquistato New York. È un negoziatore visivo che lavora al confine tra astrazione e figurazione, giocando con la nostra percezione come un fisico quantistico giocherebbe con le particelle elementari. Sì, questo tipo di 44 anni che ha abbandonato i suoi sogni di diplomazia (voleva soprattutto le targhe diplomatiche per parcheggiare ovunque e non pagare multe, ammettiamolo) ci offre un’opera che oscilla perpetuamente tra l’ici e l’ailleurs, tra il tangibile e l’effimero.

Ho esaminato le sue opere che rappresentano iceberg, i suoi dipinti di alberi dai colori vivaci e le sue grandi rappresentazioni di fiammiferi che ricordano le linee verticali caratteristiche dei quadri di Barnett Newman. E ve lo dico, i suoi quadri possiedono quella qualità rara di poterti trasportare in un altrove pur ancorandoti pienamente alla materialità della pittura. È come essere simultaneamente in due posti allo stesso tempo, un colpo di fisica quantistica che solo i grandi artisti riescono a fare.

Ma cosa fa davvero Ancart? Lavora principalmente con i bastoncini di pittura a olio, trasformando le sue tele in campi di battaglia dove il colore diventa protagonista. Per lui, il soggetto è solo un “alibi” per spingere il colore sulla tela. Quando dipinge alberi, fiammiferi o campi da pallamano, non è tanto per rappresentare quegli oggetti quanto per esplorare le infinite possibilità del colore e della composizione. È proprio questo approccio che riecheggia la teoria di Maurice Merleau-Ponty sulla percezione, secondo cui il corpo è il vero soggetto della percezione, e non l’intelletto astratto [1].

Pensate ai suoi dipinti di alberi, esposti da David Zwirner nel 2020. Ispirati dal ricordo di una strada forestale francese, queste opere non cercano di riprodurre fedelmente gli alberi ma piuttosto di catturare quel momento fugace in cui la luce filtra attraverso il fogliame, creando un caleidoscopio di colori e ombre. Come scrive Deleuze in “Francis Bacon: Logica della sensazione”: “La pittura deve strappare la figura al figurativo” [2]. Ancart trasforma i suoi ricordi di alberi in visioni allucinatorie, in sensazioni materiali dove il colore diventa la sostanza stessa dell’esperienza.

Questa trasformazione del ricordo in esperienza visiva non è senza richiamare il concetto deleuziano di “immagine-tempo”, quello stato in cui la percezione pura si libera dall’azione immediata per creare nuove connessioni sensoriali. Ancart stesso ammette di soffrire di un “escapismo patologico”, una tendenza a fuggire in un regno alternativo. Non è esattamente ciò che descrive Deleuze quando parla della “potenza del falso” [3]? Questa capacità di creare spazi mentali, paesaggi interiori, è al cuore del percorso di Ancart.

Ma non fraintendiamoci, i suoi quadri non sono semplici fughe. Sono radicati in una realtà materiale intensa. Se avete visto la sua installazione “Subliminal Standard” a Brooklyn nel 2019, quella scultura in cemento alta 5 metri che rappresenta un campo da pallamano, sapete che Ancart è profondamente interessato a come l’infrastruttura urbana, nel suo deterioramento naturale, rifletta le astrazioni pittoriche. “L’astrazione viene dalla realtà”, ama dire. Ed è vero, questi anonimi campi da pallamano di New York, con i loro motivi geometrici e le superfici logorate dal tempo, assomigliano stranamente a quadri astratti spontanei.

Questa relazione tra l’ambiente urbano e l’astrazione pittorica ci conduce direttamente a Guy Debord e al suo concetto di deriva. Non posso fare a meno di vedere Ancart come un’incarnazione contemporanea del flâneur situazionista, quel personaggio che vaga per la città, attento ai dettagli trascurati dagli altri. Ancart stesso ha fatto incidere “GRAND FLÂNEUR” sulla tasca della sua tuta giallo senape. Si identifica con questa nozione baudelairiana di un osservatore fervente che si muove al ritmo dei flussi della folla urbana. “Non si muove in una direzione specifica, ma mira a trovare il meraviglioso in qualche modo”, spiega. “La maggior parte delle mie idee mi vengono quando mi trovo a passeggiare e la mia mente vaga” [4].

Debord scriveva che la deriva è “una tecnica del passaggio affrettato attraverso ambienti vari” [5]. Non è forse esattamente ciò che fa Ancart quando trasforma elementi urbani ordinari, cortili da pallamano, fiammiferi, piscine di cemento, in soggetti di contemplazione estetica? Per Debord, la deriva è un modo per riscoprire la città al di fuori dei suoi usi funzionali abituali. Ancart va oltre: non si limita a riscoprire la città, la riscrive con i suoi bastoni di pittura a olio.

Ciò che è interessante in Ancart è che trasforma l’ordinario in straordinario senza cadere nella trappola della trascendenza facile. I suoi paesaggi, siano essi iceberg, montagne o oceani, non sono inviti a una contemplazione romantica. Sono esplorazioni della materialità stessa della pittura. Come dice lui stesso: “Non mi vedo come un pittore di immagini. Mi vedo come un pittore di colore” [6].

Questo approccio mi fa pensare a ciò che Deleuze e Guattari scrivevano sulle “linee di fuga” in “Mille piani”. Ancart, in un certo senso, crea linee di fuga visive che ci permettono di sfuggire alle percezioni standardizzate. I suoi iceberg non sono lì per farci riflettere sul cambiamento climatico (anche se potrebbe essere una possibile lettura), sono lì per mostrarci le infinite possibilità del colore e della forma.

C’è qualcosa di profondamente democratico nel modo in cui Ancart guarda il mondo. “Cerco sempre di avere un modo democratico di guardare”, dice. “Leggo molti fumetti, guardo molti dipinti, ma passo anche molto tempo a guardare gli angoli o il pavimento o ciò che hai. Mi piace guardare tutto allo stesso modo senza alcuna gerarchia” [7]. Questa assenza di gerarchia visiva è esattamente ciò che Jacques Rancière chiama “la condivisione del sensibile”: una redistribuzione dei modi di percezione che determina ciò che è visibile, udibile e pensabile in una data comunità.

Si potrebbe argomentare che Ancart pratica una sorta di politica estetica ranciériana, dove gli opposti, astrazione e figurazione, materialità e trascendenza, familiare e strano, coesistono senza risoluzione. I suoi dipinti mantengono queste tensioni produttive, creando uno spazio dove lo spettatore può navigare liberamente tra diverse letture.

Quando si osservano i suoi massicci trittici “The Mountain” e “The Sea”, esposti da David Zwirner nel 2020, si rimane colpiti dal modo in cui giocano con la nostra percezione dello spazio. La linea dell’orizzonte, posizionata alla stessa altezza in entrambe le opere, crea una continuità spaziale che trasforma la stessa galleria in un paesaggio immersivo. Lo spettatore si ritrova letteralmente tra la montagna e il mare, in uno spazio liminale che non è né del tutto reale, né del tutto immaginario. Non è esattamente il tipo di esperienza che Rancière descrive come “un regime estetico delle arti”?

Ma torniamo a Deleuze per un momento. In “Logica della sensazione”, analizza come Francis Bacon deformi le figure per raggiungere un livello più profondo di sensazione. I dipinti di Ancart funzionano in modo simile: decostruiscono gli oggetti familiari per permetterci di percepirli in un modo nuovo e più intenso.

Questa dimensione sensoriale è particolarmente evidente nei suoi dipinti di alberi, dove le fenditure di cielo che trapelano attraverso il fogliame creano un effetto di movimento costante, come se si stesse guidando velocemente attraverso una foresta. Deleuze avrebbe senza dubbio apprezzato il modo in cui queste opere attivano ciò che chiama “le forze non visibili del visibile”, quelle intensità che non possono essere rappresentate direttamente ma che possono essere rese percepibili attraverso la pittura.

E non dimentichiamo questa gustosa aneddoto: Ancart ha trasformato il baule della sua Jeep in un laboratorio improvvisato durante un road trip negli Stati Uniti nel 2014. “Dipinge nel baule di un’auto è speciale perché la situazione ti costringe a non fregartene affatto, ed è fantastico”, scrive. “Questa attitudine permette di muoversi più liberamente, e di osare fare cose che altrimenti non potresti fare. Non fregarsene ti tiene lontano dalla vanità. Il retro dell’auto ti tiene lontano dalla vanità; così come il freddo” [9]. Non è forse questa una formulazione perfetta di ciò che Deleuze chiamerebbe una “linea di fuga”? Uno spazio ristretto che, paradossalmente, apre possibilità infinite.

Devo ammettere che ammiro Ancart per il suo rifiuto dell’intellettualismo presuntuoso che infesta tanti discorsi sull’arte contemporanea. “Non mi piace l’arte che parla di qualcosa”, dice. “Perché non mi offre la possibilità di leggerla senza conoscenze pregresse?” [10]. Questa diffidenza verso la sovrainterpretazione riecheggia la critica di Susan Sontag in “Contro l’interpretazione”. Per Sontag come per Ancart, l’esperienza diretta e corporea dell’opera prevale su ogni spiegazione teorica.

C’è anche qualcosa di profondamente politico in questo approccio. Rifiutando di ridurre l’arte a un significato univoco, Ancart preserva quella che Rancière chiamerebbe la sua “politica dell’estetica”. I suoi dipinti non ci dicono come pensare o cosa sentire; creano uno spazio in cui possiamo pensare e sentire liberamente.

Prendiamo l’esempio della sua serie sulle fiammine. Questi oggetti banali, che usiamo senza prestarvi attenzione, diventano sotto il suo pennello monumenti monumentali, presenze quasi umane. “Le fiammine sono la cosa che vedi ma che non guardi”, dice [11]. Trasformando questi oggetti quotidiani in soggetti di contemplazione estetica, Ancart pratica quella che Rancière chiamerebbe una “politica della percezione”, insegnandoci a vedere diversamente, a notare ciò che solitamente è trascurato.

Questa politica della percezione è particolarmente importante nel nostro tempo di sovraccarico visivo, dove siamo costantemente bombardati da immagini ma raramente guardiamo davvero. I dipinti di Ancart ci invitano a rallentare, contemplare, abitare pienamente lo spazio visivo che creano. Ci ricordano che vedere non è un atto passivo ma una forma attiva di impegno con il mondo.

Rancière scriveva che “la politica riguarda ciò che si vede e ciò di cui si può parlare” [12]. I dipinti di Ancart funzionano in modo simile: non raccontano storie lineari ma presentano costellazioni di immagini che resistono a ogni interpretazione definitiva. Sono, come direbbe Rancière, “dissensi” visivi, immagini che mettono in discussione i nostri modi abituali di percezione senza imporre una nuova ortodossia.

Ciò che colpisce particolarmente in Ancart è che crea opere che sono allo stesso tempo accessibili e complesse, immediate e meditative. Si possono apprezzare i suoi dipinti per la loro bellezza visiva immediata, per i loro colori vibranti e le loro composizioni dinamiche. Ma si può anche impegnarsi a un livello più profondo, riflettendo su come mettano in discussione i nostri modi abituali di percezione e pensiero.

In un mondo sempre più dominato dalla virtualità e dalla dematerializzazione, i dipinti di Ancart affermano la persistenza del reale, del tattile, del materiale. Ci ricordano che, nonostante tutte le nostre tecnologie, restiamo esseri incarnati che percepiscono il mondo attraverso i nostri sensi. Come scrive Merleau-Ponty, “il corpo è il nostro mezzo generale per avere un mondo” [13].

I dipinti di Ancart sono il prodotto di una mano che lavora, di un corpo impegnato nell’atto fisico della pittura. I suoi bastoncini di pittura a olio lasciano tracce, impronte, segni che testimoniano la sua presenza fisica. In un mondo sempre più asettico, queste tracce dell’umano hanno qualcosa di profondamente commovente.

Forse questo è il vero potere dell’arte di Ancart: ricordarci la nostra stessa corporatura, la nostra stessa presenza fisica nel mondo. In un contesto culturale dove la virtualità è spesso privilegiata rispetto alla realtà materiale, i suoi dipinti affermano il valore dell’esperienza diretta, non mediata.

Ciò che trovo più rinfrescante in Ancart è il suo rifiuto del cinismo che caratterizza tanta arte contemporanea. C’è una gioia autentica nel suo lavoro, una celebrazione delle infinite possibilità della pittura. Come dice lui stesso: “Sono più un liker che un hater. Mi piace amare le cose. Anche se non mi piace qualcosa, cerco di trovarci qualcosa di buono per me” [14]. Questa positività fondamentale è radicale. Suggerisce che l’arte può essere allo stesso tempo critica e affermativa, che può mettere in discussione i nostri presupposti pur celebrando le possibilità dell’esperienza umana.

Harold Ancart non è un rivoluzionario. Non pretende di reinventare la pittura o trasformare fondamentalmente il nostro modo di vedere il mondo. Ma non ha bisogno di esserlo. In un mondo saturo di novità fittizie e innovazioni superficiali, la sua convinzione che “l’idea di voler fare qualcosa di nuovo è piuttosto stupida” [15] è paradossalmente rinfrescante.

Ciò che ci offre invece è un invito a riscoprire il mondo attraverso i suoi occhi, a vedere la bellezza potenziale negli oggetti più ordinari, a abitare pienamente lo spazio tra astrazione e figurazione, tra materialità e trascendenza. Come il dérive situazionista che trasforma la città in un paesaggio di esperienza estetica, Ancart trasforma il mondo visivo in un terreno di gioco infinito per l’immaginazione.

Allora sì, banda di snob, Harold Ancart è forse solo un pittore belga che ama i fumetti e che si aggira per New York cercando momenti poetici nel paesaggio urbano quotidiano. Ma in un mondo artistico dominato da concetti e teorie, la sua fede incrollabile nel potere della pittura, nella capacità del colore e della forma di creare esperienze visive trasformative, è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.


  1. Merleau-Ponty, Maurice. Fenomenologia della percezione. Gallimard, 1945.
  2. Deleuze, Gilles. Francis Bacon: Logica della sensazione. Éditions de la Différence, 1981.
  3. Deleuze, Gilles. Cinema 2: L’immagine-tempo. Éditions de Minuit, 1985.
  4. Intervista con Harold Ancart. Gagosian Quarterly, 2023.
  5. Debord, Guy. “Teoria della deriva”. Les Lèvres nues n° 9, 1956.
  6. Intervista con Harold Ancart. T Magazine, 2020.
  7. Intervista con Harold Ancart. Interview Magazine, 2024.
  8. Rancière, Jacques. La Condivisione del sensibile. La Fabrique, 2000.
  9. Ancart, Harold. Guidare è fantastico. Libro d’artista auto-pubblicato, 2016.
  10. Intervista con Harold Ancart. Interview Magazine, 2024.
  11. Intervista con Harold Ancart. Cultured Magazine, 2019.
  12. Rancière, Jacques. Lo Spettatore emancipato. La Fabrique, 2008.
  13. Merleau-Ponty, Maurice. Fenomenologia della percezione. Gallimard, 1945.
  14. Intervista con Harold Ancart. Interview Magazine, 2024.
  15. Intervista con Harold Ancart. T Magazine, 2020.
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Riferimento/i

Harold ANCART (1980)
Nome: Harold
Cognome: ANCART
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Belgio

Età: 45 anni (2025)

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