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Hervé Di Rosa: l’arte senza confini

Pubblicato il: 6 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Hervé Di Rosa trasforma le sue influenze popolari in arte contemporanea senza cadere nell’appropriazione culturale condiscendente. Dimostra che le categorie “alto” e “basso” sono costruzioni artificiali che limitano la nostra comprensione della creatività umana.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Hervé Di Rosa (nato nel 1959 a Sète) non è solo un semplice pittore che fa storcere il naso ai custodi autoproclamati del “buon gusto” con le sue opere esplosive. No, è il grande sconvolgitore dell’arte contemporanea, colui che ha osato infrangere le frontiere tra cultura colta e popolare con l’energia di un punk e la precisione intellettuale di un filosofo. Da più di quarant’anni costruisce un’opera monumentale che ridefinisce cosa significa essere un artista nel XXI secolo.

Cominciamo dalla sua relazione fusionale con l’arte vernacolare, che costituisce il primo asse del suo lavoro. Di Rosa si è sempre opposto a ciò che Pierre Bourdieu chiamava giustamente la “distinzione”, quella tendenza delle élite culturali a affermare la loro presunta superiorità attraverso il rifiuto sistematico di tutto ciò che proviene dal popolo. Quando integra nelle sue pitture riferimenti al fumetto, alle insegne pubblicitarie o ai giocattoli di plastica, non lo fa con la distanza ironica di un Pop Artist che osserva la società dei consumi. No, si immerge a capofitto in questo bagno di immagini popolari con una sincerità disarmante che riecheggia le riflessioni di Walter Benjamin sulla necessità di democratizzare l’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica. Nei suoi quadri incandescenti degli anni 1980, Di Rosa non si limita a citare la cultura popolare, la vive, la respira, la digerisce e la trasforma in una materia pittorica unica. I suoi personaggi non sono appropriazioni intellettuali, ma creature viventi che sembrano essere scappate da un carnevale psichedelico permanente.

Questo approccio radicale alla pittura si inserisce in una riflessione più ampia sulla natura stessa dell’arte contemporanea. Rifiutando la postura dell’artista-teorico che produce opere concettuali destinate unicamente a un’élite iniziata, Di Rosa si unisce alle preoccupazioni di Jacques Rancière sul “partage du sensible” e sulla necessità di ripensare le gerarchie estetiche stabilite. La sua pittura è una celebrazione gioiosa della vita in tutta la sua complessità caotica, un’affermazione che la creatività non è appannaggio di una classe sociale o di una tradizione culturale particolare.

Il secondo aspetto della sua opera risiede nella sua pratica del nomadismo artistico. Viaggiando per il mondo dagli anni ’90, dalla Bulgaria al Ghana passando per il Vietnam e il Messico, Di Rosa incarna perfettamente ciò che Gilles Deleuze e Félix Guattari teorizzavano come il “rizoma”, una forma di pensiero non gerarchico che si sviluppa attraverso connessioni multiple e imprevedibili. Ma mentre i filosofi francesi restavano nel campo dell’astrazione, Di Rosa mette concretamente le mani nella materia. Collabora con artigiani locali, apprende le loro tecniche ancestrali e crea opere ibride che fanno saltare in aria le nostre categorie occidentali fossilizzate.

Le sue sculture in bronzo realizzate in Camerun, le sue lacche vietnamite o le sue ceramiche portoghesi non sono esercizi di esotismo turistico ma esperienze radicali di deterritorializzazione dell’arte. Immergendosi in queste diverse tradizioni artigianali, Di Rosa prosegue il progetto antropologico di Claude Lévi-Strauss, che vedeva nel “bricolage” una forma di pensiero tanto legittima quanto la razionalità occidentale. Ogni nuova tecnica appresa diventa per lui non solo uno strumento, ma un nuovo modo di pensare e vedere il mondo.

Questa dimensione antropologica del suo lavoro trova la sua espressione più compiuta nella sua teorizzazione dell’arte modesta. Questo concetto, che sviluppa dagli anni ’90, non è una semplice provocazione contro il mondo dell’arte contemporanea ma una vera e propria proposta filosofica. Creando il Musée International des Arts Modestes (MIAM) a Sète nel 2000, Di Rosa non si limita a collezionare oggetti kitsch o marginali, ma ridefinisce fondamentalmente ciò che può essere considerato arte. I giocattoli di plastica, le figurine da collezione, le immagini pubblicitarie che espone non sono presentati come curiosità antropologiche ma come manifestazioni legittime e importanti della creatività umana.

Questo gesto radicale ricorda il modo in cui Marcel Duchamp trasformò un orinatoio in una fontana, ma senza il cinismo duchampiano. Là dove Duchamp cercava a dimostrare l’arbitrarietà delle convenzioni artistiche, Di Rosa celebra la capacità umana di creare bellezza e significato in tutte le circostanze. Il suo approccio riecheggia le riflessioni di Roland Barthes sulle mitologie contemporanee, ma mentre Barthes rimaneva nella critica, Di Rosa propone un’alternativa positiva: un’arte che abbraccia la complessità e la diversità dell’esperienza umana.

Di Rosa trasforma le sue influenze popolari in arte contemporanea senza mai cadere nella trappola dell’appropriazione culturale condiscendente. Non si tratta per lui di elevare il “basso” verso l'”alto”, ma di dimostrare che queste stesse categorie sono costruzioni artificiali che limitano la nostra comprensione della creatività umana. In questo senso, si unisce alle riflessioni di Susan Sontag sulla necessità di superare le dicotomie tradizionali tra alta e bassa cultura.

Il suo lavoro solleva anche questioni essenziali sul ruolo dell’artista nella società contemporanea. In un’epoca in cui il mercato dell’arte spinge alla specializzazione e alla creazione di “marchi” artistici facilmente riconoscibili, Di Rosa mantiene una pratica deliberatamente polimorfa. Passa dalla pittura alla scultura, dalla ceramica all’arazzo, dai cartoni animati alle installazioni, con una libertà che ricorda gli artisti del Rinascimento. Questa versatilità non è un segno di incostanza, ma al contrario l’espressione di una visione coerente che rifiuta le limitazioni arbitrarie imposte dal sistema dell’arte contemporanea.

La traiettoria di Di Rosa ci obbliga anche a ripensare la nozione di avanguardia. In un mondo dell’arte ossessionato dalla novità e dall’innovazione, propone una forma di radicalità diversa che passa per la riabilitazione e la reinvenzione di tradizioni artigianali minacciate. Il suo lavoro riecheggia le riflessioni di Walter Benjamin sulla natura dell’originalità nell’epoca della riproduzione meccanica, ma anche le teorie di Nicolas Bourriaud sull’estetica relazionale. Collaborando con artigiani di tutto il mondo, Di Rosa crea non solo opere, ma anche situazioni di scambio e di apprendimento reciproco che mettono in discussione la figura romantica dell’artista solitario.

Questa dimensione collaborativa del suo lavoro è particolarmente importante nell’epoca in cui la globalizzazione minaccia di uniformare le pratiche culturali. Interessandosi alle tradizioni artigianali locali, Di Rosa partecipa alla loro preservazione e al loro rinnovamento. Ma non lo fa in una prospettiva conservatrice o nostalgica. Al contrario, mostra come queste tecniche tradizionali possano dialogare con l’arte contemporanea per creare forme nuove e inaspettate.

La sua pittura stessa, con i suoi colori vivaci e le composizioni caotiche, può essere vista come una forma di resistenza contro l’estetica asettica che domina gran parte dell’arte contemporanea. Nel suo lavoro c’è una gioia nell’eccesso che ricorda i carnevali medievali analizzati da Michail Bachtin, dove il rovesciamento temporaneo delle gerarchie sociali permetteva l’emergere di una creatività popolare sfrenata. Ma da Di Rosa, questo carnevale è permanente, trasformando ogni tela in una celebrazione della vita in tutta la sua complessità disordinata.

L’importanza che Di Rosa attribuisce agli oggetti quotidiani e alla cultura popolare riecheggia anche le riflessioni di Michel de Certeau sugli “arti del fare” quotidiani. Per De Certeau, la creatività non si limita alle produzioni artistiche riconosciute, ma si esprime anche nei mille modi in cui le persone comuni sovvertono e reinventano gli oggetti della vita quotidiana. Di Rosa porta questa idea oltre, mostrando come queste creazioni “modeste” possano nutrire l’arte contemporanea.

Il suo rifiuto delle gerarchie artistiche tradizionali non deve però essere confuso con un relativismo ingenuo che equiparerebbe tutte le produzioni culturali. Al contrario, Di Rosa propone criteri di valutazione diversi, basati non sul prestigio istituzionale o sulla sofisticazione concettuale, ma sulla vitalità creativa e sulla capacità di generare senso ed emozione. In questo si collega alle preoccupazioni di John Dewey riguardo alla necessità di riconnettere l’arte con l’esperienza ordinaria.

La creazione del MIAM rappresenta forse il compimento più concreto di questa visione. Questo museo non è semplicemente un luogo d’esposizione, ma un vero e proprio laboratorio dove i confini tra arte contemporanea, cultura popolare e artigianato tradizionale sono costantemente ridefiniti. È anche uno spazio di resistenza contro la standardizzazione culturale, dove l’unicità e la stranezza sono celebrate piuttosto che marginalizzate.

Allora sì, la pittura di Di Rosa può sembrare eccessiva, caotica, a volte persino volgare agli occhi di alcuni. Ma è proprio in questo rifiuto delle convenzioni estetiche dominanti che risiede la sua forza. In un mondo dell’arte spesso paralizzato dal cinismo e dall’intellettualismo sterile, propone un’alternativa rivitalizzante: un’arte che non ha paura di essere gioiosa, generosa e profondamente radicata nella vita quotidiana. Un’arte che, come scriveva Arthur Danto, ci ricorda che la bellezza non è appannaggio dei musei ma può emergere ovunque l’immaginazione umana sia in azione.

Di Rosa ci mostra che essere veramente contemporanei non significa necessariamente rompere con tutte le tradizioni o rifugiarsi nell’astrazione concettuale. Può anche consistere nel tessere legami inaspettati tra diverse forme di creatività umana, celebrare la diversità delle espressioni artistiche piuttosto che cercare di classificarle. La sua opera ci ricorda che l’arte non è un territorio riservato a un’élite, ma un linguaggio universale che può assumere le forme più diverse e emergere nei luoghi più inaspettati.

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Riferimento/i

Hervé DI ROSA (1959)
Nome: Hervé
Cognome: DI ROSA
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Francia

Età: 66 anni (2025)

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