Ascoltatemi bene, banda di snob, ecco un pittore che vi rimanda direttamente alla vostra infanzia perduta, a quei sogni di colore e libertà che avete abbandonato da qualche parte tra la vostra prima cravatta e il vostro primo conto in banca. Hunt Slonem, figlio di un ufficiale della marina nato nel 1951 nel Maine, dipinge da cinquanta anni conigli, uccelli e farfalle con un’ossessione che sfiora il sacro. E mentre voi girate attorno alle vostre installazioni concettuali stordendovi con teorie post-moderniste, lui continua a intingere i pennelli in quella verità primitiva che vi sfugge: la bellezza cruda della natura addomesticata dall’arte.
L’uomo vive letteralmente con i suoi modelli. Nel suo studio di Brooklyn di circa 3.000 metri quadrati, centinaia di uccelli esotici volteggiano liberamente, creando quella sinfonia cromatica e sonora che nutre quotidianamente la sua ispirazione. Questa convivenza non è un capriccio d’artista, ma la manifestazione tangibile di un percorso che attinge alle fonti più profonde dell’inconscio collettivo. Perché in Slonem ogni pennellata rivela quegli archetipi universali che Carl Jung aveva identificato come le fondamenta psichiche dell’umanità.
Le creature di Slonem funzionano come simboli archetipici nel senso junghiano del termine. L’uccello, simbolo dell’anima nella maggior parte delle tradizioni religiose, diventa sotto il suo pennello l’incarnazione di quella ricerca spirituale che attraversa tutta la sua opera. Il coniglio, animale della fortuna e della fertilità nell’immaginario popolare, si trasforma in un mandala ripetitivo, quella figura geometrica che Jung considerava come l’espressione spontanea della totalità psichica. Quanto alla farfalla, metamorfosi vivente, incarna quella trasformazione perpetua che l’inconscio ricerca nella sua ricerca di individuazione.
Questo approccio ripetitivo, che l’artista assume pienamente dichiarando che tutta la sua vita potrebbe riassumersi nella parola “exotica”, non è frutto di pigrizia creativa ma di una comprensione intuitiva dei meccanismi psichici profondi. Come Andy Warhol ripeteva le sue scatole di zuppa Campbell, Slonem ripete i suoi motivi animali, ma dove Warhol interrogava la società dei consumi, Slonem esplora le profondità dell’anima umana. Questa ripetizione ossessiva trasforma l’atto di dipingere in una meditazione attiva, in un mantra visivo che permette di accedere a quegli strati arcaici della psiche che Jung chiamava inconscio collettivo.
Henry Geldzahler, l’ex conservatore del Metropolitan Museum, osservava con giustezza che Slonem ammirava particolarmente Malcolm Morley, Francesco Clemente e Roberto Juarez, tutti “esoticisti le cui opere trasmettono un’aura spirituale” [1]. Questa filiazione artistica rivela la profondità di un percorso che, sotto una facciata ludica, tocca le questioni più essenziali dell’esistenza umana. Le griglie di tratteggio che ricoprono le sue tele come tante gabbie metaforiche non sono ostacoli ma passaggi, soglie simboliche tra il conscio e l’inconscio, tra il domestico e il selvaggio.
L’uso sistematico della tecnica delle tratteggiature incrociate in Slonem trova infatti la sua origine in un evento fortuito. Colpito da polmonite e incapace di lavorare con l’olio, l’artista si rivolse all’acquerello e iniziò a graffiare la superficie delle sue tele con la punta del pennello osservando le gabbie dei suoi uccelli. Questa tecnica, nata dal caso e dalla contemplazione, rivela la dimensione profondamente intuitiva della sua pratica. Essa evoca quelle “immagini primordiali” che Jung descriveva come emergenti spontaneamente dall’inconscio, senza una causa esterna apparente.
I colori saturi di Slonem, quei verdi acidi, quei rosa esplosivi, quei blu elettrici che fanno vibrare le sue composizioni, partecipano a quell’estetica dell’eccesso che caratterizza le manifestazioni dell’inconscio collettivo. Jung osservava che gli archetipi si manifestano spesso in un apparente caos, in una profusione di immagini e sensazioni che superano la logica razionale. Le tele di Slonem, con la loro accumulazione di figure animali in spazi compressi, riproducono questa estetica dell’abbondanza caotica che caratterizza le produzioni dell’inconscio.
Questa dimensione spirituale trova un eco notevole nell’altra grande passione dell’artista: il restauro di dimore storiche. Slonem possiede e restaura diverse proprietà in stile neogotico, tra cui un castello di circa 6.000 metri quadrati nel Massachusetts e vecchie piantagioni in Louisiana. Questa fascinazione per l’architettura gotica rivela una particolare sensibilità ai valori spirituali veicolati da questo stile architettonico.
L’architettura gotica, con le sue volte slanciate, i contrafforti e le vetrate rotonde, era concepita per elevar l’anima verso il divino. Le cattedrali medievali funzionavano come libri in pietra, spazi di meditazione in cui ogni elemento architettonico partecipava a una ricerca spirituale collettiva. Augustus Pugin, teorico del rinnovamento gotico nel XIX secolo, affermava che questa architettura rifletteva una “verità morale e spirituale” che gli stili classici avevano perso.
In Slonem questa sensibilità gotica si manifesta nella sua concezione dello spazio pittorico. Le sue composizioni funzionano come santuari domestici, cappelle private in cui la ripetizione dei motivi animali crea quell’atmosfera di raccoglimento propria degli edifici religiosi. L’accumulo dei suoi “muri di conigli”, queste installazioni composte da centinaia di tele disposte una accanto all’altra, evoca l’effetto prodotto dalle vetrate gotiche: una saturazione sensoriale che trasporta lo spettatore in uno stato di contemplazione quasi mistica.
Questa dimensione architettonica del suo lavoro si rivela anche nell’uso che egli fa delle cornici dorate antiche, trovate nei mercati delle pulci. Queste cornici, spesso provenienti dall’epoca vittoriana, aggiungono una dimensione temporale alle sue opere, creando un dialogo tra passato e presente, tra tradizione artigianale e creazione contemporanea. Come gli architetti del rinnovamento gotico che attingevano all’eredità medievale per nutrire la loro modernità, Slonem utilizza queste cornici storiche per ancorare le sue visioni contemporanee nella lunga durata della storia dell’arte.
L’uso della polvere di diamante su alcune delle sue tele partecipa a quell’estetica della sacralizzazione. Questa tecnica, ereditata dalle sue collaborazioni con Andy Warhol, trasforma i suoi animali in icone scintillanti, reliquie preziose che evocano le arti decorative delle chiese bizantine o le miniature medievali arricchite d’oro. Questa dimensione decorativa non è superficiale ma risponde a una logica profonda: quella della trasfigurazione del quotidiano attraverso l’arte.
John Ashbery, poeta e critico d’arte, descriveva le opere di Slonem come “esplosioni abbaglianti della vita variabile che ci circonda e che hanno solo bisogno di essere guardate per animarsi” [2]. Questa animazione, questa vita che sorge dalla contemplazione, rivela la dimensione veramente spirituale di questa pittura. Funziona come quei mandala tibetani che i monaci distruggono dopo averli creati, ricordando l’impermanenza di tutte le cose e la necessità di coltivare uno sguardo nuovo sul mondo.
La pittura di Slonem resiste alle categorie estetiche tradizionali. Naviga tra figurazione e astrazione, tra ingenuità assunta e sofisticazione tecnica, tra arte popolare e arte colta. Questa posizione liminare, questo continuo stato intermedio, caratterizza le opere che attingono alle fonti dell’inconscio collettivo. Jung osservava che gli archetipi spesso si manifestano in questa zona indeterminata in cui gli opposti si incontrano e si riconciliano.
L’influenza di Warhol su Slonem non deve oscurare le differenze fondamentali che separano le loro rispettive strategie. Là dove Warhol riproduceva meccanicamente le immagini della società dei consumi, Slonem dipinge ogni sua tela a mano, mantenendo viva quella tradizione artigianale che l’arte contemporanea ha in gran parte abbandonato. Questa fedeltà al gesto pittorico, questa resistenza alla smaterializzazione dell’arte, inscrive il suo lavoro nella linea dei grandi coloristi americani, da Milton Avery ad Alex Katz.
I suoi ritratti di Abraham Lincoln, altra serie ricorrente, rivelano una dimensione politica sottile ma reale. Trasformando il presidente martire in icona pop, Slonem interroga i meccanismi di costruzione delle mitologie nazionali. Lincoln diventa per lui un archetipo paterno, figura tutelare di un’America idealizzata dove regnerebbero giustizia e compassione. Questa serie dialoga con le Marilyn di Warhol, ma mentre queste ultime interrogavano la celebrità e la morte, i Lincoln di Slonem esplorano la memoria collettiva e l’eroizzazione.
La dimensione internazionale del riconoscimento di Slonem, presente in più di 250 musei nel mondo, attesta l’universalità del suo messaggio. I suoi animali parlano tutte le lingue, oltrepassano tutte le frontiere culturali. Attivano quelle risonanze profonde che Jung identificava come le tracce della nostra eredità evolutiva comune. Di fronte a una tela di Slonem, lo spettatore occidentale ritrova le stesse emozioni di quello asiatico o africano: quella gioia immediata, quel riconoscimento istintivo evocato dalla bellezza animale trasfigurata dall’arte.
Questa universalità spiega anche il successo commerciale dell’artista presso collezionisti tanto diversi quanto Sharon Stone, Julianne Moore o i membri della famiglia Kardashian. Oltre i fenomeni di moda, questa adesione rivela un bisogno profondo della nostra epoca: quello di ritrovare un contatto autentico con la natura in un mondo sempre più artificializzato. Gli animali di Slonem funzionano come totem protettivi, custodi simbolici che ricordano la nostra appartenenza al regno del vivente.
L’evoluzione recente del suo lavoro verso la scultura e l’installazione, in particolare con “Huntopia” al Giardino Botanico di San Antonio, conferma questa dimensione ambientale del suo approccio. Queste opere monumentali, composte da migliaia di frammenti di vetro colorato, creano santuari dedicati alla biodiversità minacciata. Funzionano come cattedrali laiche dove l’arte sostituisce la religione nella sua missione di celebrazione del sacro naturale.
La critica intellettuale rimprovera spesso Slonem per la sua apparente facilità, per il suo rifiuto della complessità concettuale che caratterizza l’arte contemporanea dominante. Questa critica perde di vista l’essenziale: l’arte di Slonem non si rivolge prima di tutto al cervello ma ai sensi e all’anima. Riattiva quei circuiti emotivi primitivi che la nostra civiltà tecnologica ha ampiamente atrofizzato. In questo senso, si avvicina alle preoccupazioni di Jung che deplorava la disconnessione dell’uomo moderno dal suo inconscio collettivo.
La spontaneità rivendicata dall’artista, che afferma di non sapere mai cosa dipingerà entrando nel suo studio, partecipa a questa estetica dell’immediatezza che caratterizza le produzioni dell’inconscio. Come i surrealisti praticavano la scrittura automatica per aggirare la censura razionale, Slonem pratica una pittura automatica che lascia esprimere le forze creative dell’istinto.
Questo approccio intuitivo non deve nascondere la sofisticazione tecnica delle sue realizzazioni. L’uso che fa del colore, la padronanza degli impasti, la sottigliezza delle sue composizioni rivelano un artista perfettamente consapevole dei suoi mezzi plastici. Questa alleanza tra spontaneità e padronanza tecnica caratterizza i grandi temperamenti pittorici, da Van Gogh a de Kooning.
L’impegno di Slonem nella conservazione del patrimonio architettonico storico testimonia una coscienza acuta della responsabilità dell’artista nei confronti della memoria collettiva. Ristabilendo queste dimore minacciate di distruzione, opera per la salvaguardia di quelle che Jung chiamava “forme preesistenti” della cultura. Queste architetture del passato funzionano come serbatoi di archetipi, matrici simboliche che nutrono l’immaginario contemporaneo.
Il suo progetto di trasformare le sue proprietà in musei rivela una concezione generosa dell’arte come bene comune. In un’epoca in cui l’arte contemporanea spesso si rinchiude in circoli ristretti di iniziati, Slonem mantiene viva questa tradizione democratica che vuole che la bellezza sia accessibile a tutti. I suoi “muri di conigli” funzionano come feste popolari, carnevali colorati che deliziano l’occhio prima di emozionare l’anima.
Questa dimensione festosa della sua arte non deve far dimenticare la sua profondità spirituale. Dietro l’apparente semplicità dei suoi motivi si nasconde una meditazione costante sui misteri dell’esistenza. I suoi animali sono tante domande poste sul senso della vita, tanti inviti a riscoprire quella parte dell’infanzia che sopravvive in ciascuno di noi nonostante le ferite del tempo.
L’arte di Hunt Slonem ci ricorda che la pittura, prima di essere un discorso, è soprattutto un’esperienza sensibile. Le sue tele funzionano come macchine della felicità, generatori di emozioni positive che agiscono direttamente sul nostro sistema nervoso. Riattivano quei circuiti di piacere estetico che l’arte concettuale ha largamente trascurato, ritrovando quella funzione catartica che l’arte assumeva nelle società tradizionali.
Questa posizione singolare nel panorama artistico contemporaneo fa di Slonem un tramite tra i mondi. Tramite tra l’arte popolare e l’arte colta, tra la tradizione e la modernità, tra l’America e l’Europa, tra il conscio e l’inconscio. La sua opera incarna questa capacità dell’arte vera di riconciliare i contrari, di creare unità nella diversità.
È indubbio che Hunt Slonem abbia realizzato un’impresa impossibile: rimanere fedele a una visione personale pur toccando un pubblico internazionale, mantenere viva la tradizione pittorica inventando un linguaggio plastico originale, celebrare la bellezza naturale pur interrogandosi sulle sfide contemporanee. La sua arte ci insegna che la semplicità apparente può celare profondità insospettate, che la ripetizione può essere creatrice di senso, che l’istinto può guidare la mano più sicuro di tutti i concetti.
In un’epoca turbolenta per le crisi ecologiche e spirituali, l’arte di Slonem offre un rifugio temporaneo, un porto di pace colorato dove l’umanità può ritrovare le sue radici animali e la sua dimensione sacra. I suoi conigli saltellanti, gli uccelli multicolori e le farfalle sgargianti ci ricordano che apparteniamo a quel grande libro della natura di cui siamo solo una delle pagine. Ricollegandoci a questi archetipi universali, ci invitano a riscoprire quella parte divina che giace dormiente in ogni essere vivente.
- Henry Geldzahler, citato nella biografia ufficiale di Hunt Slonem, sito internet visitato nel giugno 2025
- John Ashbery, critico d’arte, citato nella biografia ufficiale di Hunt Slonem, sito internet visitato nel giugno 2025
















