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Il sorriso di Yue Minjun, specchio della nostra epoca

Pubblicato il: 21 Luglio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Yue Minjun trasforma l’autoritratto in un’arma artistica temibile. Questo pittore cinese moltiplica il suo volto ridanciano in composizioni che mettono in discussione l’uniformità sociale e l’assurdità contemporanea. Il suo sorriso carnivoro, ripetuto all’infinito, diventa il simbolo di una generazione costretta a indossare una maschera permanente per sopravvivere in un mondo disilluso.

Ascoltatemi bene, banda di snob: Yue Minjun è riuscito dove tanti altri hanno fallito. Ha inventato un linguaggio pittorico che parla direttamente alle viscere della nostra epoca, senza mai cadere nel patetico o nella compiacenza. Questo pittore nato nel 1962 a Daqing, nella provincia di Heilongjiang, ha forgiato uno dei volti più riconoscibili dell’arte contemporanea mondiale, quel sorriso sguarnito, rosa e carnivoro che tormenta le nostre retine da tre decenni.

L’epifania del riso forzato

La storia inizia nel 1989, quando Yue Minjun scopre un’opera di Geng Jianyi intitolata La Seconda Situazione, che rappresenta quattro volti ridenti disposti in serie. Questa rivelazione trasformerà per sempre la sua pratica artistica. Ma dove altri avrebbero semplicemente preso in prestito il motivo, Yue Minjun lo sublimerebbe, lo capovolgerebbe, facendone un’arma di distruzione di massa di tutte le nostre certezze estetiche e politiche.

Il suo riso non ha nulla di gioioso. È un ghigno di sopravvivenza, una smorfia d’impotenza di fronte all’assurdità del mondo moderno. Quando si osservano le sue tele come Execution (1995), che reinterpreta sia Manet sia Goya posizionando i suoi doppi ridanciani davanti al muro rosso di Tiananmen, si comprende immediatamente che non siamo nella caricatura, ma in qualcosa di molto più inquietante: la verità cruda di una generazione presa tra le promesse del comunismo e le realtà del capitalismo nascente.

Per cogliere appieno la portata dell’opera di Yue Minjun, è necessario evocare la nozione di carnevalesco sviluppata da Michail Bakhtin nella sua analisi dell’opera di François Rabelais [1]. Il teorico russo descrive il carnevale come un momento di inversione temporanea delle gerarchie, dove “il principio del riso e la sensazione carnevalesca del mondo che sono alla base del grottesco distruggono il serio unilaterale e tutte le pretese a un significato e a una incondizionalità situata al di fuori del tempo”.

Questa definizione corrisponde esattamente a ciò che realizza Yue Minjun nei suoi dipinti. Il suo riso carnevalesco funziona secondo le tre categorie di Bakhtin: i riti e spettacoli (le sue messe in scena teatrali), il comico verbale (trasposto qui in linguaggio pittorico) e il vocabolario familiare se non volgare (la sua estetica deliberatamente volgare, che rivendica senza complessi). Come il carnevale medievale, l’arte di Yue Minjun opera un ribaltamento radicale: i potenti diventano ridicoli, l’autorità si trasforma in buffoneria, e l’ordine ufficiale vacilla sotto gli assalti del riso.

Osservate la sua serie di Copricapi: ciascun copricapo simboleggia una professione, un rango sociale, un’identità imposta. Ma il volto che li indossa rimane identico, ridanciano, indifferente alle distinzioni gerarchiche. È pura Bakhtin applicata alla Cina post-maoista. Il carnevale di Yue Minjun non dura pochi giorni all’anno, si insedia definitivamente nelle nostre menti. Il suo riso ambivalente, sia gioioso che sarcastico, liberatorio e disperato, incarna perfettamente questa “relatività gioiosa” che Bakhtin identificava come l’essenza del grottesco carnevalesco.

Ancora di più, Yue Minjun porta la logica carnevalesca al suo apice rappresentando se stesso in tutte le situazioni. Diventa di volta in volta contadino e imperatore, vittima e carnefice, spettatore e attore. Questa moltiplicazione infinita del proprio volto rientra nel “realismo grottesco” bakhtiniano, dove “la massa” (qui la ripetizione dello stesso personaggio) prevale sull’individuo e dove “l’abbassamento” materializza i concetti astratti rendendoli accessibili al comune mortale. Yue Minjun democratizza l’arte mentre si democratizza personalmente: non è più l’artista unico e singolare, ma l’uomo ordinario moltiplicato all’infinito, avatar universale della nostra condizione contemporanea.

Il genio di Yue Minjun risiede nella sua capacità di attualizzare il carnevalesco di Bakhtin senza cadere nell’imitazione. La sua risata non è nostalgica di un passato trascorso, ma diagnostica il presente con un’acuta precisione chirurgica. Quando dipinge i suoi autoritratti fluttuanti nello spazio cosmico o si contorce in posizioni di arti marziali, ci mostra che il carnevale di oggi non ha più bisogno di date fisse: è diventata la nostra condizione permanente, il nostro modo di sopravvivere in un mondo in cui tutti i valori si sono relativizzati.

I guerrieri di terracotta: L’eternità disturbata

L’altra chiave di lettura dell’opera di Yue Minjun risiede nel suo dialogo permanente con la storia cinese, particolarmente incarnata dai suoi Guerrieri di Terra Cotta Contemporanei (1999-2005). Queste venticinque sculture in bronzo, tutte identiche, riprendono esplicitamente l’armata funeraria dell’imperatore Qin Shi Huang scoperta nel 1974 vicino a Xi’an [2]. Ma lì dove gli originali del III secolo a.C. presentavano tratti individualizzati, testimonianza dell’arte scultorea dell’epoca, Yue Minjun impone l’uniformità assoluta dello stesso volto ridente.

Questa appropriazione non è casuale. L’armata di terra cotta di Qin Shi Huang incarnava il potere imperiale, la volontà di immortalità del primo unificatore della Cina. Questi ottomila soldati, cavalli e carri dovevano proteggere l’imperatore nell’aldilà, prolungare il suo regno nell’eternità. Yue Minjun capovolge completamente questa ambizione: i suoi guerrieri contemporanei non proteggono nulla, non servono nessuno, si limitano a ghignare di fronte alla vanità di tutti i poteri.

Il contrasto è sorprendente: mentre i guerrieri originari si ergono nell’ombra del mausoleo imperiale, espressione ultima della grandezza cinese, quelli di Yue Minjun si disperdono nei giardini di scultura contemporanea, oggetti d’arte decorativa per borghesi collezionisti. Questa migrazione spaziale dice tutto della nostra epoca: l’arte si è spostata dal sacro al commerciale, dalla politica all’estetica. Ma Yue Minjun non piange questa trasformazione, la documenta con l’oggettività crudele del cronista.

I suoi guerrieri di bronzo incarnano perfettamente la condizione dell’artista cinese contemporaneo: eredi di una tradizione millenaria, devono navigare tra le aspettative del mercato internazionale e le esigenze del sistema politico locale. La loro risata perpetua diventa così una strategia di sopravvivenza, l’unica postura possibile di fronte all’impossibilità di dire direttamente le cose. È quanto spiega lo stesso Yue Minjun: “Non prendo in giro nessun altro, perché una volta che inizi a prenderti gioco degli altri, finiscono i problemi”.

L’ironia va persino oltre. Qin Shi Huang aveva unificato la Cina imponendo ovunque “un solo sistema di scrittura, di moneta, di pesi e misure”, secondo l’iscrizione UNESCO che descrive il suo mausoleo [2]. Yue Minjun realizza a modo suo una nuova unificazione: quella dell’umanità sotto il segno della risata forzata. I suoi guerrieri non parlano alcuna lingua particolare, non appartengono a nessuna nazione specifica. Sono i soldati di un esercito universale: quello delle persone ordinarie di fronte all’assurdità del mondo moderno.

Questa universalizzazione del particolare cinese spiega il successo internazionale di Yue Minjun. I suoi guerrieri ridacchianti parlano sia agli americani che agli europei, perché incarnano quella condizione post-moderna in cui ognuno deve indossare una maschera sociale per sopravvivere. Trasformando l’arte funeraria più sofisticata della storia cinese in un commento ironico sul nostro tempo, Yue Minjun compie un tour de force: rende l’archeologia un’arte d’avanguardia.

L’industria del sorriso

Dai suoi esordi nel villaggio di artisti di Yuanmingyuan all’inizio degli anni ’90, Yue Minjun ha visto il suo lavoro evolversi dallo status di sperimentazione marginale a quello di fenomeno di mercato. Quando Execution è stata venduta per 5,9 milioni di dollari da Sotheby’s nel 2007, stabilendo un record per l’arte contemporanea cinese, qualcosa è definitivamente cambiato nella ricezione della sua opera.

Questo successo commerciale solleva domande inquietanti. Come può un’arte nata dalla marginalità e dalla contestazione diventare così perfettamente integrata nel sistema che pretendeva di criticare? Yue Minjun stesso sembra talvolta disorientato da questa trasformazione: “Ciò che era importante per me era la parte creativa della pittura. Ma sembra che qualcosa sia cambiato. Forse è il modo in cui il denaro diventa più importante nella società”.

Tuttavia, questa evoluzione non squalifica il suo lavoro; lo arricchisce di una dimensione aggiuntiva. La risata di Yue Minjun funziona ora su più livelli: deride ancora la società cinese e le sue contraddizioni, ma prende in giro anche il mondo dell’arte occidentale che lo ha adottato e recuperato. I suoi guerrieri ridacchianti ornano oggi i salotti dei collezionisti facoltosi, ultima ironia per opere nate dalla critica al consumismo.

Questa appropriazione era prevedibile? Senza dubbio. Ma Yue Minjun aveva previsto la trappola moltiplicando i suoi autoritratti all’infinito. Come recuperare un artista che ha già organizzato la propria riproduzione industriale? Come addomesticare un creatore che ha fatto della standardizzazione il proprio linguaggio? Trasformandosi lui stesso in un prodotto di consumo, Yue Minjun è sfuggito alla recuperazione classica. Non può più essere recuperato poiché si è già recuperato da solo.

Una malinconia cinese

Dietro la risata perpetua si nasconde una profonda malinconia, quella di una generazione che ha vissuto il crollo di tutti i grandi racconti. Nato nel 1962, Yue Minjun appartiene a quella coorte di artisti cresciuti sotto Mao, studiato durante l’apertura di Deng Xiaoping e creato dopo Tiananmen. La loro gioventù è stata costruita su promesse rivoluzionarie che si sono trasformate in disillusioni capitaliste.

Questa malinconia emerge particolarmente nelle sue opere recenti, come la serie Fiori sviluppata durante la pandemia. Qui, i volti ridacchianti scompaiono dietro corolle lussureggianti, come se l’artista cercasse finalmente di nascondere quella risata che ci impone da trenta anni. “I fiori rappresentano ostacoli passivi”, spiega, “ci impediscono di vedere le verità individuali al di là dei marcatori di status, genere e personalità”. Questa nuova serie potrebbe segnare un’evoluzione significativa: il passaggio dalla risata esplicita alla dissimulazione più sottile.

Ma anche in questo desiderio di nascondere, Yue Minjun rimane fedele a se stesso. Perché che cos’è un fiore, se non un altro tipo di sorriso? Un sorriso vegetale, offerto al mondo per sedurre e riprodurre? Sostituendo i suoi ghigni con petali, l’artista non fa altro che sofisticare la sua metafora di base: siamo tutti costretti a sorridere, sia con le nostre bocche che con i nostri travestimenti.

L’eredità del riso beffardo

Cosa rimarrà di Yue Minjun tra cinquant’anni? Probabilmente ciò che è più radicale nel suo lavoro: questa capacità di trasformare l’arte in diagnosi sociale, di fare del ritratto uno strumento di misurazione dell’epoca. La sua risata è stata il termometro della Cina contemporanea e, per estensione, del mondo globalizzato in cui tutti noi viviamo.

Perché Yue Minjun non ha mai fatto altro che porgerci uno specchio. I suoi autoritratti multipli ci rimandano la nostra condizione: quella di individui costretti a sorridere permanentemente, che sia sui social media, nelle riunioni professionali o di fronte alle telecamere di sorveglianza. Il suo genio è stato comprendere prima di tutti che il sorriso era diventato la nostra prigione dorata, il nostro modo moderno di indossare una maschera.

In questo senso, Yue Minjun supera di gran lunga il contesto dell’arte cinese contemporanea. Diventa un cronista della condizione umana post-moderna, colui che ha saputo cogliere l’essenza della nostra epoca con pochi tratti di pennello rosa e bianco. La sua risata non si spegnerà, perché è diventata la nostra. E finché dovremo sorridere per sopravvivere, gli autoritratti di Yue Minjun continueranno a perseguitarci con la loro verità spietata.


  1. Mikhaïl Bakhtine, L’oeuvre de François Rabelais et la culture populaire au Moyen Âge et sous la Renaissance, Parigi, Gallimard, Tel, 1970
  2. UNESCO, “Mausoleo del primo imperatore Qin”, Centro del patrimonio mondiale, https://whc.unesco.org/en/list/441/
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Riferimento/i

YUE Minjun (1962)
Nome: Minjun
Cognome: YUE
Altri nome/i:

  • 岳敏君 (Cinese semplificato)

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Cina

Età: 63 anni (2025)

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