Ascoltatemi bene, banda di snob, nell’universo asettico delle gallerie contemporanee dove le tele minimaliste si vendono al prezzo di appartamenti parigini, Stefan Osnowski pratica qualcosa di radicalmente diverso: lavora con passione il legno. Non in modo qualsiasi. Trasforma una delle tecniche più antiche di riproduzione, la xilografia, in un’estetica filigranata ultramoderna che sembra quasi digitale. Ed è abbagliante!
Osnowski, uno dei tre vincitori del Luxembourg Art Prize 2024, questo prestigioso premio internazionale di arte contemporanea, ci riporta ai fondamenti spingendoli verso il futuro. In un’epoca in cui siamo inondati da centinaia di foto su Instagram ad ogni respiro, dove la durata media dell’attenzione è paragonabile a quella di un pesce rosso cocainomane, questo artista tedesco con base a Lisbona (Portogallo) impiega mesi per creare una sola opera. Ci costringe a rallentare, a strizzare gli occhi davanti alle sue creazioni come un miope che ha perso gli occhiali in una tempesta di sabbia.
Devo approfondire un primo filo concettuale che attraversa il suo lavoro: la fenomenologia del tempo nella nostra cultura digitale istantanea, che il filosofo sudcoreano residente in Germania Byung-Chul Han analizza magistralmente. Nel suo libro “Il profumo del tempo”, Han descrive la nostra epoca come affetta da una “discronia”, un tempo che “si atomizza in una semplice sequenza di presenti” [1]. Questa atomizzazione è proprio ciò che Osnowski combatte attraverso il suo processo artistico. Han scrive: “La vita contemplativa presuppone una particolare capacità di attenzione, una percezione lenta e meditativa” [2]. Non è forse esattamente ciò che richiede il lavoro di Osnowski? Le sue opere monumentali come “Cordoama” (2018), che rappresenta un’onda impetuosa che si eleva verso l’osservatore, catturano un momento fugace ma eterno, un istante tra due stati, liquido e gassoso, movimento e immobilità.
La temporalità di Osnowski è duplice: innanzitutto, c’è il tempo della creazione, laborioso, meditativo, artigianale, poi il tempo dell’osservazione, che richiede la stessa lentezza contemplativa. Le sue stampe ti scivolano tra le dita se le guardi con l’impazienza caratteristica dei nostri tempi. Esigono un’attenzione sostenuta, uno sguardo che indugia, si sposta, si allontana e si avvicina. È esattamente ciò che Han raccomanda come rimedio alla nostra malattia temporale contemporanea: “Il tempo ha bisogno di un ancoraggio, di un’architettura” [1]. Le incisioni di Osnowski costruiscono proprio questa architettura del tempo.
La sua opera “Vadon” (2019) è particolarmente rivelatrice a questo riguardo. Questo trittico monumentale di 250 x 375 cm rappresenta una foresta che sembra sia emergere che dissolversi. Visto da lontano, si distingue chiaramente un paesaggio boschivo; da vicino, l’immagine si scompone in una griglia astratta di linee accuratamente incise. Questa doppia lettura visiva è una perfetta metafora della nostra percezione contemporanea del tempo: da lontano vediamo una continuità; da vicino percepiamo solo frammenti scollegati.
Il secondo filo concettuale che voglio intrecciare con voi riguarda l’estetica del sublime nell’arte contemporanea. Osnowski riattualizza il concetto di sublime romantico nell’era digitale. Ricordiamo che il sublime, secondo Edmund Burke ed Emmanuel Kant, è quell’esperienza estetica che ci confronta con ciò che ci supera, ci spaventa, ci schiaccia per la sua grandezza. Nell’arte contemporanea, questo sublime è spesso legato alla nostra esperienza delle tecnologie digitali e alla loro apparente infinità matematica, quei codici e algoritmi che strutturano invisibilmente il nostro mondo.
L’opera di Osnowski, in particolare nella sua serie “Entre” (2018), cattura precisamente questo sublime digitale con mezzi paradossalmente analogici. Le sue immense onde oceaniche, i suoi cieli tempestosi, le sue foreste dense evocano direttamente il sublime romantico di Caspar David Friedrich, di cui Osnowski è dichiaratamente ammiratore. Ma la sua tecnica trasporta questo sublime nel nostro presente tecnologico. Trasformando fotografie digitali in codici binari incisi nel legno, un processo che inverte completamente il flusso abituale dall’analogico al digitale, Osnowski ci fa sentire fisicamente la tensione tra questi due mondi.
Guardate “Cordoama”, questa onda monumentale incisa in blu ftalocianina scuro. L’opera ci ricorda “Il Monaco al bordo del mare” di Friedrich, ma con una differenza fondamentale: in Friedrich, lo spettatore rimane a distanza dal sublime; in Osnowski, l’onda ci travolge, ci minaccia direttamente. Non c’è più una distinzione rassicurante tra soggetto e oggetto. Questa fusione è intensificata dalla tecnica di stampa manuale di Osnowski: invece di usare una pressa meccanica, strofina la carta sul blocco di legno con l’aiuto di lenti di vetro per ore, trasformando la stampa in una performance fisica, in una danza estenuante con la materia.
Questo dialogo con la materialità è tanto più sorprendente nella nostra epoca di immagini immateriali. Quando Instagram ci offre 100 milioni di nuove foto al giorno, tutte levigate dagli stessi filtri, tutte visibili sugli stessi schermi, Osnowski ci ricorda che un’immagine può anche essere un oggetto, con una texture, una profondità, una presenza fisica. Le sue stampe portano le tracce della loro fabbricazione, le leggere irregolarità nell’inchiostrazione, le sottili variazioni di pressione, gli impercettibili difetti del legno. Resistono alla riproduzione digitale perfetta perché sono fondamentalmente incarnate.
Nella sua serie “Fractals” (2024), Osnowski spinge più avanti la sua esplorazione del codice visivo. Queste opere, in particolare “Cantor-Menge”, fanno esplicito riferimento alla matematica del caos e alle strutture frattali. Incidendo questi complessi motivi matematici nel legno, Osnowski materializza letteralmente l’astrazione algoritmica. Rende tangibile l’intangibile. Questa è tutta la forza del suo approccio artistico: rendere visibile la struttura matematica invisibile che sottende il nostro mondo digitale.
Ciò che mi piace nel lavoro di Osnowski è la sua capacità di farci percepire le tensioni che definiscono la nostra epoca: tra l’analogico e il digitale, tra l’immediato e il lento, tra l’artigianale e l’algoritmico. Queste tensioni, Osnowski non cerca di risolverle, ma di mantenerle vive, vibranti, come campi di forza dove l’arte può ancora emergere. Rifiuta la tentazione del puramente concettuale (quanti artisti oggi si limitano a illustrare teorie!) così come respinge il puramente artigianale. Lavora nell’intervallo, nell’intermezzo, come suggerisce il titolo della sua serie “Entre”.
Questa posizione è profondamente politica, non in un senso partigiano ristretto, ma nella sua messa in discussione delle strutture temporali dominanti. Han afferma che “la crisi temporale di oggi non è un’accelerazione, ma una discromia, un’atomizzazione del tempo” [1]. Resistendo a questa atomizzazione, creando opere che richiedono una temporalità diversa, più contemplativa, più sostenuta, Osnowski propone una forma di resistenza estetica.
Prendiamo “Waldflucht” (2019), questa immensa foresta incisa (134 x 180 cm). Vista da vicino, l’immagine si dissolve in una struttura astratta, una griglia che evoca sia il codice informatico del film Matrix che lo schermo retinato di una vecchia televisione. Osnowski gioca qui sulla nostra stessa percezione della realtà. Ci mostra che ogni rappresentazione non è altro che un sistema di codifica, una convenzione che accettiamo. La foresta non è altro che un’organizzazione particolare di linee incise nel legno, così come la nostra percezione digitale del mondo è solo un’organizzazione particolare di pixel su uno schermo.
Ciò che rende il lavoro di Osnowski così pertinente oggi è che non cade mai nella facile nostalgia di un ritorno all’analogico. Non respinge il digitale; lo integra, lo digerisce, lo trasforma. Le sue opere non sono contro la tecnologia, ma propongono piuttosto una tecnologia alternativa, una tecnica che considera il corpo, la materia, il tempo vissuto. È ciò che Han chiama “una temporalità più profonda, che resiste all’atomizzazione” [1].
La serie “Ikarische Landschaft” (2019) di Osnowski è particolarmente eloquente a questo riguardo. Questi paesaggi in decomposizione, dove le strutture si disintegrano, dove i luoghi scompaiono, evocano la caduta di Icaro, quella figura mitologica dell’hybris tecnologica. Ma Osnowski non si limita a illustrare un’allegoria morale semplicistica. I suoi paesaggi icariani sono allo stesso tempo in dissoluzione e in formazione, come se la caduta e il volo fossero due aspetti dello stesso movimento.
Questa ambivalenza è caratteristica dell’approccio di Osnowski alla nostra cultura digitale. Non la celebra ciecamente, ma neppure la condanna in blocco. Ci invita piuttosto a considerarla come un materiale, come il legno che incide, con le sue venature, i suoi nodi, le sue resistenze. Un materiale da lavorare, da trasformare, piuttosto che una fatalità da subire.
Osnowski esplora anche i “non-luoghi”, quegli spazi di transito impersonali (aeroporti, autostrade, centri commerciali) teorizzati dall’antropologo Marc Augé. Nella sua serie “Passage” (2015-2016), cattura quattro secondi di un tragitto in auto in un tunnel urbano. Questi non-luoghi, che non sono destinati a essere abitati ma attraversati, diventano sotto il suo scalpello spazi meditativi, quasi spirituali. Osnowski ci costringe a soffermarci dove solitamente passiamo soltanto.
Ciò che distingue Osnowski da tanti artisti contemporanei è il suo rifiuto dell’ironia facile, del cinismo disilluso, della postura intellettuale distaccata. Il suo lavoro è di una sincerità quasi dolorosa. Quando incide un’onda, lo fa dopo aver passato ore a contemplare l’oceano, dopo aver persino sfiorato la morte durante un bagno a Praia do Cordoama in Portogallo. Questa esperienza vissuta impregna la sua opera di un’intensità esistenziale rara nell’arte contemporanea.
Ciò che fa la grandezza di Osnowski è la sua capacità di creare opere che sono allo stesso tempo concettualmente sofisticate e visceralmente potenti. In un mondo dell’arte spesso diviso tra un concettualismo freddo e un espressionismo vuoto, traccia una terza via, più esigente ma infinitamente più gratificante. Una via in cui il pensiero si incarna e dove la materia pensa.
Allora sì, banda di snob, quando andrete a vedere il lavoro di Osnowski, prendetevi il vostro tempo. Spegnete i vostri telefoni. Avvicinatevi, allontanatevi. Lasciate che il vostro sguardo fluttui su queste superfici incise che pulsano come organismi viventi. E forse, proprio forse, vi ricorderete cosa significa guardare davvero qualcosa, abitare veramente il tempo, essere davvero presenti al mondo. Nella nostra cultura dell’attenzione frammentata, forse questo è il dono più prezioso che un artista possa offrirci.
- Han, Byung-Chul. “Il profumo del tempo: Saggio filosofico sull’arte di soffermarsi sulle cose”, Éditions Circé, 2016.
- Han, Byung-Chul. “La società della stanchezza”, Éditions Circé, 2014.
















