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Martedì 18 Novembre

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Isshaq Ismail di fronte ai canoni estetici

Pubblicato il: 23 Ottobre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Isshaq Ismail applica spessi strati di acrilico per costruire ritratti con tratti volutamente esasperati: labbra sproporzionate, volti appiattiti e colori saturi. Questo artista ghanese che lavora ad Accra manipola la pittura con la spatola come uno scultore, creando superfici testurizzate dove ogni figura grottesca incarna le realtà sociali e politiche contemporanee.

Ascoltatemi bene, banda di snob: Isshaq Ismail dipinge volti che vi scrutano con l’insolenza di chi non ha nulla da perdere. Nato nel 1989 ad Accra, questo artista ghanese propone da un decennio un corpus di opere che sconvolgono i canoni estetici con una brutalità consapevole e un’intelligenza formale notevole. Le sue tele sature di colori vivaci, popolate da figure con tratti esagerati, labbra gonfie, volti appiattiti, costituiscono molto più di una semplice provocazione visiva. Sono l’incarnazione di un pensiero critico sull’identità contemporanea, su cosa significhi esistere in un mondo ossessionato dalla bellezza normativa e dalla conformità sociale.

Quello che l’artista chiama lui stesso “infantile semi-astrazione” [1] non ha nulla di infantile nel senso peggiorativo del termine. Questa denominazione costituisce al contrario una strategia concettuale formidabile: imitando l’apparente semplicità del disegno infantile, Ismail libera la pittura dal vincolo della rappresentazione accademica. L’impasto generoso, questo strato spesso di pittura che applica con la spatola, trasforma le sue tele in rilievi tattili, in superfici che sembrano pulsare sotto lo spessore della materia pittorica. Le pennellate gestuali, spesse, cariche di pigmenti saturi, costruiscono ritratti che oscillano tra la caricatura e il sacro, tra la derisione e la gravità. Questa libertà formale non è gratuita: permette all’artista di dire ciò che le convenzioni non tollerano, di mostrare ciò che la bellezza accademica nasconde.

Esiste una filiazione evidente, seppur mai esplicitamente rivendicata da Ismail, con l’opera di Francis Bacon. Il pittore britannico, le cui tele hanno infestato la seconda metà del ventesimo secolo, aveva fatto del grottesco il suo territorio d’elezione. In Bacon, i corpi si contorcono, i volti si dissolvono, la carne umana diventa carne. I critici hanno spesso descritto le sue figure come “violentemente deformate, quasi come pezzi di carne cruda, che sono anime isolate imprigionate e tormentate da dilemmi esistenziali” [2]. Questa estetica della distorsione non era un semplice esercizio di stile: traduceva una visione dell’umanità del dopoguerra, ferita, traumatizzata, privata delle sue certezze.

Ismail prosegue questo dialogo con il grottesco, ma lo sposta, lo reinventa per la nostra epoca. Dove Bacon dipingeva l’angoscia esistenziale dell’individuo occidentale di fronte al vuoto metafisico, Ismail si interessa ai corpi segnati dalle realtà postcoloniali, dalle violenze del capitalismo contemporaneo, dalle norme estetiche che gerarchizzano gli esseri umani. Le sue figure grottesche interrogano frontalmente la questione del bello e del brutto, del desiderabile e del respingente. Chi decide queste categorie? Secondo quali criteri un volto merita di essere rappresentato, contemplato, amato? L’artista ghanese ribalta queste domande contro lo spettatore con un’efficacia formidabile. I suoi ritratti dai tratti esagerati sfidano lo sguardo, costringendolo a confrontarsi con i propri pregiudizi estetici.

La tecnica stessa di Ismail richiama quella di Bacon, che paragonava il suo lavoro a quello di uno scultore che modella l’argilla. L’artista ghanese descrive il suo processo con termini simili: manipola la pittura come una materia malleabile, costruendo le sue figure attraverso l’accumulo di strati, graffiature, aggiunte successive. Questo approccio scultoreo conferisce ai volti una presenza fisica intensa. Non sono semplicemente rappresentati sulla tela: sembrano emergere, estrarsi da essa. Gli strati di impasto creano ombre, rilievi, una topografia facciale che rende ogni ritratto unico nella sua materialità stessa. Questa dimensione tattile conta tanto quanto quella visiva: le opere di Ismail richiedono di essere viste da vicino, esigono che lo spettatore si avvicini per coglierne tutta la ricchezza formale.

Ma il grottesco in Ismail differisce da quello di Bacon su un punto essenziale: laddove il pittore britannico coltivava una forma di disperazione metafisica, l’artista ghanese mantiene una tensione tra critica e speranza. Le sue figure, per quanto distorte, non cadono mai nel nichilismo. Rimangono abitate da ciò che lui chiama “desiderio, elevazione, forza, resilienza, gioia e speranza” che dimostrano che “il soggetto umano non è mai totalmente distrutto dall’avversità o dalla violenza” [1]. Questa dimensione affermativa distingue radicalmente Ismail dai suoi predecessori europei. Il grottesco diventa per lui uno strumento di resistenza, un mezzo per rivendicare un posto nel campo della rappresentazione per coloro che vi sono solitamente esclusi.

Questo approccio trova un potente eco negli studi del sociologo Erving Goffman sullo stigma e l’identità sociale. Nel suo testo fondativo pubblicato nel 1963, Goffman analizza come certi attributi corporei o sociali gettino un profondo discredito sugli individui che li portano [3]. Il sociologo distingue tre tipi di stigma: deformità corporee, difetti morali e stigma tribali legati a razza, nazionalità o religione. Ciò che interessa Goffman non è tanto lo stigma in sé quanto la relazione sociale che produce: un attributo diventa stigmatizzante solo nello sguardo dell’altro, nella distanza che crea tra ciò che Goffman chiama identità sociale virtuale (ciò che si aspetta da una persona “normale”) e identità sociale reale (ciò che effettivamente è).

Le figure dipinte da Ismail possono essere lette come incarnazioni visive di questa tensione in Goffman. Portano sul volto stesso il segno della loro distanza dalla norma, della loro differenza. I loro tratti esagerati, la loro bruttezza rivendicata, costituiscono stigmi visibili che le collocano fuori dai canoni di bellezza occidentale. Ma invece di nascondere questi stigmi, invece di praticare ciò che Goffman chiama il “fingere” (questa strategia che consiste per l’individuo stigmatizzato nel nascondere il suo attributo discreditato), Ismail li espone, li amplifica, li trasforma in armi estetiche. Questa logica ricorda ciò che alcuni sociologi hanno chiamato “rivoluzione dello stigma”: quel processo tramite cui le persone stigmatizzate si appropriano degli attributi che le discreditano per farne emblemi di orgoglio, indicatori di un’identità collettiva rivendicata.

L’artista ghanese opera proprio questo ribaltamento nel campo pittorico. Dipingendo volti che assumono pienamente il loro grottesco, la loro non conformità agli standard di bellezza dominanti, sposta lo stigma del corpo rappresentato verso lo sguardo che giudica. Non è più la figura dipinta a essere problema, ma il sistema di valori estetici che la rifiuta. Ismail “rappresenta le masse e difende i senza voce” [2] dando una visibilità monumentale a coloro che i canoni artistici occidentali hanno storicamente escluso o caricaturato. I suoi ritratti diventano atti di resistenza contro quelle che Goffman chiamerebbe le “aspettative normative” del mondo dell’arte.

Questa dimensione sociologica del lavoro di Ismail si manifesta particolarmente nella sua serie di opere monocrome blu, create durante la sua residenza alla galleria Efie di Dubai nel 2023. Coprendo le sue figure con un blu lapislazzuli uniforme, l’artista cancella i marcatori razziali dei suoi personaggi. Essi non sono più né neri né bianchi, né chiaramente identificabili con un’origine geografica precisa. Questa operazione cromatica universalizza i volti pur preservandone il carico espressivo. Il blu, colore tradizionalmente associato al potere reale, alla profondità e alla spiritualità, conferisce alle figure una dignità paradossale. Rimangono grottesche nella forma, ma nobili nella presentazione. Questa tensione tra forma e colore, tra bruttezza strutturale e bellezza cromatica, intensifica ulteriormente la riflessione sui criteri del giudizio estetico.

L’approccio di Ismail si inserisce in una più ampia domanda su cosa significhi essere visti, essere riconosciuti come soggetto nelle società contemporanee. Goffman sottolineava che l’identità si costruisce sempre nell’interazione, nello sguardo dell’altro. Le persone stigmatizzate devono costantemente gestire l’informazione che mostrano, controllare la loro presentazione di sé per minimizzare il discredito. Vivono in quello che Goffman chiama “contatti misti”, quelle interazioni tese tra “normali” e stigmatizzati in cui ciascuno deve negoziare il proprio posto. Le figure dipinte da Ismail rifiutano questa negoziazione. Non cercano di adattarsi allo sguardo dello spettatore, di rendersi accettabili. Impongono la loro presenza con una frontalità che non lascia vie di fuga. Lo spettatore non può distogliere lo sguardo, non può ignorare ciò che vede. È costretto a posizionarsi di fronte a quei volti che lo sfidano.

Questa strategia visiva si unisce a ciò che l’artista stesso descrive come una volontà di fare dichiarazioni polemiche sulle circostanze socio-politiche contemporanee. Le sue tele non sono semplici studi formali: costituiscono interventi critici nei dibattiti su identità, razza, potere e rappresentazione. Scegliendo di dipingere il grottesco, Ismail affronta una questione politica fondamentale: chi ha il diritto di essere considerato bello, degno di essere rappresentato nell’arte? I canoni estetici non sono mai neutri; riflettono e rafforzano gerarchie sociali, razziali, economiche. Contestandoli frontalmente, l’artista ghanese partecipa a una lotta più ampia per il riconoscimento e la dignità.

La forza del lavoro di Ismail risiede nella sua capacità di mantenere simultaneamente diversi livelli di lettura. Le sue tele funzionano prima di tutto come oggetti visivi potenti, saturi di colori, costruiti con un’energia gestuale immediatamente percepibile. Esse seducono l’occhio prima di turbare la coscienza. Ma sotto questa superficie edonista si nasconde una critica acuta dei meccanismi di distinzione e gerarchizzazione che strutturano le nostre società. Le figure grottesche di Ismail sono specchi deformanti che ci rimandano la nostra stessa violenza simbolica, i nostri propri pregiudizi estetici. Ci costringono a riconoscere che i nostri giudizi sulla bellezza e sulla bruttezza non sono mai innocenti, che portano sempre relazioni di potere, esclusioni e violenze.

Questa lucidità critica non impedisce all’opera di Ismail di irradiare una forma di ottimismo testardo. Le sue figure, nonostante il loro grottesco, nonostante le stigmate che portano, emanano una vitalità, una presenza affermativa. Esse esistono pienamente, senza vergogna né occultamento. Incarnano quella possibilità che Goffman evocava di una rivendicazione identitaria che trasforma lo stigma in emblema. In questo senso, il lavoro di Ismail partecipa a un’impresa di riappropriazione: riappropriazione del diritto alla bruttezza, riappropriazione del grottesco come categoria estetica legittima e riappropriazione della rappresentazione da parte di chi è stato storicamente escluso.

L’ascesa fulminea di Ismail nel mercato dell’arte internazionale testimonia un riconoscimento di questa impostazione. In meno di un decennio, le sue opere sono passate da poche migliaia di euro a centinaia di migliaia nelle vendite all’asta. Questo successo commerciale potrebbe sembrare contraddittorio rispetto al messaggio critico dell’artista. Come conciliare una critica radicale delle norme estetiche dominanti con l’inserimento riuscito nei circuiti più consolidati del mondo dell’arte? Questa tensione non è propria di Ismail: attraversa tutta la storia dell’arte critica e d’avanguardia. Ma merita di essere sottolineata, perché rivela la capacità del sistema artistico di assorbire, di neutralizzare anche le critiche più virulente trasformandole in merci desiderabili.

Tuttavia, sarebbe riduttivo vedere nel successo di Ismail solo una mera mercificazione. Le sue opere continuano a porre domande scomode, a disturbare le certezze. Mantengono questa tensione produttiva tra fascinazione estetica e disagio ideologico che caratterizza le grandi opere critiche. Ci ricordano che la lotta per la dignità e il riconoscimento non si svolge solo nel campo politico o sociale, ma anche nel campo simbolico della rappresentazione. Dipingere il grottesco, dare una visibilità monumentale a ciò che è abitualmente respinto o nascosto, costituisce un atto politico in sé. È affermare che tutti i volti meritano di essere visti, che tutte le esistenze meritano di essere riconosciute, che la bellezza non può essere il privilegio di una minoranza conforme ai canoni occidentali.

Isshaq Ismail appartiene a quella generazione di artisti africani che rifiutano di essere confinati al ruolo di illustratori dell’esotismo o testimoni della sventura. Rivendica il diritto a un’espressione plastica complessa, intellettualmente esigente, formalmente audace. La sua opera dialoga con la storia dell’arte occidentale (Bacon, Basquiat) tanto quanto con le tradizioni artistiche ghanesi. Si inserisce nei dibattiti teorici contemporanei sull’identità e la rappresentazione pur mantenendo una potenza visiva immediata. Questa capacità di lavorare simultaneamente su più registri, di articolare il formale e il politico, il locale e l’universale, la critica e la celebrazione, lo rende un artista di rilievo della sua generazione. Le sue tele non propongono risposte definitive alle questioni che sollevano. Mantengono aperte le ferite, le tensioni e le contraddizioni che attraversano le nostre società. Ci ricordano che la lotta per il riconoscimento è tutt’altro che terminata, che il diritto a un’esistenza piena e intera resta da conquistare per una grande parte dell’umanità. E lo fanno con una forza, un’urgenza, un’intelligenza formale che le rendono indimenticabili.


  1. Gallery 1957, “Isshaq Ismail”, gallery1957.com, consultato nell’ottobre 2025
  2. Sotheby’s, “Isshaq Ismail Biography”, sothebys.com, consultato nell’ottobre 2025
  3. Erving Goffman, Stigmate. Gli usi sociali delle disabilità, Parigi, Les Éditions de Minuit, 1975 [1963]
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Riferimento/i

Isshaq ISMAIL (1989)
Nome: Isshaq
Cognome: ISMAIL
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Ghana

Età: 36 anni (2025)

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