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Jason Martin : Dipingere l’infinito con il pennello

Pubblicato il: 22 Agosto 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 11 minuti

Jason Martin crea dipinti-raflessi dove la materia colorata diventa scultura. Applicando pigmenti e olio su metallo con strumenti da lui progettati, genera increspature ipnotiche. I suoi gesti ripetitivi trasformano la superficie piana in una topografia sensuale che cattura luce e ombre a seconda dello sguardo dello spettatore.

Ascoltatemi bene, banda di snob : Jason Martin ci ha appena ricordato che la pittura, lungi dall’essere morta sotto i colpi del digitale e dell’installazione, conserva una vitalità scultorea che ci colpisce nel profondo. Nato nel 1970 sull’isola di Jersey, questo pittore britannico ha trascorso più di tre decenni a dimostrarci che l’astrazione monocromatica può ancora toglierci il fiato. Le sue tele non sono semplici esercizi formalistici; costituiscono vere e proprie esperienze fisiche che interrogano il nostro rapporto con lo spazio, il tempo e la materia pittorica stessa.

Formatosi al Chelsea College of Art e poi al Goldsmiths College di Londra negli anni Novanta, Martin si è rapidamente distinto dai suoi contemporanei degli Young British Artists scegliendo la via dell’astrazione gestuale piuttosto che quella dello scandalo mediatico. Là dove Damien Hirst poneva squali nel formaldeide e Tracey Emin esponeva il suo letto disfatto, Martin optava per un approccio più discreto ma non meno radicale: esplorare i limiti fisici della pittura fino a trasformarla in rilievo scultoreo.

Le sue prime opere, realizzate negli anni Novanta, rivelano già un’ossessione per la materialità del pigmento. Applicando olio o acrilico su superfici di alluminio, acciaio inossidabile o Plexiglas, Martin usa strumenti simili a pettini per creare striature che increspano e pulsano sulla superficie delle sue composizioni. Questi gesti ripetitivi, che spazzano l’estensione dei suoi pannelli in un movimento unico e fluido, trasformano la pittura in un rilievo dove ogni strato di materia racconta la storia della propria creazione.

L’evoluzione della sua pratica testimonia una ricerca costante. Dopo una pausa di tre anni nell’uso della pittura a olio, Martin è tornato a questo medium con un approccio rinnovato, più minimale. Le sue opere degli ultimi anni, come quelle esposte nel 2017 alla Lisson Gallery, rivelano una semplificazione formale: i colori vivaci cedono il posto a grigi sfumati, bianchi polverosi e neri profondi. Questa evoluzione verso una tavolozza ridotta non impoverisce il suo lavoro; lo concentra e lo intensifica.

L’architettura del colore

L’opera di Jason Martin mantiene con l’architettura un dialogo silenzioso ma persistente. I suoi dipinti non sono semplici oggetti da appendere alle pareti; modificano lo spazio che li circonda, creando una tensione tra la bidimensionalità tradizionale della pittura e la tridimensionalità della scultura. Questa ambiguità formale richiama le preoccupazioni degli architetti minimalisti che, dagli anni Ottanta, cercano di rivelare l’essenza dello spazio attraverso la riduzione degli elementi decorativi e l’accento sulla materialità pura.

Nell’architettura minimalista, come nelle tele di Martin, ogni elemento deve giustificare la propria presenza. Architetti come Tadao Ando o Peter Zumthor costruiscono con il cemento, la luce e l’ombra spazi meditativi che privilegiano l’esperienza sensoriale sull’ornamento [1]. Allo stesso modo, Martin costruisce le sue composizioni con il colore, la texture e il gesto, creando spazi pittorici che invitano alla contemplazione. Le sue superfici striate evocano i muri di cemento grezzo dove la traccia delle casseforme rivela il processo di costruzione, trasformando la necessità tecnica in qualità estetica.

L’approccio architettonico di Martin si manifesta anche nel suo rapporto con la scala. Le sue grandi tele funzionano come pareti colorate che delimitano e qualificano lo spazio espositivo. Quando la luce sfiora i loro rilievi, rivela la topografia complessa della loro superficie, creando giochi di ombre e riflessi che variano secondo la posizione dello spettatore. Questa interazione tra l’opera e il suo ambiente luminoso ricorda il modo in cui l’architettura minimalista utilizza la luce naturale per rivelare la bellezza dei materiali grezzi.

La serie delle sue opere in metallo fuso spinge questa logica architettonica ancora più avanti. Trasponendo i suoi gesti pittorici in materiali come il rame, l’argento e l’oro, Martin trasforma la pittura in vera architettura murale. Questi rilievi metallici, con le loro superfici perfettamente levigate che riflettono l’ambiente, creano un dialogo costante tra l’interno e l’esterno, tra l’opera e lo spazio che l’accoglie. Funzionano come frammenti di architettura che avrebbero conservato la memoria del gesto artistico che li ha generati.

Questa dimensione architettonica del suo lavoro raggiunge il suo apice in opere monumentali come “Behemoth”, un cubo di sughero nero alto più di due metri e mezzo, esposto alla Lisson Gallery nel 2012. Questa scultura, che evoca tanto la Kaaba della Mecca quanto un monumento minimalista di Donald Judd, obbliga lo spettatore a negoziare la sua presenza fisica, girando intorno ad essa per cercare di coglierne l’essenza. Come le migliori realizzazioni architettoniche, essa non si rivela mai completamente da un unico punto di vista, mantenendo lo spettatore in uno stato di scoperta permanente.

Il rapporto di Martin con lo spazio non si limita a queste considerazioni formali. I suoi dipinti generano quello che si potrebbe chiamare uno “spazio mentale”, un’architettura della contemplazione che supera i confini fisici del quadro. Le ondulazioni delle sue superfici monocrome creano orizzonti immaginari, paesaggi astratti che evocano tanto le dune del deserto quanto le onde dell’oceano. Questa capacità di suggerire l’immensità entro i limiti di un formato rettangolare si avvicina alle preoccupazioni degli architetti che cercano di creare spazi infiniti in volumi vincolati.

Il cinema della materia

L’arte di Jason Martin intrattiene anche legami profondi con il cinema astratto degli anni 1920, quel movimento rivoluzionario che cercava di liberare l’immagine in movimento da ogni narrazione per conservare solo la pura sensazione visiva. Come i pionieri del cinema assoluto, Hans Richter, Viking Eggeling, Walter Ruttmann o Oskar Fischinger, Martin esplora le possibilità ritmiche e musicali del suo mezzo, trasformando la superficie pittorica in uno schermo dove si dispiegano sequenze di gesti congelati nella materia.

Le striature che attraversano le sue tele evocano le pellicole sperimentali di Richter nei suoi “Rhythmus” (1921-1923), dove forme geometriche semplici danzavano sullo schermo secondo cadenze visive [2]. In Martin, ogni passaggio dello strumento crea un’immagine successiva, un frame di un film che non sarebbe mai proiettato ma resterebbe sospeso nell’eternità della pittura. Il movimento del suo braccio attraversa la tela come la pellicola attraversa il proiettore, imprimendo nella materia colorata la traccia di un tempo passato.

Questa analogia cinematografica assume una dimensione particolare quando si considera la temporalità del processo creativo di Martin. Le sue opere recenti in pigmento puro necessitano di settimane di asciugatura prima che possa applicare gli strati colorati. Questa durata di attesa, questa pazienza imposta dalla materia, evoca le lunghe inquadrature fisse del cinema contemplativo, quei momenti in cui il tempo sembra sospeso e l’immagine acquisisce una densità particolare.

L’influenza del cinema astratto si manifesta anche nel modo in cui Martin concepisce il colore. I primi cineasti sperimentali cercavano di creare una “musica per gli occhi”, stabilendo corrispondenze tra i timbri sonori e le sfumature cromatiche. Martin, quando passa dal monocromo rigoroso alle opere policrome del suo periodo recente, orchestra i suoi colori secondo una logica musicale. Le bande parallele di rosa, di giallo e di verde pistacchio nelle sue tele del 2020 creano armonie visive che evocano le scale colorate di Oskar Fischinger nei suoi “Études” degli anni ’30.

Questo approccio cinematografico alla pittura consente a Martin di risolvere una delle contraddizioni fondamentali dell’arte contemporanea: come creare movimento in un medium statico. Le sue superfici ondulanti catturano e modificano la luce secondo l’angolo di visione, creando un effetto ottico che trasforma ogni spostamento dello spettatore in un nuovo piano cinematografico. L’opera non si rivela mai identica a se stessa; vive, respira e pulsa al ritmo dei nostri passi.

La dimensione cinematografica del suo lavoro trova la sua giustificazione teorica in questa frase di Leon Battista Alberti che Martin cita volentieri: “La pittura ricrea l’illusione di profondità sulla superficie”. Questa illusione, nel cinema, nasce dalla successione rapida delle immagini fisse; in Martin, nasce dalla stratificazione della materia colorata che crea una profondità fisica reale pur suggerendo spazi immaginari.

Le ultime opere di Martin, concepite durante il confinamento nel suo atelier portoghese, rivelano un’evoluzione verso quello che lui stesso chiama un cinema del colore. Queste piccole tele dove diverse tonalità si mescolano e si contaminano a vicenda funzionano come storyboard di un film astratto. Ogni passaggio di spatola corrisponde a una inquadratura; ogni sovrapposizione di colori, a un montaggio incrociato. Martin non dipinge più oggetti o paesaggi; filma la nascita e la morte dei colori, la loro metamorfosi perpetua sulla superficie sensibile della tela.

L’eredità e l’innovazione

Il posizionamento di Jason Martin nella storia dell’arte contemporanea rivela un’intelligenza strategica notevole. Piuttosto che rifiutare l’eredità del modernismo, sceglie di aggiornarla attingendo alle fonti vive dell’astrazione gestuale mentre vi infonde una sensibilità contemporanea. Il suo pantheon personale, Lucio Fontana, Jackson Pollock e Yves Klein, testimonia questa volontà di sintesi tra diverse approcci all’arte astratta.

Da Pollock, Martin trattiene la dimensione coreografica della creazione, quest’idea che dipingere significa danzare con la tela. Ma là dove l’americano copriva le sue grandi superfici con proiezioni gestuali, l’inglese concentra la sua energia in pochi movimenti essenziali, trasformando la frenesia in meditazione. Da Fontana eredita quella concezione spazialista che fa della tela una soglia tra due mondi, un passaggio verso l’ignoto. I suoi rilievi spessi creano “tagli” in volume, intagli positivi che proiettano la pittura nello spazio reale. Infine, da Klein, apprende la lezione del monocromo assoluto, quella capacità di far vibrare un colore unico fino a fargli esprimere l’infinito.

Questa sintesi non è per nulla passatista. Martin non copia i suoi maestri; li assimila per creare un linguaggio pittorico profondamente personale. Le sue innovazioni tecniche, l’uso di supporti metallici, gli strumenti di texture che costruisce lui stesso, le colate in metalli preziosi, testimoniano una ricerca costante. Ogni nuova serie spinge più avanti l’esplorazione delle possibilità espressive della pittura.

La mostra “Sensation” del 1997 alla Royal Academy di Londra aveva consacrato i Young British Artists, ma Martin vi occupava già una posizione singolare. Contrariamente ai suoi contemporanei che privilegiavano la provocazione e lo spettacolo, lui puntava sulla seduzione discreta e sull’emozione pura. Questa strategia, che poteva sembrare desueta nell’epoca del “Cool Britannia”, si rivela oggi premonitrice. In un mondo saturo di immagini aggressive e stimolazioni violente, i suoi dipinti offrono uno spazio di respiro e raccoglimento che risponde a un bisogno profondo della nostra epoca.

Collezionisti e istituzioni non si sbagliano. Presenti nelle collezioni dello Hirshhorn Museum di Washington, del Denver Art Museum o della Peggy Guggenheim Collection di Venezia, le sue opere trovano il loro posto nei templi dell’arte contemporanea. Questo riconoscimento istituzionale convalida un approccio che privilegia la ricerca formale rispetto alla facilità concettuale.

Martin rivendica questa posizione di equilibrista tra tradizione e innovazione. La sua pratica recente testimonia una maturità artistica che gli permette di assumersi pienamente le sue scelte estetiche. Quando descrive il suo percorso come un tentativo di “riempire il vaso vuoto del minimalismo”, rivela la sua comprensione fine delle sfide dell’arte contemporanea. Il minimalismo aveva svuotato l’arte di ogni espressività soggettiva; Martin vi reinietta una dimensione sensuale ed emozionale senza però rinunciare alla rigorosità formale.

La persistenza del visibile

Oggi, mentre l’arte contemporanea sembra ossessionata dalla dematerializzazione e dalla concettualizzazione, Jason Martin ci ricorda che la pittura conserva poteri unici. Le sue tele non raccontano storie; creano esperienze. Non trasmettono messaggi; generano sensazioni. Questa economia di mezzi, questa efficacia diretta dell’arte sui nostri sensi, costituisce forse la lezione più preziosa del suo lavoro.

L’evoluzione recente della sua pratica conferma questa intuizione. Le opere policrome del suo periodo portoghese rivelano un Martin sereno, libero dalle costrizioni del mercato dell’arte e dalle aspettative critiche. Queste piccole tele dove si mescolano rosa, gialli e verdi rivelano un pittore che ha trovato la sua strada e l’esplora con una nuova libertà. Sperimentazione e maestria tecnica si affiancano, la spontaneità apparente nasconde un controllo perfetto degli effetti.

Questa libertà ritrovata permette a Martin di assumere pienamente la dimensione figurativa latente della sua arte. Quando confessa di sentirsi “come un paesaggista mascherato da astrattista”, rivela la vera natura del suo progetto artistico. I suoi dipinti non rappresentano paesaggi; li creano. Non copiano la natura; competono con essa in bellezza e complessità.

I rilievi delle sue ultime opere evocano effettivamente formazioni geologiche, erosioni misteriose, sedimentazioni colorate che raccontano la storia della Terra. Ma questa evocazione resta sufficientemente astratta da lasciare a ogni spettatore la libertà di proiettare le proprie associazioni. È qui che risiede la forza di Martin: creare immagini che parlano al nostro inconscio visivo senza mai rinchiuderlo in un significato univoco.

Questa capacità di suscitare l’emozione pura attraverso la sola manipolazione della materia colorata pone Martin nella scia dei grandi coloristi della storia dell’arte. Come Turner con i suoi tramonti o Rothko con i suoi campi colorati, raggiunge quella zona misteriosa dove la tecnica si fa dimenticare per lasciare spazio soltanto all’emozione pura. I suoi dipinti funzionano come inneschi di affetti, macchine per generare bellezza.

In un’intervista, Martin evoca questa immagine di un astronauta che nasconde la Terra dietro il pollice e dichiara: “Tutto ciò che conosco si trova dietro il mio dito. Tutto il resto mi è sconosciuto.” Questa metafora riassume perfettamente il suo rapporto con la pittura. Ognuna delle sue tele costituisce questo pollice alzato davanti all’immensità del visibile, questo tentativo derisorio e necessario di delimitare l’infinito entro i limiti di un rettangolo colorato.

L’arte di Jason Martin ci insegna che la pittura, lungi dall’essere un medium superato, conserva una capacità unica di emozionarci e sorprenderci. In un’epoca in cui sembra che tutto sia stato detto e mostrato, i suoi rilievi colorati dimostrano che ci sono ancora territori da esplorare, sensazioni da scoprire, bellezze da inventare. Per questo soltanto, il suo lavoro merita la nostra attenzione e gratitudine.


  1. Bullivant, Lucy. New Directions in Architecture: Contemporary Practices in Spatial Design. Londra : Wiley, 2019.
  2. Lawder, Standish D. The Cubist Cinema. New York : New York University Press, 1975.
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Riferimento/i

Jason MARTIN (1970)
Nome: Jason
Cognome: MARTIN
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Regno Unito

Età: 55 anni (2025)

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