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Jason Rhoades: Scultore di eccesso e abbondanza

Pubblicato il: 27 Aprile 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Jason Rhoades trasforma l’accumulo di oggetti quotidiani in esperienze immersive monumentali. Le sue installazioni sovradimensionate mettono fianco a fianco tubi di alluminio, neon colorati, attrezzi da bricolage e oggetti trovati per creare ambienti labirintici dove il caos apparente nasconde un’organizzazione meticolosa, confrontando il nostro rapporto con il sovraconsumo americano.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Jason Rhoades è probabilmente l’unico artista americano che ha capito che l’arte non è una questione di buon gusto, ma una questione di superamento dei limiti. Figlio di un contadino californiano, nato nel 1965 e scomparso prematuramente nel 2006, è riuscito in pochi anni a creare un’opera che sconvolge il nostro comfort visivo e intellettuale. Le sue installazioni smisurate, queste vertiginose pile di oggetti della quotidianità americana, non sono semplicemente accumuli caotici come molti hanno pensato. No, Rhoades orchestrava meticolosamente ogni elemento delle sue opere, creando universi complessi che permettevano diversi livelli di lettura.

Il suo lavoro si impone prima di tutto per la sua materialità grezza. Tubi di alluminio lucidato, neon colorati, secchi di plastica, cavi elettrici intrecciati, portatili mutilati, attrezzi da bricolage, giocattoli infantili e persino avanzi di cibo. Tutto diventa materiale per Rhoades. Trasforma il banale in straordinario non abbellendolo, ma accumulandolo fino a un’overdose visiva. Questa strategia di eccesso non è gratuita, riflette con una lucidità pungente l’America contemporanea, il suo consumo compulsivo, la sua ossessione per la produzione e la sua relazione complessa con la mascolinità.

Prendiamo “Perfect World” del 1999, quella monumentale installazione alle Deichtorhallen di Amburgo. Rhoades qui costruisce quella che chiamava “la più grande scultura interna del mondo” con 1.400 metri quadrati di impalcature in alluminio brillante. I visitatori potevano salire su una piattaforma elevata che offriva una vista panoramica di questa foresta metallica attraversata da colori vivaci. Quest’opera illustra perfettamente l’ambizione demiurgica di Rhoades, il suo desiderio di creare un universo totale, contemporaneamente fisicamente imponente e concettualmente denso.

Se Rhoades si inscrive in una certa tradizione americana di installazioni sovradimensionate, alla maniera di Paul McCarthy di cui fu allievo alla UCLA, il suo lavoro si distingue per la precisione quasi ossessiva con cui organizza il caos apparente. Ogni oggetto, per quanto insignificante, è minuziosamente posizionato in un sistema di relazioni che rispetta una logica interna tanto rigorosa quanto può sembrare assurda ai non iniziati.

La critica d’arte Linda Norden ha colto perfettamente questa dimensione dell’opera di Rhoades quando scrive: “Rhoades ha strutturato gli incontri e i ‘territori’ che ha delimitato con una precisione maniacale, e ha manifestato un tale orgoglio personale nella loro esecuzione che vi ha non solo fatto credere, come lui, che tutto fosse in qualche modo connesso (e potenzialmente divertente o significativo o utile o pericoloso), ma che voi, lo spettatore, aveste un ruolo da svolgere” [1]. Questo coinvolgimento dello spettatore è fondamentale per Rhoades. Non crea soltanto opere da guardare, ma ambienti da sperimentare.

Questa esperienza non è mai confortevole. È talvolta volutamente provocatoria, specialmente nelle sue ultime opere dove esplora senza riserve la sessualità e i tabù culturali. In “The Black Pussy… and the Pagan Idol Workshop” (2005), raccoglie centinaia di oggetti turistici kitsch, acchiappasogni nativi americani, cappelli da cowboy e altri artefatti culturali che combina con installazioni luminose in neon che compongono centinaia di eufemismi per il sesso femminile. Quest’opera illustra la sua capacità di confrontare l’appropriazione culturale e la misoginia latente nella cultura americana, senza mai cadere nella morale didattica.

Il rapporto complesso di Rhoades con l’automobile costituisce un altro asse essenziale del suo lavoro. Per questo artista cresciuto in California, l’automobile non è solo un mezzo di trasporto, ma un’estensione dello studio, uno spazio di pensiero e creazione. In un’intervista con Hans Ulrich Obrist, egli spiega la sua preferenza per le autostrade americane che offrono “potenza, velocità e fiducia” in contrapposizione alle strade tortuose europee. Questa visione della strada come vettore di libertà e identità si concretizza particolarmente nelle sue opere come “Fucking Picabia Cars with Ejection Seat” (1997/2000), dove rende omaggio al pittore futurista Francis Picabia esplorando al contempo la mitologia dell’automobile americana.

Ciò che mi piace nell’opera di Rhoades è la sua capacità di sviluppare un’estetica dell’eccesso che trascende il semplice spettacolo per diventare una forma di critica sociale. Saturando lo spazio con oggetti della quotidianità americana, ci costringe a confrontarci con il nostro rapporto con il consumo e l’accumulo. Come scrive il critico Stephen Wozniak, le opere di Rhoades “agiscono come uno strumento per aiutarci a confrontarci con la follia e le debolezze della vita quotidiana, ma anche per trovare la nostra strada in un mondo futuro, per quanto frammentato, aperto o, infine, sconosciuto esso sia” [2].

Questa dimensione quasi antropologica del suo lavoro si manifesta particolarmente nel suo progetto “PeaRoeFoam”, un materiale di sua invenzione composto da piselli secchi, uova di salmone e palline di polistirene legate con colla. Questa sostanza strana, che ha presentato in una serie di mostre nel 2002, incarna la fusione di naturale e artificiale, nutritivo e tossico che caratterizza tanto la cultura materiale contemporanea. Rhoades ne fa allo stesso tempo un prodotto artistico e commerciale, sfumando deliberatamente i confini tra arte e consumo.

L’arte di Rhoades si inscrive in una tradizione letteraria americana che si potrebbe avvicinare all’opera di scrittori come Thomas Pynchon o David Foster Wallace. Come loro, crea universi saturi di informazioni, riferimenti e digressioni che riflettono la condizione postmoderna in tutta la sua complessità cacofonica. Le sue installazioni sono romanzi visivi in cui ogni oggetto è un personaggio, ogni configurazione spaziale una trama.

Questa dimensione letteraria si manifesta anche nell’importanza che Rhoades attribuiva alla parola. Le sue interviste, come quella pubblicata su Artforum dopo la sua morte, rivelano un artista prolifico tanto nelle parole quanto nelle forme. In essa dichiara in particolare: “Giocare con l’impossibile è sempre stata una sfida nel mio lavoro: prendi tre oggetti, come una pallina di gomma, una motosega e un elefante africano vivente, e prova a fare giocoleria con essi.” [3]. Questa metafora della giocoleria impossibile cattura perfettamente l’ambizione folle del suo progetto artistico: mantenere insieme elementi disparati in un equilibrio precario che sfida la logica convenzionale.

Se l’opera di Rhoades dialoga con la letteratura americana contemporanea, intrattiene anche rapporti complessi con l’architettura. Le sue installazioni possono essere viste come architetture temporanee, costruzioni che ridefiniscono la nostra esperienza dello spazio. In “Sutter’s Mill” (2000), ricrea il mulino storico dove fu scoperto l’oro in California nel 1848, usando tubi di alluminio riciclati da installazioni precedenti. Quest’opera non è solo un riferimento alla storia americana, ma una meditazione sul ciclo di costruzione e distruzione che caratterizza lo sviluppo urbano negli Stati Uniti.

L’architettura diventa così per Rhoades un mezzo per esplorare le strutture materiali e concettuali che plasmano la nostra esperienza collettiva. Le sue installazioni ci invitano a navigare in spazi sia familiari che strani, labirinti contemporanei in cui si gioca il nostro rapporto con il mondo materiale. Come scrive lo storico dell’arte Daniel Birnbaum: “A volte sembrava voler inghiottire il mondo delle cose in un sol boccone, come si farebbe con un’ostrica” [4].

Questa voracità, questa ambizione divorante di includere tutto, è ciò che rende l’opera di Rhoades così pertinente nella nostra epoca di sovraccarico informativo. Piuttosto che semplificare, ridurre o purificare, abbraccia la complessità e l’eccesso come strategie estetiche e politiche. Rifiuta la facilità del minimalismo per confrontarci con l’abbondanza vertiginosa che caratterizza la nostra quotidianità.

In questo senso, Rhoades è profondamente americano. La sua opera prolunga e sovverte la tradizione del “bigger is better” che attraversa la cultura americana. Spinge questa logica fino all’assurdo per rivelarne le contraddizioni interne. La sua americanità non è quella degli spazi selvaggi celebrati dai pittori della Hudson River School, ma quella dei centri commerciali, dei garage, dei laboratori di bricolage e delle strade interminabili che costituiscono il paesaggio quotidiano degli Stati Uniti contemporanei.

Questa americanità si manifesta anche nel suo rapporto con il mito dell’artista autodidatta, del geniale inventore. Figlio di un contadino, Rhoades gioca costantemente con questa immagine dell’americano ingegnoso che crea cose con le proprie mani. “Jason the Mason” (Jason il muratore), il suo soprannome d’infanzia, diventa un personaggio che egli mobilita nel suo lavoro, in particolare in “My Brother/Brancusi” (1995) dove affianca foto della camera di suo fratello con quelle dello studio di Constantin Brancusi, creando un dialogo improbabile tra la cultura vernacolare americana e il modernismo europeo.

Ciò che rende questo dialogo particolarmente potente è che Rhoades rifiuta qualsiasi gerarchia tra queste diverse sfere culturali. Tratta con la stessa serietà un giocattolo di plastica e un riferimento alla storia dell’arte. Questo approccio democratico ai materiali e alle referenze riflette una sensibilità profondamente americana, una ritrosia verso le distinzioni elitiste tra cultura alta e bassa.

Eppure, nonostante questa americanità rivendicata, Rhoades ha conosciuto più successo in Europa che negli Stati Uniti durante la sua vita. Le sue opere sono state esposte alla Kunsthalle di Basilea, alla Villa Arson di Nizza, alla Kunsthalle di Zurigo, all’Hamburger Kunsthalle, al Museo di Arte Moderna di Francoforte e al Museo Reina Sofía di Madrid, molto prima di essere pienamente riconosciute nel suo paese natale. Questa ricezione europea testimonia forse la capacità del suo lavoro di funzionare come uno specchio critico dell’America, offrendo agli spettatori europei una visione sia affascinante che inquietante della cultura americana vista dall’interno.

La prematura morte di Rhoades nel 2006, all’età di 41 anni, ha interrotto bruscamente una traiettoria artistica in piena ascesa. Ha anche fissato la sua opera in un momento particolare, conferendole una dimensione tragica che a volte rischia di offuscare quella critica e umoristica. Perché l’umorismo è una componente essenziale del lavoro di Rhoades, un umorismo nero, assurdo e talvolta volgare che disarma costantemente il potenziale serioso delle sue installazioni.

Questo umorismo appare chiaramente in opere come “The Creation Myth” (1998), un’installazione che funziona come un modello del cervello dell’artista, con zone etichettate come “La mente”, “L’angolo morale (Bene e Male)” e “Il culo”. Una macchina del fumo proietta periodicamente anelli di fumo, rappresentando le flatulenze dell’artista. Questa autoderisione costante, questa capacità di prendere in giro se stesso pur creando opere di ambizione smisurata, è ciò che salva Rhoades dalla megalomania che talvolta minaccia gli artisti della sua generazione.

Jason Rhoades ha costruito un’opera che sfida le classificazioni facili e le interpretazioni univoche. Le sue installazioni sono al contempo ambienti immersivi, commenti sociologici, autobiografie spaziali e sistemi filosofici. Ci invitano a ripensare il nostro rapporto con gli oggetti, lo spazio e l’abbondanza materiale che caratterizza la nostra epoca. Ci mettono anche di fronte ai nostri pregiudizi culturali, ai nostri tabù e alle nostre cecità collettive.

La forza dell’opera di Rhoades risiede nella sua capacità di mantenere insieme contraddizioni senza risolverle artificialmente. È allo stesso tempo critico e complice della cultura americana che mette in scena, ironico e sincero, provocatore e profondamente serio. Il suo lavoro ci lascia in uno stato di incertezza produttiva, costringendoci a navigare senza mappa in spazi saturi di informazioni e sensazioni.

Forse è lì che risiede la sua eredità più duratura: in quell’invito ad abbracciare la complessità invece di fuggirla, a impegnarsi con il mondo materiale in tutta la sua ricchezza contraddittoria invece di cercare rifugio nella purezza illusoria dell’astrazione. Jason Rhoades ci ricorda che l’arte non ha bisogno di essere bella o facile per essere profondamente necessaria.


  1. Linda Norden, “Jason Rhoades, 3”, Artforum, settembre 2023.
  2. Stephen Wozniak, “Rockets to the Future: The Car-Consciousness Art of Jason Rhoades”, Observer, ottobre 2024.
  3. Jason Rhoades, citato in Ralf Beil, “Künstlerküche: Lebensmittel als Kunstmaterial von Schiele bis Jason Rhoades”, DuMont, Colonia, 2002.
  4. Daniel Birnbaum, “Jason Rhoades, 3”, Artforum, settembre 2023.

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Riferimento/i

Jason RHOADES (1965-2006)
Nome: Jason
Cognome: RHOADES
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 41 anni (2006)

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