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Martedì 18 Novembre

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Jeff Wall, il fotografo di immagini costruite

Pubblicato il: 19 Giugno 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 6 minuti

Jeff Wall rivoluziona la fotografia contemporanea creando immagini costruite di un’autenticità perturbante. Le sue trasparenze retroilluminate trasformano scene quotidiane in quadri monumentali che mettono in discussione il nostro rapporto con la realtà. L’artista canadese reinventa l’arte fotografica con il suo metodo cinematografico unico.

Ascoltatemi bene, banda di snob: Jeff Wall non è un fotografo come gli altri. Da diverse decadi, quest’uomo di Vancouver costruisce meticulosamente immagini che ci costringono a ripensare il nostro rapporto con la realtà fotografica. Le sue trasparenze retroilluminate, montate su cassette luminose, impongono la loro presenza monumentale nello spazio museale con un’autorità che compete con i più grandi maestri della pittura. Wall non cattura l’attimo decisivo; lo fabbrica, lo modella, lo perfeziona fino a che questa finzione diventa più vera della realtà.

L’opera di Wall si inscrive in una tradizione cinematografica che affonda le sue radici nel neorealismo italiano degli anni 1950-1960. Come i registi Roberto Rossellini o Vittorio De Sica, Wall sviluppa quello che chiama il “documentario vicino” [1], un metodo che consiste nel ricostruire scene che ha osservato nella realtà, collaborando con attori non professionisti. Questo approccio neorealista permette all’artista canadese di creare immagini di un’autenticità inquietante, dove il confine tra finzione e realtà si sfuma. In Mimic (1982), Wall ricostruisce una scena razzista che ha realmente osservato: un uomo bianco fa un gesto osceno verso un passante asiatico. La fotografia cattura questa violenza latente della quotidianità con la stessa acutezza sociale con cui i film di De Sica rivelavano la povertà dell’Italia del dopoguerra. L’estetica neorealista di Wall risiede in questa capacità di trasformare l’ordinario in straordinario, di rivelare le tensioni sociali che attraversano le nostre società contemporanee. I suoi collaboratori, come gli attori del neorealismo, apportano la propria verità all’immagine, creando questa particolare alchimia tra direzione artistica e spontaneità umana. L’inquadratura ampia, la luce naturale, l’attenzione dedicata ai dettagli della quotidianità, tutto concorre a creare questa impressione di realtà immediata che caratterizza il movimento italiano. Wall attualizza questa tradizione adattandola ai codici dell’arte contemporanea, trasformando i suoi lightbox in schermi cinematografici immobili dove si gioca il teatro delle nostre esistenze moderne.

Ma Wall non si limita a documentare il presente. Le sue opere mantengono un dialogo costante con la storia dell’arte occidentale, in particolare con la tradizione della natura morta olandese del XVII secolo. Questa filiazione diventa evidente quando si esamina la minuzia con cui l’artista compone le sue immagini, questa ossessiva attenzione al dettaglio che ricorda i maestri fiamminghi. In The Destroyed Room (1978), la sua prima opera importante, Wall orchestra un caos apparente che nasconde in realtà una composizione di rigore assoluto. Ogni oggetto è disposto con la precisione di un Jan Davidsz de Heem che sistema frutta e fiori. Questa estetica della vanità contemporanea trova il suo apice in opere come After “Invisible Man” by Ralph Ellison, the Prologue (1999-2000), dove le 1369 lampadine che illuminano la cantina del protagonista diventano tanti memento mori moderni. Wall domina l’arte della simbologia nascosta, questa pratica cara ai pittori olandesi che nascondevano messaggi morali nelle pieghe delle loro nature morte. I suoi oggetti di uso quotidiano, una borsa di carta dimenticata su un frigorifero in Insomnia (1994), i rifiuti sparsi nei suoi paesaggi urbani, funzionano come teschi e candele spente delle vanità barocche. Ci ricordano la fragilità delle nostre esistenze, la precarietà delle nostre costruzioni sociali. L’artista canadese attualizza questa tradizione sostituendo i simboli religiosi con i segni della nostra modernità decadente: fast food, centri commerciali, periferie residenziali. Come i maestri olandesi che celebravano la prosperità borghese denunciandone però gli eccessi, Wall rivela le contraddizioni delle nostre società postindustriali attraverso un’estetica di una bellezza inquietante.

Questa ricerca della bellezza nella banalità quotidiana è accompagnata da una profonda riflessione sulla natura stessa dell’immagine fotografica [2]. Wall rivendica un approccio “cinematografico” alla fotografia, termine che usa per distinguere le sue pratiche di messa in scena dal documentario tradizionale. Questo metodo implica una preparazione accurata, ampie collaborazioni e spesso diversi mesi di lavoro per una singola immagine. L’artista non esita a costruire repliche perfette di spazi reali quando le circostanze lo richiedono, come per Summer Afternoons (2013), ricostruzione esatta del suo vecchio appartamento londinese. Questa ossessione per il dettaglio e l’autenticità paradossale, creare il vero dal falso, rivela una concezione particolare dell’arte fotografica.

Wall rifiuta la gerarchia tradizionale che pone il documentario al vertice della piramide fotografica. Per lui, la “cinematografia” fotografica possiede una legittimità pari, se non superiore, perché permette di esplorare territori narrativi inaccessibili alla fotografia di strada. Le sue opere interrogano il nostro rapporto con la verità dell’immagine nell’era digitale, anticipando i dibattiti contemporanei sulla manipolazione e l’autenticità. Dead Troops Talk (1991-92), visione allucinante di soldati morti che conversano dopo un’imboscata in Afghanistan, utilizza già le tecnologie di montaggio digitale per creare un’immagine impossibile ma inquietante di verità.

La scala monumentale delle sue opere partecipa anch’essa a questa strategia di interrogazione. Adottando le dimensioni tradizionalmente riservate alla pittura storica, Wall conferisce alle sue scene quotidiane una dignità artistica senza precedenti. Come nota il critico Russell Ferguson, questa messa in scala “permette alle immagini di Wall di funzionare come quadri autonomi piuttosto che come semplici documenti” [3]. I suoi personaggi ci si presentano a grandezza naturale, creando quella “presenza fantomatica” di cui parla l’artista, quella sensazione inquietante di essere in presenza dell’altro senza che possa risponderci. Questa messa in scala produce un effetto psicologico particolare: lo spettatore oscilla costantemente tra impegno emotivo e distanza critica, tra credenza e analisi.

La tecnica del cassonetto luminoso, presa in prestito dall’ambito pubblicitario, contribuisce a questa ambiguità fondamentale. Wall détourna i codici del consumo per metterli al servizio di una riflessione artistica, creando un corto circuito semantico che rivela i legami sotterranei tra arte e merce. Le sue trasparenze brillano della stessa luce dei pannelli pubblicitari, ma il loro contenuto resiste a ogni immediata mercificazione.

Le fotografie di Wall possiedono anche quella qualità rara: sembrano sfuggire alla loro epoca di creazione. Le sue immagini, che risalgano agli anni Ottanta o al 2020, presentano un’atemporalità inquietante che le sottrae a mode e tendenze. Questa sospensione temporale deriva da un lavoro di purificazione visiva: l’artista elimina sistematicamente gli elementi troppo datati delle sue composizioni, creando un presente eterno che può dispiegarsi in tutte le epoche. I suoi paesaggi urbani, spogliati dei loro ornamenti pubblicitari, i suoi interni con riferimenti stilistici misti, i suoi personaggi con abiti neutri, tutto concorre a creare questa impressione di universalità.

Questa estetica dell’intemporale rivela forse l’ambizione più segreta di Wall: creare immagini che sopravvivano alle circostanze della loro creazione, opere capaci di continuare a parlaci tra cinquanta o cento anni. Wall lo esprime lui stesso evocando la sua ricerca di “questa scintilla di libertà individuale che fa parte di ciò che la gente ama nell’arte” [4]. In ciò, si unisce ai grandi maestri che ammira, Velázquez, Manet, Hokusai, che sono riusciti a creare immagini abbastanza forti da resistere all’usura del tempo.

L’opera di Jeff Wall costituisce infine un tentativo notevole di riconciliazione tra tradizione e modernità, tra arte colta e cultura popolare, tra oggettività documentaria e soggettività artistica. Rifiutando le gerarchie stabilite, rivendicando la libertà dell’artista di fronte alle restrizioni del medium, Wall apre la strada a una fotografia liberata dai suoi complessi storici. Le sue immagini ci ricordano che l’arte, al suo massimo livello, conserva quel potere inquietante di rivelare aspetti nascosti della nostra realtà, di farci vedere il mondo con occhi nuovi.

Quest’uomo di Vancouver, che fotografa da diversi decenni le stesse periferie, gli stessi emarginati, gli stessi spazi di desolazione contemporanea, ci offre paradossalmente una lezione di speranza. Perché le sue immagini, nonostante la loro apparente malinconia, celebrano ostinatamente la bellezza del mondo e la dignità dell’umano. Ci ricordano che l’arte conserva questo privilegio unico di trasformare la realtà più prosaica in esperienza estetica. In ciò, Jeff Wall merita pienamente il suo posto tra i grandi immaginieri della nostra epoca.


  1. Wall, Jeff. “I begin by not photographing”, Gagosian Gallery, mostra personale, 2019.
  2. Wall, Jeff, intervista con Hans Ulrich Obrist, Hero Magazine, gennaio 2025.
  3. Ferguson, Russell, catalogo della mostra Jeff Wall, Gagosian Gallery, 2019.
  4. Wall, Jeff, intervista con David Campany, Kunsthalle Mannheim, giugno 2018.
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Riferimento/i

Jeff WALL (1946)
Nome: Jeff
Cognome: WALL
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Canada

Età: 79 anni (2025)

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