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Ji Xin: Il teatro immobile delle sognatrici

Pubblicato il: 13 Aprile 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

I dipinti di Ji Xin creano una temporalità sospesa in cui le sue enigmatiche donne fluttuano tra due mondi. I loro corpi allungati abitano spazi purificati, evocando allo stesso tempo l’architettura modernista e il teatro simbolista in una sintesi unica e meticolosa.

Ascoltatemi bene, banda di snob, i dipinti di Ji Xin sono come una schiaffo silenzioso alla nostra epoca rumorosa e assetata di sensazioni. Questo giovane artista cinese, nato nel 1988 a Jiangsu, coltiva un’estetica che sembra fluttuare tra due mondi con una sfacciataggine tranquilla. Le sue donne eteree, dalle proporzioni deliberatamente allungate, abitano interni dove il tempo si è fermato in un’attesa perpetua. Mi sfidano con la loro indifferenza aristocratica, intrappolando il mio sguardo nel loro universo di silenzio.

La prima volta che ho visto un’opera di Ji Xin, ho subito pensato a quei momenti in cui vi svegliate da un pisolino improvviso e il vostro cervello oscilla tra coscienza e sogno. Quella zona grigia in cui la realtà non ha ancora ripreso i suoi diritti. Ecco esattamente ciò che Ji Xin riesce a catturare, quell’istante sospeso, fragile come una bolla di sapone, proprio prima che scoppi.

Nella sua opera Pearls and Daffodils (2022), Ji Xin ci presenta due figure femminili identiche in una composizione a specchio di una simmetria quasi farfalla. Non è solo una piroetta formale, ma un’esplorazione profonda della dualità psichica, un tema caro al teatro simbolista. Ed è proprio questo dialogo tra il teatro simbolista e la pittura contemporanea cinese che rende il lavoro di Ji Xin così affascinante.

Il simbolismo teatrale, nato alla fine del XIX secolo, rifiutava il naturalismo per abbracciare una ricerca dell’invisibile, dell’ineffabile. Maurice Maeterlinck, nel suo saggio “Le Trésor des humbles” (1896), scriveva: “C’è un tragico quotidiano che è molto più reale, molto più profondo e molto più conforme al nostro vero essere del tragico delle grandi avventure” [1]. Questa nozione del “tragico quotidiano” impregna l’opera di Ji Xin, dove nulla accade ma tutto è carico di una tensione elettrica silenziosa.

In Ji Xin, come nelle opere di August Strindberg, lo spazio diventa un prolungamento dello stato mentale dei personaggi. I suoi interni borghesi dai toni pastello non sono semplici scenografie, ma paesaggi psichici. In The Running of Venus (2020), l’immenso trittico di Ji Xin, il vasto salone in stile art déco diventa una scena dove il dramma interiore si svolge nell’immobilità assoluta, ricordando “Il Pellicano” di Strindberg dove i non detti soffocano i protagonisti.

Ji Xin comprende, come affermava Maeterlinck, che “le parole che pronunciamo hanno senso solo grazie al silenzio in cui nuotano” [2]. Le sue donne enigmatiche, dagli sguardi persi, evocano i personaggi de “L’Intrusa” o dei “Ciechi”, che sospettano l’indicibile senza mai nominarlo. L’atmosfera dei suoi dipinti è impregnata di ciò che gli simbolisti chiamavano “il secondo dialogo”, quello che si svolge sotto le parole pronunciate, nei silenzi e nei gesti minuti.

Il dipinto Moonlight (2022) è particolarmente impressionante a questo riguardo. La luce bluastra che illumina la scena richiama quelle luci sceniche raccomandate da Adolphe Appia per creare una “musica dello spazio”. La donna seduta, sdoppiata come in uno specchio interno, sembra attendere un evento che non arriverà mai, o che è già avvenuto senza che ce ne accorgessimo, esattamente come in “L’Intrusa” di Maeterlinck.

Questa relazione con il teatro simbolista non è semplicemente una coincidenza estetica. Ji Xin attinge consapevolmente a questa tradizione per creare quelli che definirei “quadri viventi immobili”, scene congelate in cui la tensione drammatica è tanto più intensa quanto rimane irrisolta. Crea ciò che il poeta Stéphane Mallarmé chiamava “la scomparsa eloquente del poeta”, l’artista si ritira per lasciare che i simboli parlino da soli.

Il modo in cui Ji Xin utilizza gli accessori è profondamente teatrale. In White Swan (2022), il cigno bianco non è solo un animale decorativo, ma un segno polisemico che evoca simultaneamente grazia, metamorfosi e minaccia latente, proprio come gli oggetti nel teatro di Maurice Maeterlinck che diventano presagi o estensioni dell’anima dei personaggi.

Il secondo filo conduttore che osservo nell’opera di Ji Xin è il suo evidente dialogo con l’architettura della Secessione viennese e il modernismo architettonico all’inizio del XX secolo. Le sue composizioni pittoriche funzionano come spazi architettonici dove ogni elemento è al suo posto preciso in un’armonia matematica che ricorda Adolf Loos.

La Secessione viennese, quel movimento architettonico e decorativo fiorito al volgere del XX secolo, proponeva un’estetica in cui la linea pura dominava, dove il bianco prevaleva come espressione di una nuova modernità. Non è un caso che le opere recenti di Ji Xin adottino proprio questa palette pulita e queste linee verticali che richiamano il Palazzo della Secessione progettato da Joseph Maria Olbrich.

Otto Wagner scriveva nel 1896 in “Architettura moderna” che “solo ciò che è pratico può essere bello” [3]. Ji Xin sembra aver assimilato questa lezione eliminando progressivamente dai suoi dipinti tutto ciò che è superfluo. Le sue prime opere, più cariche di simboli e colori, hanno ceduto il posto a un’essenzialità che richiama l’evoluzione dell’architettura viennese verso il funzionalismo.

In Ripples (2022), le linee verticali che strutturano lo sfondo evocano direttamente le facciate degli edifici di Adolf Loos, come la celebre casa Steiner (1910), un’architettura che rifiutava l’ornamento per conservare solo l’essenziale. È questo stesso principio che guida Ji Xin nella sua ricerca formale: una riduzione agli elementi indispensabili alla creazione del senso.

Il rapporto di Ji Xin con lo spazio pittorico è profondamente architettonico. I suoi dipinti non sono semplicemente rappresentazioni di ambienti, ma costruzioni spaziali che obbediscono a principi strutturali rigorosi. Come diceva Ludwig Mies van der Rohe, altro erede della tradizione viennese: “L’architettura inizia quando si assemblano accuratamente due mattoni” [4]. Ji Xin assembla i suoi elementi pittorici con la stessa precisione meticolosa di un architetto.

Gli interni rappresentati in opere come Dawn (2021) ricordano quegli spazi modernisti dove la luce diventa un materiale architettonico a sé stante. Il critico d’architettura Joseph Rykwert osservava che negli edifici di Loos “la luce è trattata come una sostanza tangibile” [5]. In Ji Xin, questa luce strutturante diventa il vero soggetto di molte composizioni.

Ancora più sorprendente è il modo in cui Ji Xin integra nel suo lavoro la nozione viennese di “Raumplan” sviluppata da Adolf Loos, questa concezione dello spazio come un insieme di volumi incastrati di diverse altezze. Nei suoi dipinti come Day Dream (2022), crea una spazialità complessa dove i piani si interpenetrano, creando una profondità che sfida la planarità della tela.

L’influenza di questa architettura si percepisce anche nella scultura White Dwarf (2023) di Ji Xin, dove la verticalità dominante e la superficie bianca immacolata richiamano direttamente i principi estetici di Josef Hoffmann, altra figura di rilievo della Secessione viennese. Questa opera testimonia una profonda comprensione dell’equilibrio tra volume e vuoto che cercavano gli architetti modernisti.

Attraverso le sue recenti esplorazioni nella scultura, Ji Xin prosegue il suo dialogo con l’architettura modernista. Per citare le parole dell’architetto austriaco Bernard Rudofsky: “L’architettura non è solo una questione di tecnologia ed estetica, ma il quadro della vita umana” [6]. Ji Xin, a modo suo, crea cornici visive che interrogano il nostro rapporto con lo spazio e il tempo.

Ciò che rende Ji Xin così interessante nel panorama artistico contemporaneo è la sua capacità di navigare tra queste influenze occidentali sofisticate e il suo patrimonio culturale cinese, in particolare le pitture di corte della dinastia Qing e i manifesti pubblicitari “Yuefenpai” (月份牌) di Shanghai degli anni 1920-1930. Questa sintesi non è un semplice esercizio di stile, ma un’esplorazione autentica di cosa significhi essere un artista cinese contemporaneo in un mondo globalizzato.

Le donne di Ji Xin possono sembrare fluttuare in uno spazio-tempo indeterminato, ma sono radicate in una ricerca molto concreta: come può la bellezza avere ancora un senso oggi? Come può l’arte figurativa sfuggire sia alla trappola della nostalgia vuota sia a quella di un contemporaneo sterile?

La sua risposta è questa strana temporalità sospesa dove passato e presente coesistono in una tensione fruttuosa. I suoi dipinti non sono dei pastiche, ma delle reinvenzioni. Non sono nostalgici, ma meditativi. Non sono pastorali, ma urbani nella loro sensibilità.

Devo ammetterlo, anche se mi fa male: Ji Xin fa parte di quegli artisti fastidiosi che riescono a creare qualcosa di nuovo attingendo all’antico. In un mercato saturo di artisti che si credono rivoluzionari ripetendo gli stessi gesti vuoti da sessant’anni, Ji Xin ci ricorda che il vero coraggio può talvolta risiedere nella calma, nella lentezza e nella contemplazione.

Allora sì, banda di snob frettolosi, a volte bisogna saper fermarsi davanti a dipinti che non vi urlano contro per attirare la vostra attenzione. A volte bisogna accettare di essere delusi dalla mancanza di spettacolo, per scoprire che esiste un’altra forma di intensità, quella del silenzio vibrante, quella dell’attesa senza oggetto, quella del teatro senza azione di Maeterlinck o degli spazi purificati di Adolf Loos.

Ji Xin non è un artista che vi seduce al primo sguardo. Vi attrae progressivamente nel suo universo, come quegli edifici della Secessione viennese che rivelano la loro bellezza sottile solo a chi si prende il tempo di osservarli veramente. E forse questa è la sua più grande conquista: in un mondo dell’arte contemporanea spesso chiassoso e istantaneo, osa creare opere che richiedono tempo, quel lusso che tutti noi abbiamo perso.


  1. Maeterlinck, Maurice. “Il tesoro degli umili”, Mercure de France, Parigi, 1896.
  2. Maeterlinck, Maurice. “Il silenzio”, in “Il tesoro degli umili”, Mercure de France, Parigi, 1896.
  3. Wagner, Otto. “Architettura moderna”, Librairie d’Architecture et d’Art décoratif, Vienna, 1896.
  4. Mies van der Rohe, Ludwig. Discorso di insediamento come direttore del dipartimento di architettura all’Armour Institute of Technology, 1938.
  5. Rykwert, Joseph. “Adolf Loos: La nuova visione”, Studio International, Vol. 186, No. 957, 1973.
  6. Rudofsky, Bernard. “Architettura senza architetti: Una breve introduzione all’architettura non di pedigree”, MoMA, New York, 1964, introduzione.
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Riferimento/i

JI Xin (1988)
Nome: Xin
Cognome: JI
Altri nome/i:

  • 季鑫 (Cinese semplificato)

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Cina

Età: 37 anni (2025)

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