English | Italiano

Martedì 18 Novembre

ArtCritic favicon

Jitish Kallat: Il funambolo del tempo e dello spazio

Pubblicato il: 3 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 5 minuti

Nella sua opera monumentale, Jitish Kallat trasforma Mumbai in un cosmo vertiginoso, volteggiando tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Le sue installazioni non sono fatte per impressionare, ma per confrontarci con la nostra temporalità frammentata, trasformando il banale in straordinario.

Ascoltatemi bene, banda di snob, la prima volta che ho scoperto il lavoro di Jitish Kallat (nato nel 1974 a Mumbai), stavo per soffocare con il mio croissant al burro in un caffè parigino. Non perché la sua arte sia indigesta, anzi. È solo che alcuni artisti hanno il potere di scuotere i neuroni fin dalla colazione, facendoti sputare il tuo comfort intellettuale come un cattivo caffè. Kallat è uno di questi.

Fermiamoci prima sul suo modo di maltrattare il tempo, di torcerlo come uno straccio vecchio consumato finché non ci rivela i suoi segreti più intimi. Nella sua serie “Public Notice”, non esita a evocare i fantasmi di Gandhi e Nehru, non per una seduta spiritica a buon mercato, ma per ficcarci il naso nella nostra ipocrisia contemporanea. Prendete “Public Notice 2” (2007): 4479 ossa in fibra di vetro che formano le parole del discorso di Gandhi sulla non-violenza. Un colpo geniale concettuale che avrebbe fatto piangere di gioia Walter Benjamin. L’aura dell’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica? Kallat la reinventa trasformando un discorso storico in una reliquia contemporanea. Non ricicla la Storia, la resuscita, la fa oscillare tra passato e presente come un funambolo ubriaco sul suo filo.

Ma non è tutto. Guardate come tratta Mumbai, la sua città natale. Non come una cartolina esotica per turisti in cerca di spiritualità, ma come un organismo vivente, pulsante, divorante. Nelle sue opere, la metropoli indiana diventa un mostro kafkiano, una creatura che si trasforma continuamente tra urbanità frenetica e cosmo vertiginoso. Le sue serie fotografiche catturano questa tensione con precisione chirurgica. Le strade brulicanti di vita si trasformano in costellazioni urbane, ogni venditore ambulante diventa una stella nella propria galassia di sopravvivenza quotidiana.

E parliamo di questa ossessione per il cosmico! Kallat giostra tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo con la disinvoltura di un fisico quantistico sotto acidi. In “Epilogue” (2010-2011), trasforma 22 889 lune in rotis, queste focacce di pane indiane. Un’opera che avrebbe fatto sorridere Hegel: la dialettica del quotidiano e dell’eterno, servita su un vassoio d’argento concettuale. Ma attenzione, niente misticismo new age qui. Kallat resta ancorato al reale, anche quando ci fa viaggiare tra le stelle.

La forza di Kallat è che non si limita mai a essere semplicemente “contemporaneo”. Scava più a fondo, come un archeologo del presente che scopre che ogni istante è in realtà una sovrapposizione di migliaia di altri momenti. Le sue installazioni monumentali non sono lì per impressionare i collezionisti in pensione, ma per confrontarci con la nostra temporalità frammentata. È un Jacques Derrida in tre dimensioni, una decostruzione che non si nasconde dietro un gergo accademico pomposo.

E non parliamo nemmeno della sua maestria tecnica. Quando Kallat usa video, fotografia o scultura, non lo fa per abbellire un catalogo di vendita. Ogni medium è scelto con la precisione di un cecchino filosofico. Prendete “Wind Study” (2017): disegni creati con il fuoco e modellati dal vento. Una performance che trasforma gli elementi naturali in collaboratori artistici. Persino Yves Klein, con le sue antropometrie, non aveva spinto il limite così lontano.

Ma ciò che amo di più in Kallat è che trasforma il banale in straordinario senza mai cadere nello spettacolare gratuito. Le sue opere sono come koan zen che ti esplodono in faccia quando meno te lo aspetti. In “Forensic Trail of the Grand Banquet” (2009), delle semplici radiografie di alimenti diventano mappe galattiche. È Friedrich Nietzsche che incontra Carl Sagan in una cucina di Mumbai.

E mentre alcuni artisti contemporanei si consumano inseguendo le tendenze come adolescenti dietro al loro ultimo crush su Instagram, Kallat costruisce pazientemente un’opera che trascende la moda. Non cerca di piacere, cerca di dare senso. In un mondo dell’arte contemporanea spesso più preoccupato dai numeri delle vendite che dalla sostanza, è quasi rivoluzionario.

Il suo modo di affrontare le questioni sociali e politiche è tanto sottile quanto incisivo. Non c’è bisogno di striscioni o slogan urlati, Kallat preferisce farci riflettere attraverso metafore visive sofisticate. “Anger at the Speed of Fright” (2010), con le sue minuscole figurine di manifestanti congelate nella violenza, è una meditazione gelida sulla nostra epoca di conflitti perpetui. È Hannah Arendt che incontra Hieronymus Bosch in una manifestazione di strada.

E non fatemi iniziare sulla sua serie “Chlorophyll Park” dove sostituisce l’asfalto delle strade con l’erba del grano. Non è un semplice commento ecologico per compiacere i bohemien in cerca di verde urbano. È una riflessione profonda sul nostro rapporto con la natura, con l’urbanizzazione, con la sopravvivenza stessa. Theodor Adorno avrebbe applaudito con entrambe le mani davanti a questa sottile critica del nostro “monde administré”.

Ciò che è affascinante è che Kallat riesce a essere profondamente indiano senza mai cadere nell’esotismo di pacotiglia. Usa il suo contesto culturale come trampolino verso l’universale, non come cartolina per turisti in cerca di autenticità. I suoi riferimenti alle tradizioni filosofiche indiane non sono mai gratuiti, servono sempre a un discorso più ampio, più ambizioso.

I critici superficiali potrebbero dire che il suo lavoro è troppo intellettuale, troppo concettuale. Ma è proprio questa la sua forza: Kallat non ci fa sconti, ci chiede un impegno totale, una riflessione attiva. Non ci serve l’arte su un piatto d’argento con un cucchiaino di plastica. No, ci costringe a masticare, digerire e metabolizzare le sue opere.

In un mondo dell’arte contemporanea spesso dominato dallo spettacolare vuoto e dal concettuale vuoto, Kallat è come un antidoto necessario. Ci ricorda che l’arte può ancora essere allo stesso tempo stimolante intellettualmente e potente visivamente, politicamente impegnata e poeticamente sottile. La sua opera è una prova vivente che la complessità non è nemica dell’accessibilità, che la profondità non esclude la chiarezza.

Quindi sì, alcuni continueranno a preferire l’arte facile, quella che non disturba troppo le certezze e non sconvolge troppo le abitudini. Ma per chi ancora cerca nell’arte contemporanea quella scintilla che fa vibrare la mente e tremare le convinzioni, Kallat è un artista indispensabile. È uno di quelli che dimostrano che l’arte contemporanea non è morta, che può ancora parlarci, emozionarci, trasformarci.

L’opera di Kallat è come uno specchio complesso teso alla nostra epoca. Uno specchio che non si limita a riflettere, ma che deforma, trasforma e rivela. In questo specchio vediamo non solo chi siamo, ma anche cosa potremmo essere. E non è forse questa la più alta ambizione dell’arte?

E se non siete d’accordo con me, beh, tornate pure alle vostre riproduzioni di Van Gogh in poster plastificato. Io preferisco perdermi nelle costellazioni urbane e nelle galassie concettuali di Kallat. Almeno lì imparo qualcosa sul nostro mondo, sul nostro tempo, su noi stessi.

Was this helpful?
0/400

Riferimento/i

Jitish KALLAT (1974)
Nome: Jitish
Cognome: KALLAT
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • India

Età: 51 anni (2025)

Seguimi