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John Haverty: Specchio della nostra follia collettiva

Pubblicato il: 15 Maggio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 12 minuti

John Haverty trasforma penne a sfera e acquerelli in armi di critica sociale. Attraverso i suoi immensi collage colorati e dettagliati, l’artista sviscera con mordacità le patologie della nostra società contemporanea, creando universi fantastici che funzionano come specchi deformanti della nostra realtà.

Ascoltatemi bene, banda di snob. So che vi piace passeggiare per le gallerie sorseggiando champagne e facendo finta di capire ciò che osservate. Ma oggi parleremo di qualcuno che merita davvero la vostra attenzione: John Haverty.

Questo nativo di Boston nato nel 1986 e vincitore del prestigioso Luxembourg Art Prize nel 2016 non è il vostro artista standard che dipinge bei paesaggi per decorare il vostro appartamento borghese. No. Haverty è un creatore di universi affascinanti, un esploratore degli angoli più oscuri della nostra società, armato non di una machete ma di una penna a sfera e acquerelli.

Il lavoro di Haverty è un equilibrio precario tra bellezza e ripulsione. Utilizzando tecniche tradizionali come l’acquerello e la penna a sfera su carta, crea mondi fantastici abitati da creature ibride che sembrano emergere dagli incubi collettivi della nostra epoca. Le sue composizioni dense, colorate e sovraccariche di dettagli minuti richiedono un’attenzione costante. Ogni centimetro quadrato racconta una storia diversa, come una serie di mini-romanzi visivi interconnessi.

Ciò che distingue davvero Haverty è il suo metodo di creazione. Pilota per American Airlines, spesso lavora nelle sale di riposo degli aeroporti e nelle camere d’albergo. Questa esistenza nomade lo ha portato a sviluppare un approccio unico: ritaglia i suoi disegni e li incolla su vinile per creare collage evolutivi che possono essere riorganizzati all’infinito. La sua opera “Gangrene” è letteralmente un’infezione artistica che si diffonde e divora lo spazio circostante.

Il titolo “Gangrene” non è scelto a caso. Come l’infezione che divora la carne se non trattata, Haverty ci mostra una società corrotta dalla sovrappopolazione, dal consumo eccessivo, dall’inquinamento e dalle guerre. Ci ricorda che se lasciamo questi problemi senza controllo, inevitabilmente ci distruggeranno. È un avvertimento visivo, un grido d’allarme mascherato da festa per gli occhi.

Questa visione apocalittica ricorda i dipinti di Hieronymus Bosch, uno degli artisti che influenzano Haverty. Ma mentre Bosch era ossessionato dal peccato e dalla dannazione in un contesto religioso medievale, Haverty trasporta queste preoccupazioni alla nostra epoca contemporanea e alle sue ansie specifiche: la globalizzazione, l’impatto umano sull’ambiente, il caos politico.

La densità grafica delle sue opere rientra nell’horror vacui, questa paura del vuoto che spinge a riempire ogni spazio disponibile. Questo approccio visivo è particolarmente pertinente nella nostra epoca di sovraccarico informativo, in cui i nostri cervelli sono costantemente bombardati da stimoli. Haverty non concede alcuna tregua visiva, nessuno spazio per respirare. Ci costringe ad assorbire tutto, come siamo costretti ad assorbire il flusso costante di informazioni allarmanti della nostra vita mediatica quotidiana.

Prendiamo un momento per esaminare il suo processo creativo. “Lavoro meglio lasciando il mio subconscio vagare e manifestarsi liberamente”, spiega. “Le penne servono da scopa per illustrare il mio processo di pensiero. I risultati sono spesso racconti ambigui che sono familiari, ma molto esagerati [1]“. Questo metodo spontaneo e diretto produce opere che sembrano allo stesso tempo pianificate e caotiche, come se fossero evolute organicamente piuttosto che costruite coscientemente.

L’aspetto satirico del suo lavoro è essenziale per comprenderne la portata. Haverty non è solo un illustratore fantastico che crea mondi immaginari per il nostro piacere estetico. Usa questi mondi come uno specchio deformante che riflette la nostra realtà. Le sue esagerazioni visive aiutano a costruire “un paese delle meraviglie che irradia paranoia”, come lo descrive lui stesso.

Ciò che mi colpisce particolarmente nei suoi collage è il loro aspetto temporale. Ogni sezione è un “dipinto da strada”, nato in un ambiente diverso e che cattura un momento specifico. L’insieme forma una specie di diario visivo, un catalogo di pensieri in continua evoluzione. Questa dimensione diacronica aggiunge una profondità ulteriore al suo lavoro: non stiamo guardando solo un’immagine statica, ma un accumulo di esperienze e riflessioni.

Haverty si inserisce in una tradizione di artisti che utilizzano l’arte come strumento di critica sociale. Ma lo fa con una freschezza e un’originalità indiscutibili. Il suo lavoro ci ricorda stranamente le incisioni di Francisco de Goya, in particolare la sua serie “Los Caprichos”. Come Goya, Haverty usa l’esagerazione e l’assurdo per esporre le follie della società. Ma mentre Goya lavorava in bianco e nero, Haverty ci inonda in un diluvio di colori vivaci.

Questi paralleli con Goya non sono casuali. I due artisti condividono una preoccupazione fondamentale per gli eccessi e le assurdità della loro epoca rispettiva. I “Caprichos” di Goya, con la loro celebre incisione “Il sonno della ragione genera mostri”, trovano eco nel lavoro di Haverty. Le sue creature fantastiche sembrano anch’esse nate da un sonno collettivo della ragione, da una società che ha cessato di essere vigile di fronte ai pericoli che la minacciano.

La dimensione politica del lavoro di Haverty è particolarmente significativa nella nostra epoca di estrema polarizzazione. Le sue opere “gettano uno sguardo critico sulla china scivolosa sulla quale noi, come società, scivoliamo comodamente [2]“. Egli si pone la domanda: fin dove è troppo lontano? A quale momento i problemi che ignoriamo diventeranno insormontabili?

È proprio questa domanda che conferisce al suo lavoro un’urgenza particolare. In una cultura dell’attenzione sempre più frammentata, dove i problemi sistemici sono sommersi in un flusso di informazioni banali, Haverty usa il sovraccarico visivo come strategia per catturare e mantenere la nostra attenzione. Comprende che nel nostro mondo iperconnesso, l’attenzione è diventata una merce rara e preziosa.

Questa strategia ricorda le teorie di Herbert Marcuse sulla “desublimazione repressiva”, quel processo per cui la cultura dominante assorbe e neutralizza la critica trasformandola in intrattenimento. Haverty sembra consapevole di questa trappola e la evita abilmente. Le sue opere sono indiscutibilmente seducenti dal punto di vista estetico, ma questa bellezza serve ad attirare in una confrontazione con verità scomodamente inquietanti.

Marcuse, figura centrale della Scuola di Francoforte, proponeva che la vera arte dovesse mantenere una distanza critica rispetto alla società che critica. Questa distanziazione permette all’arte di preservare il suo potenziale utopico, la capacità di immaginare alternative allo status quo. Il lavoro di Haverty incarna perfettamente questa tensione produttiva: ci mostra il nostro mondo, ma trasformato da un’immaginazione che rifiuta i vincoli del “realismo” convenzionale.

Nel suo saggio “La Dimensione estetica”, Marcuse scrive che l’arte autentica “rompe con la coscienza dominante, rivoluziona l’esperienza [3]“. I collage di Haverty operano proprio questa rottura. Ci strappano alla nostra percezione abituale del mondo e ci costringono a vederlo sotto una nuova e inquietante angolazione. Questa funzione dell’arte è particolarmente importante in un’epoca in cui la realtà stessa sembra sempre più assurda e irrazionale.

Marcuse vedeva nell’arte un rifugio per la “negatività”, per il rifiuto di accontentarsi di un mondo ingiusto. Le opere di Haverty incarnano questa negatività, non in senso nichilista, ma come una forma di resistenza critica. Esse dicono “no” allo status quo, rifiutano di accettare come normale ciò che è fondamentalmente patologico nella nostra organizzazione sociale e nel nostro rapporto con l’ambiente.

Questa dimensione politica è inseparabile dalla forma stessa che assume la sua arte. La scelta del collage come medium principale non è casuale. Il collage, con la sua giustapposizione di elementi disparati forzati in una nuova unità, riflette la natura frammentata della nostra esperienza contemporanea. Permette anche una forma di crescita organica che imita lo sviluppo canceroso dei problemi sociali che Haverty cerca di mettere in luce.

L’aspetto evolutivo delle sue opere è particolarmente significativo. “Gangrene” non è mai veramente terminata; continua a crescere, a espandersi, a divorare più spazio. Questa qualità processuale risuona con la nozione marcusiana che l’arte vera deve resistere alla chiusura, alla finalità, mantenendo aperta la possibilità di un futuro diverso. Le opere di Haverty sono in perpetuo divenire, proprio come la nostra realtà sociale è costantemente in flusso.

Un altro aspetto interessante del lavoro di Haverty è il suo rapporto con il tempo e lo spazio. Create in gran parte negli aeroporti e negli hotel, le sue opere sono letteralmente prodotte in questi “non-luoghi” che l’antropologo Marc Augé definisce come spazi di transito, caratterizzati dalla solitudine e dalla somiglianza. Questi spazi senza identità diventano paradossalmente i punti di ancoraggio di una creatività nomade che trascende i confini geografici.

Questa dimensione nomade si riflette nel contenuto stesso delle sue opere, che affrontano problemi globali piuttosto che locali. Haverty è un artista veramente cosmopolita, non nel senso elitario del termine, ma come qualcuno che percepisce il mondo come un sistema interconnesso dove le azioni locali hanno conseguenze globali.

Torniamo ora alla specificità visiva del suo lavoro. L’uso che fa del colore è particolarmente notevole. A differenza di molti artisti che trattano temi oscuri con una palette scura, Haverty utilizza colori vividi e saturi. Questo contrasto tra il contenuto inquietante e lo splendore visivo crea una tensione produttiva che amplifica l’impatto delle sue opere. È come se la gangrena che rappresenta fosse paradossalmente piena di vita, brulicante di attività proprio mentre segnala la morte.

Questo approccio mi ricorda i film di Wes Anderson, con la loro estetica curata e colorata che spesso svolge il ruolo di contrappunto a temi di malinconia, perdita e inadeguatezza sociale. Come Anderson, Haverty capisce che la bellezza può essere un veicolo potente per verità scomode. La seduzione estetica ci attira in uno spazio in cui siamo più propensi a confrontarci con ciò che preferiremmo ignorare.

Il paragone con il cinema non è casuale. Le opere di Haverty hanno una qualità cinematografica innegabile. I suoi vasti collage invitano lo sguardo a muoversi, a seguire micro-narrazioni, a scoprire connessioni inattese tra sezioni diverse. Come un regista, guida la nostra attenzione attraverso un paesaggio visivo complesso, utilizzando la composizione per creare momenti di tensione e rilassamento.

Questa dimensione narrativa è fondamentale nel suo lavoro. Nonostante l’apparente frammentazione, c’è una coerenza sottostante, un filo conduttore che collega gli elementi disparati. Non è una narrazione lineare, ma piuttosto una rete di associazioni e risonanze che invita lo spettatore a costruire il proprio percorso interpretativo.

Questa apertura interpretativa è una delle grandi forze della sua arte. Haverty non ci impone una lettura unica delle sue opere. Crea uno spazio di riflessione dove le nostre preoccupazioni e prospettive possono entrare in dialogo con la sua visione. È un’arte che ci coinvolge attivamente piuttosto che ridurci a consumatori passivi.

Questa qualità partecipativa è particolarmente preziosa nella nostra epoca di consumo culturale accelerato. In un mondo in cui l’arte è spesso ridotta a immagini Instagram consumate in pochi secondi prima di essere scorse verso l’alto, il lavoro di Haverty richiede e premia un impegno prolungato. Non si può “consumare” un suo pezzo con uno sguardo rapido; esso richiede che vi dedichiate del tempo, che esploriate i suoi dettagli, che vi lasciate assorbire dal suo universo.

In questo senso, il suo lavoro rappresenta una forma di resistenza all’accelerazione culturale contemporanea. Nel suo libro “Accelerazione”, il sociologo Hartmut Rosa analizza come il nostro rapporto col tempo sia stato trasformato radicalmente dalla modernità tardiva, creando una sensazione perpetua di mancanza di tempo [4]. L’arte di Haverty ci invita a rallentare, a prenderci il tempo necessario per una vera contemplazione.

Rosa suggerisce che l’accelerazione costante del nostro ritmo di vita porta a una forma di alienazione, una perdita di relazione significativa col mondo. Le opere di Haverty, con la loro densità di dettagli che richiede un’attenzione prolungata, creano ciò che Rosa chiamerebbe un momento di “risonanza”, un’esperienza in cui entriamo in una relazione più profonda e autentica con il nostro ambiente.

Questa capacità di creare momenti di risonanza in un mondo caratterizzato da alienazione e disconnessione è una delle funzioni più importanti dell’arte contemporanea. Il lavoro di Haverty non ci offre solo una critica sociale, ma anche uno spazio alternativo dove possiamo rallentare, contemplare e forse riscoprire una forma di impegno più significativa col mondo.

È interessante notare che Haverty stesso vive in questa tensione tra accelerazione e contemplazione. La sua doppia vita come dipendente di American Airlines e artista incarna questa contraddizione moderna. Da un lato, partecipa a una delle industrie più emblematiche della compressione spazio-temporale che caratterizza la globalizzazione. Dall’altro, crea opere che richiedono proprio il tipo di attenzione lenta e sostenuta che questa compressione tende a erodere.

Questa tensione produttiva informa tutta la sua opera. I suoi collage sono allo stesso tempo prodotti della globalizzazione (creati negli aeroporti e negli hotel di tutto il mondo) e commenti critici sulle sue conseguenze. Incarnano la contraddizione centrale del nostro tempo: siamo contemporaneamente beneficiari e vittime delle forze che abbiamo liberato.

Il fatto che Haverty utilizzi medium tradizionali come l’acquerello e la penna a sfera anziché tecniche digitali è inoltre significativo. In un mondo sempre più virtuale, c’è qualcosa di fondamentalmente tattile e fisico nel suo processo creativo. Questa materialità radicata forma un controcanto interessante alla fluidità e all’effimero delle immagini digitali che dominano il nostro paesaggio visivo quotidiano.

Questa preferenza per i medium tradizionali non è un semplice conservatorismo artistico. Riflette piuttosto una consapevolezza acuta delle qualità specifiche offerte da questi medium. L’acquerello, con la sua fluidità e relativa imprevedibilità, permette una forma di dialogo tra l’intenzione dell’artista e le proprietà del materiale. La penna a sfera, strumento umile della vita quotidiana, diventa nelle sue mani uno strumento di precisione capace di creare dettagli microscopici.

Questa alchimia del banale, questa capacità di trasformare materiali ordinari in visioni straordinarie, è al cuore della pratica di Haverty. Essa testimonia un’inventiva che rifiuta di lasciarsi vincolare dai limiti apparenti dei suoi strumenti. È una lezione che faremmo bene ad applicare alla nostra stessa relazione con un mondo che spesso sembra imporci le sue costrizioni come fatalità.

Il lavoro di John Haverty ci invita a una forma di lucidità coraggiosa. Ci chiede di affrontare le mostruosità che abbiamo creato collettivamente, non per cadere nella disperazione, ma per ricordarci della nostra capacità d’azione. Le sue opere ci mostrano che anche di fronte all’orrore conserviamo la nostra facoltà di stupore. Forse questa è la più grande riuscita di Haverty: creare un’arte che riconosce pienamente la gravità della nostra situazione pur riaffermando il valore dell’immaginazione come forza di resistenza e trasformazione. In un mondo dove l’immaginazione è sempre più colonizzata dalle forze del mercato, questa riaffermazione non è solo esteticamente potente, ma anche politicamente necessaria.

Quindi la prossima volta che vedrete un’opera di John Haverty, prendetevi il tempo di immergervi davvero. Lasciatevi disorientare, turbate, forse anche disturbare dai suoi mondi fantastici. Perché è proprio in questo turbamento, in questa perturbazione delle nostre percezioni abituali, che risiede la possibilità di un risveglio, di una presa di coscienza che potrebbe essere il primo passo verso un rapporto più lucido e più responsabile con il nostro mondo in crisi.


  1. Haverty, John. “Dichiarazione dell’artista”, New American Paintings, MFA Annual, Numero #117, 2015.
  2. Haverty, John. “Horror Vacui”, New American Paintings, 2015.
  3. Marcuse, Herbert. La dimensione estetica: Per una critica dell’estetica marxista, Éditions de Minuit, 1979.
  4. Rosa, Hartmut. Accelerazione: Una critica sociale del tempo, La Découverte, 2010.
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Riferimento/i

John HAVERTY (1986)
Nome: John
Cognome: HAVERTY
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 39 anni (2025)

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