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Jonathan Gardner: Frammenti di donne

Pubblicato il: 11 Maggio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Jonathan Gardner è un pittore americano che crea quadri che rappresentano donne in interni stilizzati. Il suo stile distintivo mescola riferimenti modernisti (Picasso, Matisse) e estetica contemporanea, con colori vivaci e composizioni geometriche. Le sue opere esplorano solitudine, intimità e percezione attraverso scene domestiche stranamente sospese nel tempo.

Ascoltatemi bene, banda di snob, Jonathan Gardner dipinge come si prende un bagno di sole a novembre: con una nonchalance studiata che sfiora l’insolenza. Voi che pensate di aver già visto tutto nell’arte contemporanea, ecco un artista che gioca con la storia dell’arte come un bambino con i cubi da costruzione, tranne che le sue torri non crollano mai. Gardner trasforma ogni tela in una partitura di jazz visivo dove le donne diventano note, gli interni accordi, e l’insieme una sinfonia di superfici piatte che vi scuote con eleganza.

Nel suo studio newyorkese, Gardner orchestra mise en scène dove il tempo si è fermato da qualche parte tra un salone di parrucchieri degli anni ’20 e un motel di David Lynch. Le figure femminili che dispiega sono sia presenti che assenti, come manichini di vetrina che avessero imparato a sognare. Fumano, leggono, si crogiolano in interni che sembrano usciti da un catalogo IKEA rivisto da Giorgio de Chirico. È teatro dell’assurdo dipinto con la precisione di un orologiaio svizzero sotto acidi.

La psicoanalisi lacaniana si inserisce in questi dipinti come un ospite inatteso a una garden party. Gli specchi da Gardner non riflettono la realtà, ma la frammentano, la distorcono, la ricostruiscono secondo una logica che farebbe impallidire lo stesso Jacques Lacan. In “In the Mirror” (2016), due donne quasi identiche si guardano senza vedersi davvero, una che tiene un telefono come un’arma, l’altra nuda su un tappeto persiano. Lo specchio diventa quello “stadio” lacaniano dove il soggetto si costituisce nella propria alienazione. Questi doppi femminili incarnano questa divisione fondamentale del soggetto tra la sua immagine ideale e il suo essere corporeo. Il telefono non è un semplice accessorio ma un oggetto transizionale che segna la distanza tra il io e l’Altro, tra il parlare e il silenzio. Gardner comprende intuitivamente che l’identità è solo una costruzione fragile, un gioco di riflessi dove il desiderio circola senza mai trovare il suo oggetto.

Questa ossessione per i doppi e i riflessi attraversa tutta l’opera di Gardner come un sintomo che chiede solo di essere interpretato. Le donne che dipinge sono sempre alla ricerca di sé stesse in specchi che restituiscono solo frammenti di loro stesse. È la misconoscenza lacaniana allo stato puro: queste figure credono di riconoscersi nel loro riflesso ma colgono solo un’immagine alienante. Lo sguardo dello spettatore diventa complice di questa messa in scena dell’inconscio dove ogni dettaglio è un significante che rimanda a un altro significante, in una catena senza fine. Gardner non dipinge donne, dipinge il desiderio di dipingere donne, e questa sfumatura fa tutta la differenza.

Virginia Woolf avrebbe adorato questi interni dove le donne sembrano fluttuare nella propria coscienza come pesci in un acquario. Come in “To the Lighthouse”, i personaggi di Gardner abitano spazi mentali più che fisici, dove il tempo scorre diversamente. Queste donne che leggono, che fumano, che contemplano il vuoto ricordano Mrs. Dalloway che organizza la sua ricezione mentre naviga nei meandri della sua memoria. Gardner cattura quello che Woolf chiamava “i momenti d’essere”, quegli attimi sospesi dove la coscienza affiora alla superficie della quotidianità.

Gli interni di Gardner sono flussi di coscienza visivi dove gli oggetti diventano pensieri e i colori emozioni. Come in Woolf, la narrazione è frammentata, non lineare, ogni quadro offre una prospettiva diversa sullo stesso momento psicologico. I motivi ripetitivi, le forme geometriche funzionano come le frasi ricorrenti nei romanzi di Woolf, creando un ritmo ipnotico che trascina lo spettatore in una meditazione sul tempo e sulla percezione. Le donne di Gardner sembrano tutte avere “una stanza tutta per sé”, ma queste stanze sono prigioni dorate dove sono allo stesso tempo soggetto e oggetto della propria contemplazione.

Ciò che mi interessa in Gardner è il modo in cui trasforma ogni scena domestica in un teatro metafisico. In “The Model” (2016), una donna posa per un pittore invisibile, creando una messa in abisso vertiginosa dove il quadro che guardiamo contiene il quadro in fase di realizzazione. È come Velázquez ripreso da un millennial che ha guardato troppo Instagram.

La tecnica di Gardner è impeccabile, quasi fastidiosa nella sua perfezione. I suoi campi di colore sono così lisci che sembrano schermi di smartphone, i suoi contorni così netti da poter tagliare il vetro. Ma questa freddezza apparente nasconde una sensualità ambigua, come quelle donne che fumano le loro sigarette con un’indifferenza studiata. Il paradosso di Gardner è che dipinge l’intimità con la distanza di un chirurgo e la passione con la precisione di un contabile.

“Bather with Yellow Towel” (2016) ci mostra una bagnante che somiglia a una statuina egizia passata al microonde. I piedi sono posizionati secondo i canoni dell’arte antica, ma il corpo è contorto in una posa che sfida le leggi dell’anatomia. È Ingres sotto LSD, Gauguin che avrebbe fatto uno stage alla Apple. Gardner non cerca di rappresentare il reale ma di riorganizzarlo secondo la propria grammatica visiva.

L’artista trasforma ogni tela in un puzzle sofisticato in cui gli elementi si incastrano con una precisione maniacale. In “Zig Zag” (2014), tre donne si rilassano su un tappeto azzurro cielo, una topless, un’altra senza mutandine, la terza che fuma la sua sigaretta come se niente fosse. È una scena di spiaggia trasposta in un salotto, o forse il contrario. Gardner confonde le piste con una evidente gioia.

Ciò che è notevole in Gardner è la sua capacità di far coesistere l’erotismo e la distanza, la sensualità e l’astrazione. I suoi nudi non sono mai davvero nudi, sempre vestiti da uno strato di pittura che li rende intoccabili. È un’arte che ti guarda più di quanto si lascia guardare, che ti interroga sulla tua posizione di voyeur.

Le influenze di Gardner sono un “who’s who” dell’arte moderna: Picasso, Matisse, Léger, Magritte [1]. Ma contrariamente a molti artisti contemporanei che citano i loro maestri come si cita Wikipedia, Gardner assimila le sue influenze fino a renderle irriconoscibili. Non fa pastiche, fa alchimia. La sua arte è una conversazione con la storia, non una lezione di storia.

In “Desert Wind” (2019), una chitarrista solitaria suona per un pubblico invisibile, posizionata in modo decentrato con un orizzonte storto sullo sfondo. È Edward Hopper rivisto da qualcuno cresciuto con The Sims. Gardner eccelle in questa arte della solitudine popolata, dove i personaggi sembrano sempre altrove anche quando sono presenti.

L’artista stesso resta misterioso, quasi invisibile dietro la sua opera. Nato nel 1982 nel Kentucky, formato a Chicago sotto la guida di Jim Nutt, membro del movimento Chicago Imagists [2], Gardner appartiene a quella generazione di artisti cresciuta con Internet ma che dipinge come se il mondo digitale non esistesse. Il suo punto di forza è qui: usare gli strumenti più tradizionali per creare immagini decisamente contemporanee.

In “The Ballroom” (2019), sei figure condividono lo stesso spazio senza veramente incontrarsi. Ognuna è persa nei propri pensieri mentre la musica suona. È una metafora perfetta della nostra epoca: insieme ma soli, connessi ma isolati. Gardner dipinge l’alienazione moderna con i colori della felicità.

La mostra “Desert Wind” alla galleria Casey Kaplan è stata una lezione di pittura mascherata da sogno a occhi aperti. Ogni tela funzionava come un enigma visivo dove gli indizi non portavano da nessuna parte, dove le domande restavano senza risposta. Forse questa è la definizione di arte contemporanea: porre domande che non si ha intenzione di risolvere.

Gardner appartiene a questa nuova ondata di pittori figurativi che hanno deciso che l’astrazione ha fatto il suo tempo. Ma la sua figurazione non è un passo indietro, è un salto in avanti travestito da passo di lato. Dipinge figure che sembrano astrazioni e astrazioni che sembrano figure. È un trompe-l’oeil concettuale.

Ciò che è interessante in Gardner è la sua capacità di creare immagini che sembrano familiari mentre sono profondamente strane. I suoi interni somigliano a set cinematografici, i suoi personaggi ad attori che avessero dimenticato il copione. Tutto è al suo posto per una storia che non inizia mai veramente.

L’artista lavora lentamente, con grande disappunto delle sue gallerie [4]. Ma questa lentezza è necessaria: ogni quadro è una costruzione meticolosa in cui nulla è lasciato al caso. Gardner non dipinge, costruisce. Le sue composizioni sono progetti architettonici per edifici mentali che non esisteranno mai.

In un mondo dove tutto corre troppo veloce, dove le immagini scorrono alla velocità della luce sui nostri schermi, Gardner ci offre fermoimmagini che durano un’eternità. I suoi quadri sono rifugi per l’occhio stanco, oasi di calma nel deserto del sovraccarico visivo. Gardner è forse l’artista di cui abbiamo bisogno senza saperlo. Ci ricorda che la pittura può ancora sorprenderci, destabilizzarci, incantarci. In un mondo ossessionato dal nuovo, dimostra che l’antico può essere radicale. In un’epoca che valorizza la velocità, celebra la lentezza. In una cultura che privilegia il grido, sceglie il sussurro.

Allora sì, Gardner dipinge come si prende un bagno di sole a novembre. Ma forse è proprio quello di cui abbiamo bisogno: un po’ di calore in un mondo che si raffredda, un po’ di colore in un paesaggio che diventa grigio, un po’ di sogno in una realtà che assomiglia sempre più a un incubo climatizzato.


  1. Julia Wolkoff, “Jonathan Gardner,” ARTnews, 2016.
  2. “Jonathan Gardner CV,” Jason Haam Gallery, 2024.
  3. “Jonathan Gardner Artist Biography,” Artsy.
  4. Michael Herh, “Intervista con l’artista Jonathan Gardner,” Business Korea, 2021.
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Riferimento/i

Jonathan GARDNER (1982)
Nome: Jonathan
Cognome: GARDNER
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 43 anni (2025)

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