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Jörg Immendorff : Café Deutschland e oltre

Pubblicato il: 22 Luglio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Jörg Immendorff trasformava l’impegno politico in materia pittorica pura. Le sue monumentali pitture della serie Café Deutschland rivelano un creatore capace di inventare un linguaggio visivo specifico per ogni epoca, rifiutandosi sistematicamente le facili scelte estetiche e i consensi politici del suo tempo.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Jörg Immendorff era uno di quegli artisti rari che comprendeva che l’arte vera non consola, ma disturba. Non rassicura, ma pone domande. E soprattutto, non decora, ma dinamita. Quando si contempla l’insieme della sua opera, dalle sue prime azioni LIDL rivoluzionarie fino alle tele oscure e personali degli ultimi anni, si capisce immediatamente che abbiamo a che fare con un creatore che si rifiutava categoricamente di lasciarsi domare dalle convenzioni artistiche o politiche del suo tempo.

Nato nel 1945 in una Germania fratturata dalla guerra, Immendorff crebbe in un paese diviso, perseguitato dai suoi demoni e in costante ricerca di identità. Questa particolare situazione geopolitica plasmerà profondamente la sua visione artistica, ma sarebbe un errore ridurre il suo lavoro a un semplice riflesso delle tensioni Est-Ovest. Perché Immendorff, dai suoi primi passi nell’arte, capiva che la creazione autentica richiede una distruzione preliminare, un radicale mettere in discussione le strutture stabilite.

Il suo passaggio sotto la tutela di Joseph Beuys all’Accademia di Düsseldorf segna un momento decisivo. Ma a differenza di molti allievi di Beuys che rimasero nell’ombra protettiva del maestro, Immendorff sviluppa rapidamente un approccio personale, più diretto, forse più brutale. Le sue azioni LIDL della fine degli anni ’60 testimoniano questa volontà di emanciparsi. Il famoso blocco di legno dipinto con i colori della bandiera tedesca che trascina davanti al Parlamento di Bonn nel 1968, questa azione apparentemente assurda rivela in realtà una acuta intelligenza politica. Facendosi arrestare per profanazione della bandiera, Immendorff espone le contraddizioni di una società che pretende di difendere la democrazia mentre reprime l’espressione artistica dissidente.

Questo periodo LIDL, dal nome di questa parola inventata che evoca il sonaglio di un bambino, rivela un aspetto fondamentale della personalità artistica di Immendorff: la sua capacità di utilizzare l’apparente ingenuità come arma di sovversione. Le performance che organizza con i suoi complici, mettendo in scena animali domestici, bambini e oggetti quotidiani, creano un linguaggio artistico nuovo, a metà strada tra Dada e agit-prop, che combina l’agitazione con la propaganda. Questo approccio trova le sue profonde radici nell’eredità teatrale di Bertolt Brecht, la cui influenza su Immendorff merita un’analisi approfondita.

Brecht aveva teorizzato l’effetto di distanziamento, quella tecnica drammaturgica che impedisce allo spettatore di identificarsi emotivamente con i personaggi per portarlo a riflettere in modo critico sulle situazioni presentate. Immendorff trasporta questo concetto nel campo delle arti visive con una maestria notevole. I suoi dipinti della serie Café Deutschland, realizzati tra il 1977 e il 1984, funzionano esattamente secondo questo principio brechtiano. Queste tele monumentali presentano scene di cabaret notturno dove si mescolano personaggi storici, figure contemporanee e allegorie politiche. Ma, lungi dal proporre una visione romantica o nostalgica della Germania divisa, Immendorff ci confronta con uno spettacolo decadente e inquietante, dove i confini tra Est e Ovest si dissolvono nell’alcol e nella depravazione. Lo spettatore non può identificarsi con queste figure grottesche e patetiche, è costretto a prendere le distanze, ad analizzare i meccanismi sociali e politici che producono questa situazione. Come in Brecht, l’arte diventa uno strumento di consapevolezza politica, ma Immendorff aggiunge a questa dimensione un carico sensuale e visivo che il teatro non può offrire. I suoi colori acidi, le sue composizioni vertiginose, la sua gestualità pittorica volutamente teatrale creano un linguaggio artistico unico, che prende in prestito da Brecht la sua dimensione critica pur sviluppando un’estetica specificamente pittorica. Questa sintesi tra impegno brechtiano ed espressività visiva costituisce una delle innovazioni maggiori di Immendorff nell’arte contemporanea. Dimostra che è possibile creare un’arte politicamente impegnata senza sacrificare la complessità formale e l’impatto estetico. I suoi continui riferimenti all’universo teatrale, le sue composizioni a forma di scena, i suoi personaggi che sembrano recitare ruoli, tutto ciò rivela un artista che ha perfettamente assimilato la lezione brechtiana secondo cui l’arte deve mostrare che il mondo può essere trasformato. Ma Immendorff va oltre Brecht integrando questa dimensione critica in un linguaggio pittorico di una ricchezza e una complessità straordinarie, creando così una forma d’arte totale che coinvolge simultaneamente l’intelletto e i sensi [1].

Parallelamente a questa parentela brechtiana, l’opera di Immendorff rivela una sorprendente vicinanza alla concezione tragica dell’esistenza sviluppata da Arthur Schopenhauer. Questa parentela filosofica, raramente sottolineata dalla critica, getta una nuova luce sulla dimensione esistenziale delle sue pitture tarde. Schopenhauer concepiva l’esistenza umana come un’oscillazione perpetua tra il bisogno e la noia, una condizione tragica da cui solo la contemplazione estetica può momentaneamente liberarci. Questa visione pessimista trova un eco sorprendente negli autoritratti malinconici di Immendorff, particolarmente quelli realizzati dopo il 1989, quando la caduta del muro di Berlino priva improvvisamente la sua arte della sua dimensione politica immediata. Confrontato con la perdita del suo soggetto privilegiato, l’artista si volge verso un’introspezione dolorosa che rivela l’influenza sotterranea della filosofia di Schopenhauer. Le sue tele di questo periodo, popolate da scimmie pittrici ironiche e doppi di sé stessi patetici, esprimono questa intuizione schopenhaueriana secondo la quale l’arte autentica nasce dalla sofferenza e dalla lucidità sulla condizione umana. L’ossessione di Immendorff per gli autoritratti, la sua rappresentazione ricorrente dell’artista come creatura caduta o ridicola, la sua esplorazione permanente dei temi della morte e della decadenza, tutto ciò rivela un artista ossessionato dalla vanità fondamentale dell’esistenza umana. Ma a differenza del filosofo di Francoforte, Immendorff non cerca nell’arte un rifugio dalla sofferenza del mondo. Al contrario, egli usa la pittura per intensificare questa sofferenza, per renderla visibile e condivisibile. Le sue ultime opere, realizzate mentre lottava contro la malattia di Charcot, raggiungono un grado di crudeltà verso sé stesso che ricorda le pagine più oscure de Il mondo come volontà e rappresentazione. Ma questa crudeltà non è mai compiacente, mira sempre a rivelare una verità sulla condizione umana. Come Schopenhauer, Immendorff ritiene che la vera arte deve confrontarci con la realtà della nostra finitudine e fragilità. Le sue pitture funzionano come specchi spietati che ci rimandano l’immagine delle nostre illusioni perdute e delle nostre speranze deluse. Questa dimensione schopenhaueriana della sua opera spiega forse perché le sue tele, nonostante la loro apparente brutalità, sprigionano una profonda malinconia che tocca direttamente l’universale. Rivelando senza concessioni la dimensione tragica dell’esistenza, Immendorff raggiunge paradossalmente questa funzione catartica dell’arte che Schopenhauer aveva teorizzato, dimostrando che un pessimismo lucido può diventare fonte di bellezza e verità [2].

La forza dell’opera di Immendorff risiede nella sua capacità di trasformare l’impegno politico in materia pittorica pura. Le sue pitture maoiste dei primi anni ’70, con i loro colori decisi e la loro iconografia rivoluzionaria, potrebbero sembrare semplice propaganda se non fossero animate da un’energia plastica straordinaria. Perché Immendorff non si accontenta mai di piazzare un messaggio su un’immagine, inventa un linguaggio visivo specifico per ogni periodo del suo lavoro.

La serie Café Deutschland rappresenta indubbiamente l’apogeo di questa ricerca. Queste pitture monumentali, ispirate al Caffè Greco di Renato Guttuso, funzionano come macchine a produrre significato. Ogni dettaglio conta, ogni personaggio porta un carico simbolico, ogni colore partecipa a un sistema generale di significato. Tuttavia, queste tele non scivolano mai nell’illustrazione didattica. L’intelligenza di Immendorff consiste nel creare immagini sufficientemente ambigue da resistere a una lettura univoca, sufficientemente complesse da suscitare una contemplazione prolungata.

L’evoluzione del suo stile dopo la riunificazione tedesca rivela un artista capace di reinventarsi costantemente. Privato del suo soggetto politico privilegiato, Immendorff si volge a un’esplorazione più personale dei rapporti tra arte e potere, tra creazione e distruzione. I suoi riferimenti a William Hogarth, in particolare nella sua serie The Rake’s Progress, testimoniano una coscienza acuta della storia dell’arte e della sua capacità di nutrirsi del passato per inventare il futuro.

Questo periodo tardivo, segnato dalla malattia e dagli scandali, avrebbe potuto vedere Immendorff sprofondare nell’amarezza o nella compiacenza. Al contrario, rivela un artista più libero che mai, capace di un’autoironia feroce e di una lucidità implacabile sulla propria condizione. Le sue ultime tele, realizzate quando non poteva più tenere un pennello, dirigendo i suoi assistenti dalla sua sedia a rotelle, raggiungono un’intensità drammatica sorprendente.

La controversia che circonda l’autenticità di alcune opere tarde solleva questioni fondamentali sulla natura della creazione artistica nell’era della riproduzione tecnica. Immendorff, accettando che i suoi assistenti eseguissero i suoi ultimi dipinti sotto la sua direzione, interroga le nozioni tradizionali di originalità e di paternità artistica. Questo approccio, lungi dall’essere una concessione alla malattia, costituisce forse il suo ultimo atto di sovversione.

Che abbia organizzato orge a base di cocaina nei palazzi di Düsseldorf non diminuisce in alcun modo la portata della sua opera. Al contrario, questa capacità di vivere le sue contraddizioni fino in fondo, di assumere pienamente il suo ruolo di artista maledetto, partecipa alla sua grandezza. Immendorff capiva che l’arte autentica può nascere solo dall’esperienza totale, senza edulcorazioni né compromessi.

Il suo ritratto ufficiale del cancelliere Gerhard Schröder, realizzato nei suoi ultimi anni, costituisce un testamento artistico di un’ironia graffiante. Rappresentare il politico come un imperatore romano circondato da scimmie pittrici rivela un senso della derisione che non risparmia né il potere né l’arte stessa. Questa capacità di mordere tutte le mani che lo nutrono fa di Immendorff un artista veramente libero.

Oggi, diciotto anni dopo la sua scomparsa, l’opera di Immendorff ritrova un’attualità inquietante. In un momento in cui l’arte contemporanea sembra sempre più domesticata dalle logiche commerciali e istituzionali, i suoi dipinti ricordano che l’arte può ancora essere una forza di resistenza e trasformazione. Le sue lezioni restano più necessarie che mai: l’arte deve restare scomoda, l’artista deve mantenere la sua funzione critica, e la bellezza può nascere dalla distruzione.

L’opera di Immendorff ci insegna che non esiste un’arte innocente, che ogni creazione autentica impegna una visione del mondo e una concezione dell’uomo. Rifiutando sistematicamente le facilità estetiche e i consensi politici, ha tracciato una strada esigente che continua a ispirare i creatori desiderosi di preservare la loro indipendenza.

Di fronte alla tendenza contemporanea a neutralizzare l’arte, a farne un semplice oggetto di contemplazione decorativa, l’esempio di Immendorff ricorda che la pittura può ancora servire a qualcosa di essenziale: rivelare le contraddizioni della nostra epoca e costringerci a guardare in faccia ciò che preferiremmo ignorare. Forse è questa la sua lezione più bella: l’arte non deve mai cessare di essere pericolosa.


  1. Bertolt Brecht, Écrits sur le théâtre, Paris, L’Arche, 1972
  2. Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Paris, PUF, 1966
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Riferimento/i

Jörg IMMENDORFF (1945-2007)
Nome: Jörg
Cognome: IMMENDORFF
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Germania

Età: 62 anni (2007)

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