Ascoltatemi bene, banda di snob : mentre voi vi estasiavate davanti alle ultime installazioni minimaliste in gallerie immacolate, un uomo con cappello e occhiali neri incolla sui muri di tutto il mondo i volti di coloro che non guardate mai. JR, pseudonimo semplice quanto radicale nel suo gesto artistico, ha capito ciò che l’establishment culturale rifiuta ostinatamente di ammettere : l’arte più potente è quella che nasce dove non la si aspetta, davanti agli occhi di chi non varca mai le porte dei musei.
Nato nel 1983 a Parigi nel 15º arrondissement, JR incarna ciò che c’è di più elettrico nell’arte contemporanea : una sincerità grezza, un’urgenza viscerale, una necessità di urlare senza dire una parola. A diciotto anni, quando trova una macchina fotografica dimenticata nella metropolitana parigina, non sa ancora di aver scoperto la sua arma. Armato del suo obiettivo 28mm e di litri di colla, trasforma le facciate decrepite dei Bosquets in cattedrali urbane. I suoi ritratti monumentali, stampati in bianco e nero con un’intensità fotografica che strappa l’anima, si impongono come manifesti silenziosi contro l’invisibilità sociale.
In questo percorso artistico si delinea una stretta relazione con le teorie sociologiche di Pierre Bourdieu sulla distinzione culturale [1]. L’opera di JR opera un ribaltamento spettacolare dei meccanismi di legittimità culturale che il sociologo francese ha magistralmente analizzato. Là dove Bourdieu dimostrava nel suo libro fondatore del 1979 come le classi dominanti utilizzano le pratiche culturali per mantenere la loro posizione sociale, JR sabota deliberatamente questo sistema collocando i volti delle classi popolari nello spazio pubblico con la stessa monumentalità, la stessa dignità dei ritratti dei potenti. Le sue installazioni gigantesche ribaltano la gerarchia culturale : non sono più le élite a decidere quali volti meritano di occupare lo spazio urbano, ma è l’artista che dà questo posto agli operai, alle donne delle favelas, ai rifugiati, agli adolescenti delle periferie. Ogni collage di JR diventa un’insurrezione contro ciò che Bourdieu chiamava “il gusto della necessità” delle classi popolari, quell’accettazione rassegnata del loro posto nell’ordine sociale.
Il progetto Face 2 Face del 2007 illustra perfettamente questa sovversione sociologica. Incollando fianco a fianco, sul muro di separazione tra Israele e Palestina, ritratti di israeliani e palestinesi che svolgono gli stessi mestieri, JR distrugge le distinzioni che i poteri politici e culturali si ostinano a mantenere. I volti si fronteggiano, fanno smorfie insieme, condividono la stessa umanità grottesca e magnifica. Lo stesso artista ha detto : “Abbiamo avuto la stessa conclusione : queste persone si assomigliano; parlano quasi la stessa lingua, come fratelli gemelli cresciuti in famiglie diverse” [2]. Questa installazione clandestina, la più grande mostra fotografica illegale mai realizzata, dimostra che le frontiere culturali e sociali sono costruzioni arbitrarie che l’arte può decostruire.
Women Are Heroes, intrapreso nel 2008, segue questa logica di redistribuzione simbolica del capitale culturale. Fotografando gli occhi e i volti di donne vittime di violenze in Brasile, Kenya, India e Cambogia, JR concede loro ciò che il sistema sociale nega loro: la visibilità, la monumentalità, il diritto di occupare massicciamente lo spazio pubblico. Queste donne, doppiamente dominate dalla loro classe e dal loro genere secondo le analisi di Bourdieu, diventano giganti i cui sguardi sovrastano le favelas di Rio e le baraccopoli di Nairobi. JR non si limita a documentare la loro esistenza; sovverte la cartografia del visibile, impone la loro presenza dove la società vorrebbe che restassero invisibili. Quando questi ritratti ricoprono interi treni in Kenya o vengono incollati sui tetti per proteggerli dalla pioggia, l’arte smette di essere ornamentale per diventare funzionale, inscritta nella quotidianità di coloro che rappresenta.
L’Inside Out Project, lanciato nel 2011 dopo che JR ha ricevuto il TED Prize, democratizza radicalmente il suo approccio. Chiunque, ovunque, può inviare il proprio ritratto che verrà stampato gratuitamente in formato gigante e rispedito al partecipante per essere incollato nella propria comunità. Più di 400.000 persone in 130 paesi hanno partecipato. Questa totale orizzontalità abolisce le ultime barriere tra l’artista e il suo pubblico, tra i produttori e i consumatori di cultura. JR non si limita a criticare la distinzione di Bourdieu; la fa saltare in aria fornendo a tutti gli strumenti per la produzione artistica. Il “photograffeur”, come si definisce, rifiuta ogni collaborazione con i marchi, finanzia i suoi progetti con la vendita di stampe fotografiche, mantenendo così un’indipendenza che garantisce l’autenticità del suo approccio. Come afferma: “Dans la rue, nous touchons des gens qui ne vont jamais dans les musées” [3].
Ma JR non è solo un sociologo dell’immagine; è anche un cineasta che ha capito che il settimo arte può essere il naturale prolungamento del suo lavoro fotografico. La sua collaborazione con Agnès Varda per Visages Villages nel 2017 segna una svolta nella sua pratica artistica [4]. Incontro tra due generazioni, tra una leggenda della Nouvelle Vague ottantenne e un trentenne promettente, produce un film di rara tenerezza e intelligenza. Varda e JR percorrono la Francia rurale a bordo del camion-photomaton dell’artista, fotografano gli abitanti, incollano i loro ritratti sulle facciate. Il film diventa una meditazione sul tempo, la memoria, la dignità delle persone comuni. Varda, con la sua malizia e gravità, ricorda a JR di aver filmato un giovane uomo con occhiali neri negli anni Sessanta, Jean-Luc Godard. Questa filiazione cinematografica non è aneddotica: inserisce JR in una tradizione del cinema d’autore francese che osserva il reale con poesia e impegno politico.
Visages Villages non è un semplice documentario sull’arte di JR; è un’opera cinematografica a sé che interroga i dispositivi di rappresentazione, l’atto di filmare e fotografare, il gesto di incollare ed esporre. Il film mette continuamente in discussione il proprio processo di fabbricazione, rifiuta la trasparenza documentaria per assumersi la sua parte di messa in scena. Quando Varda e JR decidono di far visita a Godard in Svizzera e lui li lascia a bocca asciutta, la scena diventa un momento di cinema puro, crudele e commovente. La cinepresa riprende Varda in lacrime, JR impotente, e questo momento di umiliazione si trasforma in verità cinematografica. Il caso diventa assistente alla regia, secondo le parole stesse di Varda. Questa estetica dell’imprevisto, questa apertura al reale, avvicina il cinema di JR alla sua pratica del collage urbano: in entrambi i casi si tratta di catturare l’istante, lasciare che le cose accadano, accettare che l’opera sfugga al controllo totale dell’artista.
Il film ottiene il premio L’Oeil d’or per il miglior documentario a Cannes 2017 e una nomination agli Oscar. Ma al di là dei riconoscimenti, Visages Villages rivela la profondità filosofica del lavoro di JR. Quando Varda fotografa le tombe di Henri Cartier-Bresson e Martine Franck al cimitero di Montjustin, quando JR incolla il ritratto di un amico scomparso di Varda su un bunker che sarà inghiottito dalla marea, il film diventa una riflessione sull’effimero e la permanenza. JR ha sempre assunto la fragilità delle sue installazioni. Lo dice chiaramente: “Le immagini, come la vita, sono effimere. Una volta incollate le immagini, l’opera d’arte vive la propria vita. Il sole asciuga la colla leggera e a ogni passo la gente strappa pezzi di carta fragile” [2]. Questa accettazione della scomparsa, questa celebrazione del provvisorio, iscrive il suo lavoro in una temporalità radicalmente opposta a quella del mercato dell’arte contemporanea ossessionato dalla conservazione e dalla speculazione.
L’intervento di JR al Louvre nel 2016 e 2019 cristallizza queste tensioni tra istituzione e sovversione, tra permanenza ed effimero. Far scomparire la piramide di Pei con un trompe-l’oeil anamorfotico, poi immaginare che si prolunghi sotto terra come un iceberg rovesciato, è giocare con il monumento più visitato al mondo, deviarlo, interrogarlo. In poche ore, i passanti strappano il collage, l’opera si disintegra. Questa distruzione programmata, questo rifiuto della perennità, costituisce forse l’atto più punk che si possa compiere nel tempio dell’arte istituzionale. JR non cerca di entrare nel museo per restarci; vi entra per meglio scappare, per ricordare che l’arte viva si svolge altrove, in strada, esposta alle intemperie e agli sguardi di tutti.
La sua installazione Kikito al confine tra Stati Uniti e Messico nel 2017 dimostra questa capacità unica di creare immagini che diventano istantaneamente iconiche pur mantenendo una semplicità formale disarmante. Un ragazzino messicano sembra guardare oltre il muro di confine, i suoi occhi immensi interrogano l’assurdità di questa barriera. L’imponente impalcatura che sostiene il ritratto trasforma il bambino in un gigante, invertendo il rapporto di forza simbolico. L’ultimo giorno dell’installazione, JR organizza un picnic da entrambi i lati del muro: i partecipanti condividono cibo attraverso la griglia metallica, mangiano su un tavolo gigante che rappresenta gli occhi di un giovane immigrato. L’arte diventa azione collettiva, una performance pacifica ma inesorabile. Le autorità tollerano l’evento, un agente di frontiera condivide persino una tazza di tè con JR. Questa immagine, l’artista e il guardia di frontiera che bevono il tè insieme davanti al ritratto di un bambino messicano, riassume tutta la potenza politica del lavoro di JR: creare situazioni in cui l’umano riconquista i propri diritti di fronte ai sistemi che li negano.
JR, oggi quarantaduenne, non ha perso nulla della sua urgenza iniziale. I suoi progetti continuano a emergere in ogni angolo del mondo, a Ellis Island, alle piramidi di Giza, nelle prigioni californiane, per le strade di San Francisco. Ogni intervento rimane fedele al suo principio fondatore: dare una presenza monumentale a chi non ce l’ha, trasformare lo spazio pubblico in una galleria democratica, rifiutare che l’arte sia un privilegio di un’élite. Il suo semi-anonimato non è una vanità ma una necessità pratica: senza il cappello e gli occhiali, può viaggiare in incognito, lavorare in paesi dove la sua arte sarebbe considerata criminale. “JR rappresenta il fatto che sono sempre lo stesso ragazzo che cerca di vedere il mondo da angolazioni diverse”, spiega [2].
Questa fedeltà all’adolescente dei Bosquets che dipingeva graffiti sui tetti di Parigi conferisce alla sua opera una coerenza notevole. Nessuna compromissione, nessuna mercificazione, nessuna diluizione del messaggio. JR dimostra che si può essere celebrati dal sistema pur mantenendo una posizione critica radicale. Naviga tra le gallerie Perrotin e Pace, espone alla Saatchi Gallery, collabora con il New York City Ballet, continuando a incollare illegalmente nelle favelas e nei campi profughi. Questa apparente schizofrenia è in realtà una strategia brillante: usare la visibilità e il denaro generati dal mercato dell’arte per finanziare progetti che sfuggono totalmente alla sua logica.
L’opera di JR ci ricorda bruscamente che l’arte non è morta, che può ancora cambiare il nostro sguardo, provocare incontri improbabili, creare comunità effimere. In un mondo saturo di immagini, i suoi collage giganti squarciano il rumore visivo con la loro dimensione, la loro frontalità, il loro rifiuto della seduzione facile. I volti che espone non sono né belli né brutti secondo i canoni estetici dominanti; sono veri, intensi e presenti. Ci guardano e ci costringono a guardarli a nostra volta. È quell’affrontarsi che la società contemporanea evita accuratamente: vedere davvero chi ha relegato ai margini. JR forza questo confronto con una dolcezza ostinata, un ottimismo che non ha nulla di ingenuo ma tutto di una volontà incrollabile di credere nell’umanità comune.
Se la storia dell’arte dovesse trarre una lezione dal percorso di JR, sarebbe questa: l’arte più pertinente non è quella che si guarda negli specchi deformanti del mercato, ma quella che guarda il mondo e vi interviene direttamente. Nessun manifesto teorico contorto, nessuna postura concettuale sofisticata, solo un gesto semplice ripetuto all’infinito con una convinzione totale: fotografare, ingrandire, incollare, andare via. Lasciare che l’opera viva la sua vita, accettare che venga distrutta, ricominciare altrove. Questa umiltà di fronte al lavoro, questa generosità nella condivisione, questa fiducia assoluta nel potere delle immagini e degli incontri umani fanno di JR molto più di un artista di successo: un tramite che collega mondi settoriali, un attivista che non rinuncia mai all’utopia, un testimone ostinato della dignità universale. La sua arte non ci consola, non ci distrae e non ci addormenta. Ci sveglia, ci scuote e ci obbliga a vedere ciò che preferiremmo ignorare. Ed è proprio per questo che conta, ora e per molto tempo.
- Pierre Bourdieu, La Distinction. Critique sociale du jugement, Paris, Les Éditions de minuit, 1979
- Citazioni di JR tratte dai siti ArtReview, TheArtStory e Wikipedia consultati nell’ottobre 2025.
- Citazione riguardo al progetto “Portraits of a Generation”.
- Visages Villages, documentario co-diretto da Agnès Varda e JR, 2017, premio L’Oeil d’or al Festival di Cannes 2017.
















