Ascoltatemi bene, banda di snob, è arrivato il momento di parlare di Kerry James Marshall, quell’artista nato nel 1955 che ha trasformato la nostra visione dell’arte occidentale con un’impudenza magistrale e un’intelligenza feroce. Se pensate che la pittura figurativa sia morta, allora non avete capito nulla di ciò che accade nell’arte contemporanea.
Ecco un pittore che ha avuto l’audacia di prendere la grande tradizione europea della pittura e rivoltala come un guanto, non per distruggerla ma per arricchirla. Marshall non fa sconti: dipinge figure nere di un nero profondo, assoluto, quasi totale, come per schiaffeggiarci con la nostra stessa cecità culturale. I suoi personaggi hanno una oscurità così intensa che diventano dei buchi nella nostra coscienza collettiva, richiami strazianti di tutte quelle presenze che per troppo tempo abbiamo scelto di ignorare nei nostri musei immacolati.
Il primo atto di questa rivoluzione pittorica: la monumentale serie “Garden Project”. Marshall ci mette di fronte alla nostra ipocrisia sociale con un’ironia mordente che farebbe impallidire lo stesso Voltaire. Questi giardini pubblici dai nomi pomposi come “Wentworth Gardens” o “Stateway Gardens” sono in realtà progetti di alloggi sociali degradati. L’artista dispiega una strategia che ricorda il pensiero di Jacques Rancière sul “partage du sensible”: rende visibile ciò che la nostra società si sforza di mantenere invisibile. Queste pitture monumentali, alcune alte quasi 3 metri, giocano sul contrasto tra la grandiosità dei titoli e la realtà crudele dei luoghi, infondendo al contempo una dignità inattesa agli abitanti.
In “Many Mansions” (1994), Marshall mette in scena tre uomini in abito elegante che lavorano in un giardino. Il contrasto tra il loro abbigliamento formale e la loro attività crea una tensione visiva che interroga i nostri pregiudizi sulla classe sociale e il lavoro. Gli uccelli azzurri che volano nel cielo e i fiori stilizzati che punteggiano la composizione aggiungono un tocco di fantasia quasi surreale che accentua l’ironia della situazione. È come se Marshall ci dicesse: “Ecco il vostro sogno americano, contemplatene la realtà”.
La padronanza tecnica di Marshall è abbagliante, ma non è una virtuosità fine a se stessa. Ogni pennellata è carica di significato, ogni scelta compositiva porta un messaggio. Prendiamo “School of Beauty, School of Culture” (2012), un’opera magistrale che reinventa i codici della pittura storica. La complessa composizione fa riferimento alle “Meninas” di Velázquez, ma trasporta l’azione in un salone di bellezza afro-americano. L’anamorfosi in primo piano non è più il cranio di Holbein ma un’immagine di Biancaneve, un commento mordace sugli standard di bellezza occidentali.
Il genio di Marshall si manifesta anche nel modo in cui tratta lo spazio pittorico. Nella serie “Souvenir”, crea interni domestici che sono tante sedi di memoria collettiva. Queste opere evocano la teoria di Walter Benjamin sull’aura dell’opera d’arte, ma Marshall va oltre. Trasforma lo spazio privato in un teatro della memoria storica, popolato da figure alate e ritratti commemorativi degli eroi del movimento per i diritti civili. La composizione stratificata di queste opere, con i loro diversi livelli di realtà, richiama le analisi di Rosalind Krauss sulla griglia modernista, ma Marshall sovverte questa griglia per farne uno strumento di narrazione culturale.
La sua tavolozza cromatica è una rivoluzione in sé. I neri profondi che utilizza non sono monolitici ma costruiti a partire da molteplici pigmenti, creando una ricchezza tonale che sfida la nostra percezione. Questo approccio riecheggia le riflessioni di John Berger sulla visibilità e invisibilità nell’arte. Il nero di Marshall non è un’assenza ma una presenza affermata, una rivendicazione di visibilità che forza lo sguardo a soffermarsi, a cercare le sfumature, a riconoscere la complessità.
Nei suoi ritratti di artisti, Marshall raggiunge vette di sofisticazione concettuale. Questi dipinti non sono semplici rappresentazioni ma manifesti visivi che mettono in discussione tutta la mitologia dell’artista occidentale. “Untitled (Studio)” (2014) è particolarmente rivelatore a questo proposito. L’artista vi è rappresentato nel suo studio, circondato dagli attributi tradizionali del pittore, ma la scena è perturbata da elementi contemporanei che creano una tensione temporale affascinante. Quest’opera dialoga direttamente con “L’Atelier du peintre” di Courbet, ribaltandone i codici per creare un potente commento sul ruolo dell’artista nero nella storia dell’arte.
La rappresentazione della vita quotidiana nell’opera di Marshall, le sue scene di barbieri, parchi e interni domestici, realizza ciò che Geoffroy de Lagasnerie chiama una politica della verità: non si limita ad essere semplicemente presente, ma rivela le strutture di potere che sottendono la nostra percezione del mondo. In “De Style” (1993), il salone di parrucchiere diventa un luogo di resistenza culturale, uno spazio dove la bellezza nera si afferma senza compromessi. Le pose dei personaggi, il loro sguardo diretto verso lo spettatore, tutto concorre a creare una presenza che sfida le convenzioni della rappresentazione tradizionale.
L’uso che Marshall fa dei riferimenti alla storia dell’arte è particolarmente sofisticato. In “Past Times” (1997), rievoca il genere della pittura pastorale con un’ironia mordace. Le attività ricreative tradizionalmente associate alla borghesia bianca, come il golf e lo sci nautico, vengono riappropriate da personaggi neri, creando un commento complesso sulla classe sociale e l’accesso alle attività di svago. Quest’opera dialoga con “Le Déjeuner sur l’herbe” di Manet pur sovvertendone i codici.
La questione della bellezza attraversa tutta l’opera di Marshall come un filo rosso incandescente. Il suo uso sistematico di figure di un nero profondo costringe a una rivalutazione dei nostri standard estetici occidentali. In “Could This Be Love” (2001), crea una scena di intimità di una bellezza sconvolgente che sfida le convenzioni della rappresentazione romantica. I personaggi, dipinti in questo nero caratteristico, sono circondati da un’atmosfera che oscilla tra realismo sociale e onirismo poetico.
Anche il suo trattamento dello spazio urbano merita la nostra attenzione. Nella serie “Garden Project”, gli edifici dei progetti di edilizia abitativa sociale sono rappresentati con una precisione architettonica che ricorda le vedute veneziane, ma Marshall vi aggiunge elementi che disturbano questa lettura convenzionale. I testi fluttuanti, i motivi decorativi, i collage creano una tensione tra realismo e astrazione che riflette la complessità dell’esperienza urbana contemporanea.
Marshall eccelle particolarmente nel modo in cui tratta la temporalità. Le sue opere spesso creano anacronismi deliberati che fanno dialogare periodi storici diversi. In “Voyager” (1992), mescola riferimenti alla storia della schiavitù e iconografia contemporanea per creare una meditazione complessa sulla memoria storica. Questo approccio ricorda le teorie di Georges Didi-Huberman sull’anacronismo nell’arte.
Marshall crea opere che funzionano simultaneamente su diversi livelli di lettura. Prendiamo “Black Painting” (2003-2006), dove una scena notturna apparentemente semplice si rivela una meditazione complessa sulla visibilità e l’invisibilità. Le figure appena distinguibili nell’oscurità diventano una potente metafora dell’esperienza afro-americana, costituendo al contempo un’audace esplorazione formale dei limiti della rappresentazione pittorica.
Il suo uso del testo nei suoi quadri è molto interessante. Le parole che fluttuano nelle sue composizioni non sono semplici didascalie ma elementi visivi a pieno diritto che creano un dialogo complesso con le immagini. Questa strategia ricorda le analisi di Roland Barthes sul rapporto tra testo e immagine, ma Marshall ne fa un uso unico che arricchisce la tradizione della pittura narrativa.
La dimensione politica dell’opera di Marshall non può essere separata dalle sue qualità formali. La sua arte è politica proprio perché domina perfettamente i codici della pittura occidentale mentre li sovverte dall’interno. Come ha osservato Arthur Danto, l’arte veramente politica non è quella che fa dichiarazioni esplicite ma quella che trasforma il nostro modo di vedere il mondo.
Kerry James Marshall non è semplicemente un grande pittore afroamericano, è uno dei pittori più importanti della nostra epoca, punto e basta. È riuscito nell’impresa di creare un’arte che è allo stesso tempo profondamente radicata nella storia della pittura occidentale e radicalmente innovativa. La sua opera ci costringe a riconoscere non solo le esclusioni storiche dell’arte occidentale ma anche la sua capacità di reinventarsi e arricchirsi attraverso questo riconoscimento.
In un mondo dell’arte contemporanea spesso dominato dal vuoto spettacolare e dal cinismo commerciale, Marshall ci ricorda che la pittura può ancora essere uno strumento di trasformazione sociale ed estetica. Non si limita a denunciare l’esclusione storica degli artisti neri, ma crea una nuova tradizione che arricchisce e complica la nostra comprensione dell’arte occidentale. È un artista che comprende che la vera rivoluzione non consiste nel rigettare il canone, ma nel trasformarlo dall’interno, nel farlo esplodere con i propri strumenti.
Quindi la prossima volta che sentirete qualcuno dire che la pittura figurativa è morta, mostrategli un’opera di Kerry James Marshall. E guardatelo perdere ogni capacità di fronte alla potenza di un’arte che rifiuta le facilità dello spettacolo contemporaneo per creare qualcosa di veramente rivoluzionario: una pittura che ci costringe a vedere ciò che abbiamo sempre rifiutato di guardare.
















