Ascoltatemi bene, banda di snob. Oggi vi parlerò di un artista che ha rivoluzionato l’establishment artistico iraniano degli anni 1970, Koorosh Shishegaran, nato nel 1945 a Qazvin. Un creatore che ha fatto della linea un manifesto e della strada un’opera d’arte, molto prima che le vostre piccole menti condizionate cominciassero a estasiarsi per lo street art e altre interventi urbani alla moda.
Lasciate che vi racconti una storia che farà tremare le vostre certezze sull’arte contemporanea. Nel 1977, mentre probabilmente vi rilassavate nelle vostre gallerie minimaliste contemplando tele fuori prezzo, Shishegaran affiggeva manifesti lungo l’avenue Shahreza a Teheran proclamando che la strada stessa era la sua opera d’arte. Non c’era bisogno del white cube, né di vernissage con stuzzichini e champagne. La vita, quella vera, come materiale grezzo dell’arte. Questa azione, intitolata “Art+Art”, non era una semplice provocazione di un artista in cerca di riconoscimento. Era uno schiaffo magistrale alla faccia dell’arte istituzionale, un atto che risuona con il pensiero del filosofo Walter Benjamin sulla perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica. Benjamin avrebbe applaudito con entrambe le mani vedendo come Shishegaran polverizzasse la distinzione tra arte e vita quotidiana, trasformando ogni passante in spettatore involontario e ogni gesto urbano in performance artistica.
Ma aspettate, questa è solo la punta dell’iceberg. Già dalla sua prima mostra nel 1973 alla Mess Gallery di Teheran, Shishegaran aveva iniziato a scuotere le convenzioni stabilite. Invece di giocare il gioco del mercato dell’arte, aveva scelto di donare gratuitamente le sue opere al pubblico. Avete capito bene: DONARE. Non vendere, non scambiare, non prestare. Donare. Un approccio che fa diretto riferimento alle teorie di Jacques Rancière sul “partage du sensible”, questa distribuzione politica di ciò che è visibile, dicibile e fattibile in una società data. Shishegaran non si limitava a redistribuire l’arte, ridefiniva le regole stesse della sua produzione e diffusione.
Tra il 1973 e il 1974 sviluppa quello che chiama i suoi “Mass Production Works”, una serie di opere che anticipano di decenni le questioni sulla riproducibilità e l’accessibilità dell’arte che ossessionano i nostri contemporanei. Usa vernice per automobili su pannelli di legno, creando composizioni in cui oggetti quotidiani si mescolano a motivi astratti. È un grandioso schiaffo all’unicità supposta dell’opera d’arte, una celebrazione della molteplicità che prefigura le teorie della post-produzione di Nicolas Bourriaud.
Segue il suo periodo “Appropriation of Works of Great Artists” (1974-1976), in cui si confronta con i grandi maestri con un’audacia che farebbe impallidire Sherrie Levine. Non si tratta semplicemente di copiare o citare, ma di digerire e trasformare, creare una nuova sintassi visiva che trascende i confini culturali. Prende elementi di opere conosciute e li combina con i propri concetti, creando ibridi culturali che sfidano ogni categorizzazione semplicistica.
Nel 1976 lancia il suo progetto “Postal Art”, inviando cartoline artistiche in tutto il mondo. Non è solo mail art alla Ray Johnson, è una vera strategia di guerriglia artistica che utilizza il sistema postale come medium. Crea in particolare un manifesto sul fragile processo di pace in Libano, che diffonde sotto forma di cartoline inviate ai centri politici, sociali, culturali e mediatici di tutto il mondo. L’arte come vettore di coscienza politica, ma senza mai cadere nella trappola della facile propaganda.
Gli anni 1980 segnano una svolta nella sua pratica, ma non lasciatevi ingannare: non è un abbandono dei suoi principi radicali, è la loro sublimazione. Sviluppa ciò che diventerà la sua firma visiva: quelle linee ondulate, quelle spirali infinite che sembrano danzare sulla tela come dei dervisci rotanti sotto acido. Queste composizioni astratte non sono semplici esercizi formali per stupire il pubblico. No, questi intrecci di linee sono cartografie mentali, sismografi emotivi che registrano le turbolenze del nostro tempo.
Guardate attentamente una delle sue opere monumentali come questa tela “Senza titolo” del 1991, che misura 184 x 298,5 centimetri. Le linee si intrecciano, si sovrappongono, creando profondità vertiginose che ci risucchiano in un maelstrom cromatico. È come un Jackson Pollock che avesse studiato la calligrafia persiana, ma in modo più radicale, più viscerale. Ogni linea è come una frase in una poesia visiva senza fine, una celebrazione dell’infinito che fa riferimento tanto alla tradizione sufi quanto alla matematica del caos.
Ciò che rende Shishegaran così unico è che trasforma la linea in un vero e proprio linguaggio filosofico. Le sue opere sono meditazioni visive sul concetto deleuziano del rizoma, questa struttura non gerarchica che si sviluppa in modo imprevedibile, creando connessioni multiple e orizzontali. Ogni quadro è una rete complessa di linee che si intrecciano senza inizio né fine, sfidando ogni tentativo di lettura lineare. È un calcio magistrale nel formicaio dell’arte tradizionale iraniana, rimanendo però profondamente radicato nella sua cultura visiva.
Prendete le sue serie di autoritratti del 2007, esposte alla Khak Gallery. Invece di limitarsi a una semplice rappresentazione narcisistica, crea trenta variazioni digitali della stessa opera, giocando con colori e forme per esplorare le molteplici sfaccettature dell’identità. È un vero e proprio scherno all’unicità dell’opera d’arte, una celebrazione della molteplicità che riecheggia le teorie di Gilles Deleuze sulla differenza e la ripetizione. Ogni variazione è allo stesso tempo uguale e diversa, creando un vertigine concettuale che mette in discussione le nostre certezze sull’originalità nell’arte.
Durante la guerra Iran-Iraq (1980-1988), mentre molti artisti si rifugiavano in un’arte decorativa innocua, Shishegaran crea una serie di disegni che catturano lo spirito oscuro dell’epoca. Queste opere, esposte alla Golestan Gallery nel 1990, non sono illustrazioni letterali del conflitto, ma testimonianze emotive profonde che trascendono il semplice commento politico. È nell’astrazione che trova il linguaggio più appropriato per parlare dell’indicibile.
I critici benpensanti probabilmente obietteranno che il suo lavoro delle ultime decadi si è troppo addolcito, che è diventato troppo “commerciale”. Ma è proprio qui che risiede il suo genio. Dominando il sistema che inizialmente criticava, Shishegaran è riuscito a infiltrarsi nel mercato dell’arte mantenendo l’integrità della sua visione. Le sue opere recenti, come quelle esposte all’Opera Gallery di Londra nel 2013, non sono compromessi ma evoluzioni naturali della sua riflessione sull’arte come vettore di cambiamento sociale.
La sua influenza sull’arte contemporanea iraniana è paragonabile a quella di Joseph Beuys sull’arte europea, con la differenza cruciale che Shishegaran ha dovuto navigare in un contesto politico e sociale molto più complesso. Come Beuys che proclamava che ogni uomo è un artista, Shishegaran ha dimostrato che ogni strada poteva essere un’opera d’arte, che ogni linea poteva essere un manifesto. Ha trasformato l’atto artistico in atto politico senza mai cadere nella trappola della propaganda o del messaggio semplicistico.
Nel 2014, crea “Figure”, una tela di 160 x 200 centimetri che rappresenta l’apice della sua padronanza tecnica e concettuale. L’opera è un vortice di linee blu, rosse e arancioni su uno sfondo grigio, punteggiato da tratti bianchi che creano una sensazione di movimento perpetuo. È una dimostrazione abbagliante della sua capacità di creare spazi psicologici complessi a partire da semplici linee. Ogni curva è meticolosamente pensata, ogni intersezione calcolata per creare un impatto massimo. È action painting che sarebbe stato filtrato attraverso la geometria non euclidea.
Attraverso i suoi “PhotoWorks” del 1995-1996, esplora la fusione tra fotografia e pittura, sovrapponendo le sue linee caratteristiche su paesaggi e texture naturali. Non è un semplice esercizio di stile, ma una riflessione profonda sulla natura della rappresentazione e sul rapporto tra diversi mezzi artistici. Queste opere ibride anticipano le questioni sul post-medium che occupano tanto l’arte contemporanea attuale.
Le sue mostre recenti, come quella al Bermondsey Project Space nel 2020, mostrano un artista che continua a spingere i confini della sua arte. Le linee sono sempre presenti, ma sono diventate più complesse, più cariche di significato. Ogni tela è come una partitura musicale per un’orchestra di emozioni, dove i colori e le forme creano sinfonie visive che sfidano ogni descrizione semplice.
Quindi la prossima volta che vi estasiate davanti a un’installazione partecipativa in una qualsiasi biennale, ricordate che Shishegaran faceva già arte socialmente impegnata quando la maggior parte degli artisti contemporanei di tendenza oggi erano ancora nei pannolini. E quando contemplerete le sue tele con linee danzanti in una galleria climatizzata, non dimenticate che queste arabeschi astratti sono le dirette eredi delle sue azioni radicali degli anni ’70. Portano in sé la stessa volontà di trasformare l’arte in esperienza collettiva, di fare di ogni spettatore un partecipante attivo nella creazione del senso.
Ecco, cari piccoli snob, avete appena ricevuto una lezione di storia dell’arte che supera ampiamente le vostre piccole categorie preconfezionate. Koorosh Shishegaran non è solo un artista, è un rivoluzionario che ha capito che l’arte vera non si limita alle mura dei musei. È tempo che apriate i vostri occhi e le vostre menti a questa realtà. E se non siete d’accordo, beh, significa che non avete capito nulla dell’arte contemporanea.
















