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Martedì 18 Novembre

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La traccia primitiva di Miquel Barceló

Pubblicato il: 1 Aprile 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Miquel Barceló trasforma la materia in esperienza sensoriale. Questo nomade artistico, che si muove tra Maiorca, Parigi e l’Africa, trasforma argilla, pigmenti e materiali organici in visioni primitive e contemporanee, interrogandoci continuamente sul nostro rapporto con il mondo attraverso un’opera viscerale.

Ascoltatemi bene, banda di snob! Miquel Barceló non è un semplice pittore, ma un archeologo del presente che scava negli strati della nostra eredità visiva collettiva. Questo bambino di Felanitx, nato nel 1957 in questa piccola città di Maiorca dalle tradizioni millenarie, ha creato un universo artistico che sfugge alle categorie facili e alle formule preconfezionate tanto amate dai mercanti d’arte e dai curatori in cerca di ispirazione.

Sono arrivato di fronte alle sue opere con quel misto di curiosità e impazienza che mi anima sempre nelle mie peregrinazioni artistiche. E lì, che colpo! Le sue tele ti saltano addosso come un predatore affamato. Questa materialità eccessiva, questi impasti succosi, queste crepe volontarie e queste superfici lavorate come campi arati dopo una tempesta! Siamo lontani dalle sciocchezze ben pulite che ci servono nelle fiere internazionali.

Barceló pratica una forma di sincretismo feroce, all’incrocio di quella che chiamerei un’antropologia visiva e un espressionismo viscerale. Le sue gigantesche opere nella cattedrale di Palma di Maiorca (2001-2007) costituiscono un manifesto di questo approccio: l’artista vi reinventa il sacro attraverso un linguaggio contemporaneo che dialoga con l’architettura secolare. La parete di ceramica di 300 metri quadrati che rappresenta la moltiplicazione dei pani e dei pesci diventa un banchetto visivo dove l’argilla parla, respira e racconta la condizione umana.

Ciò che mi colpisce nel lavoro di Barceló è la sua relazione intima con la filosofia esistenzialista. Ecco il primo asse che vorrei esplorare con voi. L’intera opera di questo maiorchino potrebbe leggersi come una meditazione sartriana sull’impegno e l’autenticità. Quando Jean-Paul Sartre scriveva che “l’esistenza precede l’essenza”, definiva senza saperlo il metodo di Barceló. Quest’ultimo non cerca di illustrare concetti predefiniti, ma lascia emergere l’opera dalla sua confrontazione con la materia. “Non ho mai dipinto un’idea in vita mia”, ha confidato un giorno, “dipingo situazioni” [1]. Questo approccio fenomenologico alla creazione si collega direttamente alle preoccupazioni esistenzialiste: l’essere-nel-mondo precede ogni astrazione intellettuale.

Prendete la sua serie delle “Biblioteche” (1984): questi interni carichi di libri, dove l’artista appare spesso come una presenza fantomatica, costituiscono meno una celebrazione dell’erudizione che un’interrogazione sul nostro rapporto con il sapere e la trasmissione. Come scriveva Sartre ne “Le Parole”, “la cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo: in essa si proietta, in essa si riconosce” [2]. Barceló materializza questa ambivalenza in quadri dove i libri sembrano allo stesso tempo rifugi e prigioni, fonti di luce e masse schiaccianti.

Il suo quadro “L’Amore folle” (1984) spinge ancora più lontano questa riflessione esistenzialista. L’artista si rappresenta nudo, in erezione, circondato dai suoi autori feticcio, Nabokov, Joyce, Baudelaire. Quest’opera audace interroga frontalmente il modo in cui la nostra identità si costruisce attraverso i nostri riferimenti culturali, ricordando crudelmente la nostra condizione carnale. L’esistenzialismo ci insegna che siamo simultaneamente coscienza e corpo, trascendenza e fatticità. Barceló traduce questa dualità in immagini, senza compromessi né pudore eccessivo.

Il secondo tema che attraversa l’opera di Barceló come un filo rosso sanguinante è la sua relazione con l’antropologia. Lontano dal essere un semplice turista culturale, l’artista maiorchino ha vissuto per anni in Mali, immerso nella cultura Dogon. Non era un esotismo di facciata, ma una ricerca autentica delle origini della creatività umana. Ha stabilito paralleli sorprendenti tra l’arte contemporanea occidentale e le espressioni artistiche dette “primitive”, rivelando le loro radici comuni.

Claude Lévi-Strauss, in “Il pensiero selvaggio”, sosteneva che “il bricolage è capace di eseguire un gran numero di compiti diversi; ma, a differenza dell’ingegnere, non subordina ciascuno di essi all’ottenimento di materie prime e strumenti, concepiti e procurati su misura per il suo progetto” [3]. Questa definizione del bricolage come figura dell’artista si applica perfettamente a Barceló. Nei suoi atelier successivi, a Maiorca, Parigi o Sangha, accumula materiali disparati (pigmenti naturali, sabbia, cenere vulcanica, alghe) che trasforma secondo le necessità del momento.

I suoi taccuini d’Africa, realizzati tra il 1988 e il 2000, testimoniano questo approccio antropologico. Barceló vi documenta minuziosamente la vita quotidiana dei Dogon, ma senza mai cadere nella trappola dell’esotismo facile. Cerca piuttosto di cogliere ciò che Mary Douglas chiamava le “strutture di significato” che operano in tutte le culture [4]. I rituali del quotidiano, pescare, cucinare, costruire, diventano sotto la sua mano atti carichi di una potenza simbolica che trascende la loro funzione primaria.

“Gran animal europeu” (1991) esemplifica questa fusione tra antropologia e pratica artistica. Questa immensa tela che rappresenta un animale crocifisso funziona come un artefatto rituale contemporaneo. Barceló vi trascende la semplice rappresentazione per raggiungere il dominio del sacro, non in un senso religioso convenzionale, ma nell’accezione data dall’antropologo britannico Victor Turner: uno spazio liminare dove le categorie abituali sono temporaneamente sospese [5].

Ciò che mi piace di Barceló è la sua capacità di restare lui stesso un animale selvaggio nella giungla asettica dell’arte contemporanea. In un’epoca in cui tanti artisti sembrano produrre opere per soddisfare algoritmi e investitori, lui continua a sporcarsi le mani. La sua ceramica monumentale per il Palazzo delle Nazioni a Ginevra (2008), quella cupola policroma che pende come una grotta rovesciata, è un gesto di beffa magistrale all’architettura funzionalista che lo circonda.

Le migliori opere di Barceló possiedono quella qualità paradossale di essere contemporaneamente antiche e nuove, come se emergessero direttamente dalle grotte preistoriche ma parlassero il nostro linguaggio contemporaneo. La sua fascinazione per le pitture rupestri di Chauvet o Altamira non è nostalgia o regressione, ma riconoscimento di una continuità fondamentale nell’esperienza artistica umana. Nel 2016, quando dichiara che “gli artisti di Chauvet sono i miei contemporanei” [6], non fa della storia dell’arte un museo polveroso, ma uno spazio vitale in cui si sovrappongono le temporalità.

L’ambivalenza di Barceló di fronte alla tauromachia illustra la sua posizione complessa di artista contemporaneo radicato in tradizioni ancestrali. Negli anni 1990, ha prodotto una serie impressionante di opere su questo tema, non per una fascinazione morbosa per la violenza, ma per esplorare ciò che l’antropologo Clifford Geertz chiamava un “gioco profondo”, un rituale in cui una società mette in scena le sue contraddizioni fondamentali [7]. Poi, nel 2015, riconosce che “la tauromachia è finente”, testimoniando una coscienza acuta delle mutazioni culturali in corso.

Questa tensione tra tradizione e contemporaneità anima anche le sue nature morte. Quando Barceló dipinge frutti, teschi o pesci, dialoga consapevolmente con tutta la storia della pittura occidentale, da Zurbarán a Soutine. Ma li reinventa attraverso un trattamento materiale così intenso che questi oggetti familiari diventano strani, inquietanti, quasi mostruosi. Come scrive l’antropologo David Freedberg in “Il Potere delle immagini”, “abbiamo la tendenza a sopprimere la nostra reazione corporea alle immagini” [8]. Barceló, invece, riattiva questa dimensione fisica del nostro rapporto con le rappresentazioni.

Il mare, onnipresente nella sua opera recente, non è solo un motivo visivo, ma un principio filosofico e antropologico. Per questo subacqueo incallito, l’immersione nelle profondità marine è analoga all’atto di dipingere, un esercizio di pazienza e attenzione, una sospensione del tempo ordinario. “Dipendere è come fare apnea”, confessa, “aspetti il momento di agire” [9]. Questa metafora acquatica ci riporta alla fenomenologia di Gaston Bachelard che, in “L’acqua e i sogni”, analizzava come questo elemento primordiale strutturi il nostro immaginario.

Oggi, mentre tanti artisti navigano con prudenza nelle acque tiepide del politicamente corretto contemporaneo, Barceló continua a tuffarsi nelle profondità tumultuose della nostra esperienza collettiva. La sua mostra “La solitudine organizzativa” alla Caixa Forum di Madrid nel 2010 presentava un autoritratto sotto forma di gorilla meditativo, immagine provocatoria che ricorda che, sotto lo strato della nostra sofisticazione culturale, restiamo primati confrontati alle stesse domande fondamentali dei nostri antenati.

Non posso fare a meno di pensare che se l’esistenzialismo e l’antropologia risuonano così fortemente nell’opera di Barceló, è perché queste due discipline interrogano cosa significhi essere umani in un mondo disincantato. L’artista maiorchino rifiuta la via facile delle risposte preconfezionate. Come l’antropologo Claude Lévi-Strauss che cercava di capire “come i miti si pensano negli uomini e a loro insaputa” [10], Barceló esplora come le immagini ci abitino e ci superino.

L’arte di Barceló, nomade, proteiforme, viscerale, si fa beffe delle etichette. Neoespressionista? Postmoderno? Queste classificazioni che fanno la gioia dei cataloghi di mostra e delle tesi universitarie si sgretolano di fronte alla potenza bruta delle sue creazioni. Appartiene a quella categoria di artisti rari che trasformano non solo il nostro modo di vedere, ma anche il nostro modo di essere al mondo.

Mentre siamo sommersi da immagini digitali disincarnate, Barceló ci ricorda l’irriducibile materialità dell’esperienza artistica. Le sue opere non chiedono di essere “comprese” intellettualmente, ma vissute fisicamente, come si prova la carezza del vento o il morso del freddo. Ci invitano a riconnetterci con questa dimensione sensuale ed esistenziale dell’arte che la nostra epoca iperconnessa tende a trascurare.

In fondo, ciò che Barceló ci dice attraverso la sua opera rigogliosa è che l’arte non è un lusso o un divertimento, ma una necessità antropologica fondamentale quanto mangiare, dormire o fare l’amore. “Faccio arte perché ne ho bisogno”, afferma senza mezzi termini [11]. Questa semplicità disarmante nell’affermazione della propria vocazione contrasta con il cinismo e le pose che troppo spesso infestano la scena artistica contemporanea.

In un mondo in cui il valore commerciale minaccia costantemente di offuscare il valore estetico, dove le opere diventano attivi finanziari prima che esperienze sensibili, il percorso ostinato di Barceló ricorda che l’arte autentica nasce sempre da una necessità interiore e non dalle fluttuazioni del mercato. Il suo percorso singolare, da Maiorca a Parigi passando per l’Africa, disegna una geografia personale che sfugge ai circuiti battuti dell’arte globalizzata.

Allora sì, banda di snob, Miquel Barceló è molto più di un pittore spagnolo di successo. È un esploratore dei limiti della nostra umanità, un archeologo del presente che scava incessantemente negli strati della nostra esperienza collettiva per estrarne immagini tanto antiche quanto nuove, tanto universali quanto profondamente personali. Le sue opere ci ricordano perché abbiamo bisogno dell’arte: non per decorare le nostre pareti o diversificare i nostri investimenti, ma per aiutarci a abitare poeticamente questo mondo.


  1. Intervista con Miquel Barceló, Cahiers d’Art, Parigi, 2014.
  2. Sartre, Jean-Paul, Les Mots, Gallimard, Parigi, 1964.
  3. Lévi-Strauss, Claude, La Pensée sauvage, Plon, Parigi, 1962.
  4. Douglas, Mary, De la souillure: Essai sur les notions de pollution et de tabou, La Découverte, Parigi, 1992.
  5. Turner, Victor, Le Phénomène rituel: Structure et contre-structure, PUF, Parigi, 1990.
  6. Barceló, Miquel, discorso durante l’esposizione “Sol y Sombra”, Musée Picasso, Parigi, 2016.
  7. Geertz, Clifford, “Deep Play: Notes on the Balinese Cockfight” in The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York, 1973.
  8. Freedberg, David, Le Pouvoir des images, Gérard Monfort, Parigi, 1998.
  9. Barceló, Miquel, intervista con Jurriaan Benschop, Brooklyn Rail, giugno 2024.
  10. Lévi-Strauss, Claude, Le Cru et le cuit, Plon, Parigi, 1964.
  11. Miquel Barceló, intervista in El País, Madrid, 2005.
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Riferimento/i

Miquel BARCELÓ (1957)
Nome: Miquel
Cognome: BARCELÓ
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Spagna

Età: 68 anni (2025)

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