Ascoltatemi bene, banda di snob, quando Kiki Smith riversa i suoi visceri scultorei sulle pareti asettiche delle nostre gallerie, non ci offre solo uno spettacolo inquietante. Questa artista americana nata nel 1954 a Norimberga, formatasi nell’urgenza del downtown newyorkese degli anni Ottanta, ci confronta con una verità anatomica che la nostra epoca iperconnessa si ostina a occultare. La sua opera, tessuta tra figurazione brutale e misticismo tessile, tra corpi malati e creature mitologiche, rivela l’impotenza fondamentale dei nostri corpi in un mondo che pretende di controllarli.
L’arte di Smith fiorisce in questa zona nebulosa dove la carne incontra il simbolo, dove la visceralità dialoga con l’archetipo. Le sue sculture in cera d’api dai colori cadaverici, le sue incisioni in cui si riversano fluidi corporei, i suoi arazzi jacquard popolati da ibridi metà donne metà bestie, costituiscono un corpus ossessivo che interroga il nostro rapporto con il corpo e la mortalità. Lontano dalle gesticolazioni spettacolari dei suoi contemporanei degli anni Ottanta, Smith sviluppa un’estetica dell’abiezione che attinge tanto all’immaginario cattolico della sua infanzia quanto all’urgenza politica dell’epidemia di AIDS.
Questa donna che fu formata come tecnica di emergenza medica prima di scolpire organi umani in bronzo, che ancora oggi vive nel Lower East Side di Manhattan, coltiva un approccio artigianale al trauma. Le sue installazioni trasformano lo spazio espositivo in un gabinetto di curiosità anatomiche, in una morgue poetica dove ogni pezzo interroga la fragilità della nostra guaina carnale. Quando dichiara che “la storia di tutto il mondo risiede nel vostro corpo” [1], Smith non cade in una metafora gratuita ma enuncia una verità clinica che la sua arte si impegna a dimostrare.
L’eredità surrealista: quando l’inconscio prende corpo
Per comprendere la radicalità del suo approccio, bisogna capire come il suo lavoro si inserisce nella scia del surrealismo pur sovvertendolo. André Breton e i suoi complici avevano aperto le dighe dell’inconscio, esplorato i territori onirici, decorticato i meccanismi dell’automatismo psichico. Ma là dove i surrealisti maschili fantasticavano sul corpo femminile come oggetto di desiderio o angoscia, Smith capovolge l’equazione: fa del corpo femminile il soggetto della propria esplorazione.
Le sue prime opere degli anni 1980, questi calchi di organi interni esposti come reliquie, evocano immediatamente l’estetica surrealista di Max Ernst o Hans Bellmer. Ma Smith non si sofferma sulla bellezza convulsa cara a Breton. Preferisce l’esattezza anatomica, la precisione clinica, la verità fisiologica. I suoi “Untitled” in vetro soffiato contenenti fluidi corporei immaginari ricordano gli oggetti impossibili di Man Ray, ma spogliati della loro dimensione ludica per conservare solo il loro peso inquietante.
L’artista spinge più a fondo l’investigazione surrealista materializzando letteralmente gli impulsi dell’inconscio. Quando scolpisce “Tale” nel 1992, questa figura femminile a quattro zampe che trascina dietro di sé una corona di escrementi perle neri, Smith attualizza i fantasmi scatologici che Dalí o Bataille osavano solo evocare tramite metafore. Questa opera, che scandalizzò alla sua prima presentazione, cristallizza tutta l’ambiguità della sua posizione: rivelare senza indulgenza gli aspetti più ripugnanti della nostra condizione biologica.
Il surrealismo di Smith (per così dire) si distingue per il suo rifiuto dell’idealizzazione. Dove Magritte trasformava il corpo in un enigma poetico, Smith lo restituisce nella sua realtà prosaica. Le sue donne di cera non sono né Venere antiche né fantasie erotiche, ma anatomie precise, dettagliate, vulnerabili. Questo approccio documentaristico al meraviglioso avvicina paradossalmente Smith a fotografi surrealisti come Brassaï o Boiffard, che cercavano la stranezza nella quotidianità urbana.
L’influenza surrealista traspare anche nel suo uso del frammento corporeo. Come in Bellmer, il corpo si smembra e si ricompone secondo una logica onirica. Ma Smith evita l’erotizzazione feticista per privilegiare un approccio quasi-scientifico. I suoi cuori, polmoni, stomaci in bronzo o vetro sembrano usciti da un anfiteatro anatomico piuttosto che da una camera delle meraviglie libertine.
Questa filiazione surrealista culmina nelle opere recenti di Smith, in particolare nei suoi arazzi dove si mescolano figure umane, animali ed elementi cosmici. Queste composizioni evocano i paesaggi mentali di Yves Tanguy o le metamorfosi ovidiane di Max Ernst, pur conservando quella precisione documentaria che caratterizza l’artista. Smith realizza questa sintesi notevole: fare del surrealismo uno strumento di indagine scientifica piuttosto che un pretesto per l’evasione poetica.
Il genio di Smith risiede nella capacità di rivolgere l’eredità surrealista contro se stessa. Ella prende in prestito dal movimento le tecniche di rappresentazione dell’inconscio, ma le mette al servizio di un’esplorazione femminista del corpo femminile. Dove i surrealisti maschili proiettavano i propri fantasmi sul corpo della donna-oggetto, Smith fa del corpo femminile il territorio di una riconquista soggettiva. Il suo surrealismo anatomico diventa così uno strumento di liberazione piuttosto che di alienazione.
Architettura corporea: lo spazio come metafora fisiologica
L’opera di Kiki Smith intrattiene con l’architettura un rapporto complesso che supera la semplice questione dell’installazione nello spazio. Formata all’ombra di Tony Smith, figura maggiore della scultura minimalista e architetto di formazione, eredita una sensibilità particolare alle questioni di scala, proporzione e occupazione spaziale. Ma laddove suo padre concepiva volumi geometrici autonomi, ella sviluppa un approccio organico che fa del corpo umano la misura di tutta l’architettura.
Questa dimensione architettonica si esprime innanzitutto nel modo in cui Smith concepisce lo spazio espositivo come un organismo vivente. Le sue installazioni trasformano la galleria in un corpo anatomico gigante, ogni opera funzionando come un organo specializzato. L’esposizione diventa così una metafora fisiologica: lo spettatore si muove nelle arterie di un sistema circolatorio artistico, scopre le cavità dove si annidano le sculture-organo, percepisce la pulsazione di un insieme corporeo coerente.
Questa analogia tra spazio architettonico e anatomia umana trova la sua espressione più letterale nelle commissioni pubbliche di Smith. La sua installazione per la sinagoga di Eldridge Street nel 2010 trasforma l’edificio religioso in un corpo mistico. Le vetrate che ha progettato con l’architetto Deborah Gans funzionano come membrane permeabili tra interno ed esterno, tra sacro e profano. L’architettura tradizionale si trasforma in involucro corporeo, protettivo e vulnerabile allo stesso tempo.
Smith porta questa logica fino a concepire alcune delle sue sculture come micro-architetture abitabili. Le sue figure femminili a grandezza naturale non sono solo rappresentazioni del corpo, ma spazi potenziali di occupazione. Lo spettatore può identificarsi con queste anatomie, abitarle mentalmente, provare per empatia la loro fragilità o la loro resistenza. Questa dimensione proiettiva avvicina l’arte di Smith all’architettura fenomenologica, che privilegia l’esperienza sensibile dello spazio rispetto alla sua semplice contemplazione estetica.
L’influenza paterna si rivela anche nell’attenzione che Smith dedica alle questioni della materialità architettonica. Come Tony Smith, privilegia materiali industriali deviati dalla loro funzione originale: bronzo, acciaio, vetro, cemento. Ma li carica di una dimensione organica che suo padre evitava scrupolosamente. Il bronzo smithiano evoca la carne più che il metallo, il vetro suggerisce la membrana più che la trasparenza minerale.
Questa trasformazione dell’eredità minimalista paterna in un’estetica corporea rivela tutta l’originalità della posizione di Smith. Conserva la rigorosità formale del minimalismo, la sua attenzione alle proprietà fisiche dei materiali, il suo rifiuto dell’aneddoto narrativo. Ma reintroduce la dimensione umana che il minimalismo aveva evacuato. Le sue sculture funzionano simultaneamente come oggetti autonomi e come proiezioni corporee.
L’architettura di Smith culmina nelle sue recenti arazzi, dove lo spazio bidimensionale si dispiega come un territorio abitabile. Queste opere monumentali trasformano il muro in paesaggio, creano ambienti immersivi dove lo spettatore può perdersi visivamente. Smith riesce in questa performance paradossale: creare architettura con mezzi tessili, costruire spazio con superficie.
Questo doppio approccio, che concepisce il corpo come architettura e l’architettura come estensione corporea, rivela una concezione originale della scultura contemporanea. Smith non si limita a occupare lo spazio, lo trasforma in estensione della corporeità umana. Le sue installazioni funzionano come protesi architettoniche, amplificazioni spaziali della nostra presenza carnale nel mondo.
L’architettura di Smith propone così un’alternativa sia al minimalismo disincarnato sia all’espressionismo gestuale. Inventa una via di mezzo in cui lo spazio costruito e il corpo vissuto si nutrono reciprocamente. Questa sintesi tra rigore architettonico e sensibilità anatomica costituisce uno degli apporti più originali di Smith all’arte contemporanea.
Il laboratorio dell’abiezione
Al centro del progetto artistico di Smith risiede questa fascinazione per ciò che Julia Kristeva chiama abiezione: quella zona oscura dove crollano le distinzioni tra pulito e sporco, interno ed esterno, vivo e morto. Smith trasforma questa categoria psicoanalitica in un programma estetico, sviluppando una poetica dell’osceno che rivela le crepe nel nostro rapporto civilizzato con il corpo.
Le sue prime sculture degli anni 1980-1990 esplorano sistematicamente questo tema. I vasi pieni di fluidi corporei immaginari, gli organi isolati che galleggiano in barattoli, le figure umane che trasudano i loro umori costituiscono un inventario metodico di tutto ciò che la nostra cultura reprime. Smith non indulge nella compiacenza scatologica, ma procede con la rigore di un anatomista. Ogni opera documenta un aspetto particolare della nostra animalità repressa.
Questa estetica dell’abiezione trova la sua giustificazione nel contesto storico dell’epidemia di AIDS. Smith, che ha perso sua sorella Beatrice e molti amici artisti, fa dell’arte uno strumento di resistenza contro l’invisibilità dei corpi malati. Le sue sculture rendono visibile ciò che la società preferisce ignorare: la fragilità delle nostre difese immunitarie, la porosità dei nostri confini corporei, l’impotenza della medicina di fronte ad alcuni virus.
Ma l’abiezione smithiana supera la semplice testimonianza sociologica per interrogare le fondamenta del nostro rapporto con il femminile. Quando lei scolpisce queste donne che urinano, defecano, sanguinano, Smith rivela quanto la nostra cultura estetizzi il corpo femminile occultandone le funzioni biologiche. Pratica una sorta di realismo fisiologico che smantella i fantasmi maschili sulla purezza femminile.
Questo approccio trova il suo apice in opere come “Pee Body” (1992) o “Train” (1993), dove figure femminili si concedono ai loro bisogni naturali senza minimamente vergognarsene. Smith non cerca lo scandalo gratuito ma rivendica per le donne il diritto all’imperfezione corporea. Queste sculture funzionano come manifesti: proclamano che la bellezza femminile non si riduce ai canoni estetici maschili.
L’abiezione smithiana si nutre anche dell’immaginario religioso cattolico. Cresciuta in questa tradizione, l’artista reattiva la simbologia cristica della sofferenza corporea. Le sue figure crocifisse, le sue martiri contemporanee evocano la statuaria cristiana pur sovvertendola. Il sacrificio redentore diventa un semplice dato anatomico, la trascendenza spirituale si trasforma in immanenza carnale.
Questa dimensione religiosa dell’abiezione smithiana rivela tutta l’ambiguità della sua posizione critica. Smith non rifiuta l’eredità cristiana ma la rovescia contro se stessa. Prende dal cattolicesimo la fascinazione per la carne sofferente, ma elimina la promessa della resurrezione. I suoi corpi abietti rimangono disperatamente terreni, privi di qualsiasi consolazione metafisica.
L’evoluzione recente del lavoro di Smith verso rappresentazioni più pacate non costituisce un abbandono dell’abiezione ma il suo superamento dialettico. Gli arazzi contemporanei integrano la dimensione corporea in composizioni cosmiche più ampie. L’abiezione individuale si fonde in un’ecologia generalizzata dove umani, animali e vegetali condividono la stessa fragilità esistenziale.
Questa trasformazione rivela il vero significato del progetto di Smith. Al di là della semplice provocazione, l’abiezione funziona come strumento di conoscenza. Rivela i meccanismi psicologici e sociali che governano il nostro rapporto con il corpo. Facendoci confrontare con i nostri istinti di repulsione, Smith ci conduce a interrogare le fondamenta dei nostri disgusti civili.
L’abiezione smithiana costituisce quindi una forma di critica sociale mascherata. Rivelando ciò che la nostra cultura reprime, espone le contraddizioni dei nostri valori democratici. Una società che pretende l’eguaglianza di genere può continuare a estetizzare il corpo femminile secondo criteri esclusivamente maschili? Questa domanda attraversa tutta l’opera smithiana e le conferisce la sua dimensione politica.
L’alchimia dei materiali
La pratica artistica di Smith rivela una straordinaria padronanza tecnica che supera la semplice virtuosità artigianale per diventare un linguaggio espressivo autonomo. Questa donna, che si è formata sul campo, senza un diploma di scuola d’arte, sviluppa un approccio empirico ai materiali che privilegia la sperimentazione rispetto alla teoria. Ogni medium diventa per lei un territorio di esplorazione, un laboratorio per testare i limiti della rappresentazione corporea.
L’incisione occupa un posto centrale in questo dispositivo tecnico. Smith la considera “la fonte di tutto il mio lavoro”, secondo le sue stesse parole [2]. Questa tecnica ancestrale le consente di esplorare le infinite possibilità della ripetizione, della variazione, della moltiplicazione. Le sue serie di acqueforti funzionano come studi anatomici dove ogni prova rivela un aspetto particolare del motivo originale. L’incisione smithiana eredita la tradizione delle tavole scientifiche pur deviandola verso l’espressione soggettiva.
Questo approccio seriale, ereditato dall’insegnamento paterno, trova il suo prolungamento nella scultura. Smith concepisce le sue figure in bronzo o cera come variazioni su temi anatomici ricorrenti. Ogni pezzo costituisce uno stato particolare di una ricerca più ampia sulla rappresentazione del corpo femminile. Questo metodo richiama l’approccio fotografico di Duane Michals o Joel-Peter Witkin, che esplorano anch’essi le infinite variazioni intorno a motivi ossessivi.
La cera d’api costituisce uno dei materiali prediletti da Smith. Questa sostanza organica permette di tradurre letteralmente la consistenza della pelle umana conservando allo stesso tempo una forte dimensione simbolica. La cera evoca simultaneamente la fragilità dell’epidermide e la permanenza dell’imbalsamazione funeraria. Smith gioca su questa ambivalenza per creare figure situate al confine tra la vita e la morte.
Il bronzo, materiale nobile della statuaria tradizionale, subisce in Smith un trattamento particolare che ne rivela potenzialità espressive inedite. Le sue patine evocano talvolta la carne putrefatta, talvolta l’epidermide malata. L’artista devia la nobiltà del bronzo per esplorare gli aspetti più prosaici della condizione corporea. Questa sovversione delle gerarchie materiali rivela tutta l’ironia smithiana.
Il vetro, che lavora in particolare nelle sue installazioni per la sinagoga di Eldridge Street, diventa metafora della trasparenza corporea. Smith utilizza le proprietà ottiche di questo materiale per creare effetti di sovrapposizione, fusione, dissoluzione che evocano i processi fisiologici interni. Il vetro smithiano funziona come una pelle traslucida che rivela i meccanismi nascosti dell’organismo.
Arazzi contemporanei segnano una rivoluzione nell’approccio tecnico di Smith. Questa tecnica tessile, che sviluppa in collaborazione con gli atelier Magnolia Editions, le permette di integrare il colore nel suo vocabolario artistico. Come spiega: “Il colore mi sembrava troppo personale, troppo autoespressivo… troppo spaventoso” [3]. Gli arazzi jacquard offrono un compromesso: permettono l’uso del colore mantenendo la distanza tecnica necessaria all’oggettività smithiana.
Questa evoluzione tecnica rivela una costante nell’approccio di Smith: il rifiuto del controllo totale. L’artista privilegia le tecniche che conservano una parte di imprevedibilità, che resistono al controllo assoluto. Questa estetica dell’incidente controllato avvicina Smith agli espressionisti astratti, in particolare Jackson Pollock, che cercavano anch’essi di canalizzare le forze inconsce attraverso la tecnica pittorica.
La diversità dei medium di Smith riflette la sua concezione ampia della scultura contemporanea. Per lei, scolpire non si limita alla modellazione tradizionale, ma comprende tutte le tecniche capaci di dare forma alla materia. Questo approccio multimediale avvicina Smith agli artisti concettuali, mantenendo un attaccamento artigianale alle proprietà fisiche dei materiali.
L’alchimia di Smith trasforma i materiali industriali in metafore corporee. Lei realizza questa straordinaria sintesi tra innovazione tecnica e tradizione artigianale, tra sperimentazione formale ed espressività personale. Questa padronanza tecnica al servizio di una visione artistica singolare costituisce uno degli aspetti più notevoli dell’arte di Smith.
Verso un’ecologia del corpo
L’evoluzione recente della sua opera segna una svolta significativa che va oltre la semplice maturazione stilistica per costituire una vera e propria mutazione concettuale. L’artista, che aveva costruito la sua reputazione sull’esplorazione implacabile dell’anatomia umana, amplia gradualmente il suo campo di indagine per abbracciare una visione ecologica globale in cui il corpo umano non è più che un elemento tra gli altri in un ecosistema complesso.
Questa trasformazione inizia a metà degli anni ’90, quando Smith comincia a introdurre figure animali nel suo bestiario scultoreo. I corvi morti di “Jersey Crows” (1995), vittime dei pesticidi industriali, segnano un punto di svolta decisivo. L’artista non si limita più a esplorare la fragilità del corpo umano, ma estende la sua riflessione a tutto il vivente. Questa evoluzione coincide con la presa di coscienza ecologica degli anni ’90 e testimonia la capacità di Smith di cogliere le mutazioni contemporanee.
Gli arazzi recenti cristallizzano questa visione ecologica ampliata. Queste opere monumentali dispiegano cosmogonie tessili dove umani, animali, piante ed elementi minerali coesistono in un equilibrio precario. Smith sviluppa in esse un’estetica dell’interconnessione che richiama le teorie ecologiche contemporanee sull’interdipendenza delle specie. Ogni arazzo funziona come un ecosistema artistico in miniatura.
Questo approccio ecologico trasforma lo sguardo di Smith sul corpo femminile. Le sue figure recenti non sono più isolate nella loro sofferenza anatomica, ma integrate in ambienti naturali che le proteggono e le nutrono. La donna di Smith esce dal suo stato di vittima per diventare partner di un dialogo cosmico più ampio. Questa evoluzione testimonia una progressiva riconciliazione con la dimensione corporea.
L’introduzione di riferimenti astrologici nelle opere recenti partecipa a questa visione ecologica. Smith riattiva un pensiero analogico che stabilisce corrispondenze tra microcosmo corporeo e macrocosmo stellare. Questo approccio, che può sembrare anacronistico nell’era scientifica, rivela in realtà una ricerca di senso di fronte alla crisi ambientale contemporanea. L’astrologia di Smith funziona come una metafora poetica della nostra appartenenza cosmica.
Questa dimensione ecologica trova la sua espressione più compiuta nelle installazioni recenti, in particolare in quella dell’isola di Hydra nel 2019. Smith sviluppa un approccio contestuale che tiene conto delle particolarità geografiche e culturali del luogo di esposizione. L’arte di Smith dialoga con il paesaggio mediterraneo, si arricchisce della luce egea, si impregna della mitologia locale. Questa sensibilità contestuale rivela una maturazione dell’approccio installativo.
L’ecologia di Smith va oltre la semplice sensibilità ambientale per mettere in discussione il nostro rapporto occidentale con la natura. Riattivando figure mitologiche arcaiche, sirene, arpie, creature ibride, l’artista ci riconnette a modalità di pensiero premoderne che non separavano l’umano dal naturale. Questa archeologia simbolica funziona come una critica implicita della razionalità tecno-scientifica contemporanea.
Questa evoluzione concettuale si accompagna a una trasformazione della ricezione critica dell’opera di Smith. I commentatori non si concentrano più esclusivamente sulla dimensione dell’arte corporea femminista, ma esplorano le ramificazioni ecologiche, spirituali, cosmologiche del suo lavoro recente. Smith realizza questa delicata performance: rinnovare il suo approccio artistico senza rinunciare alle sue ossessioni fondamentali.
L’ecologia di Smith propone così una sintesi originale tra impegno politico e spiritualità contemporanea. Evita le insidie dell’attivismo ecologico semplicistico così come quelle dell’esoterismo new age per sviluppare una visione complessa della nostra collocazione nel vivente. Questa maturità concettuale conferisce alle opere recenti una dimensione profetica che supera la semplice creazione artistica.
L’arte di Smith evolve quindi verso una forma di saggezza pratica che riconcilia corpo e cosmo, individuo e collettivo, locale e universale. Questa straordinaria sintesi tra precisione anatomica e visione ecologica costituisce uno dei contributi più originali di Smith all’arte contemporanea. Essa inventa una via di mezzo tra l’introspezione narcisistica e l’impegno militante, tra il particolare e l’universale.
L’opera di Kiki Smith resiste alle categorizzazioni affrettate tanto quanto alle recuperazioni ideologiche. Questa artista singolare, che ha attraversato quarant’anni di creazione senza mai abbandonare la sua radicalità iniziale, ci lascia un corpus di notevole coerenza nonostante le apparenti contraddizioni. Dall’abiezione anatomica degli esordi all’ecologia mistica degli arazzi recenti, Smith mantiene un’esigenza che fa di ogni opera un laboratorio di sperimentazione sui limiti della rappresentazione corporea.
Il suo genio risiede in questa capacità di trasformare l’eredità artistica in strumento di conoscenza contemporanea. Ella prende dal surrealismo le tecniche di esplorazione dell’inconscio, dall’architettura minimalista la sua rigore formale, dal cattolicesimo la simbologia della sofferenza redentrice, ma le rovescia per servire una visione femminista ed ecologica del mondo. Questa alchimia culturale conferisce all’arte di Smith una ricchezza semantica che spiega la sua risonanza internazionale.
L’attualità di Smith risiede anche nella sua capacità di anticipazione. Quando scolpisce negli anni Ottanta quei corpi defedati consumati dalla malattia, prevede le mutazioni del nostro rapporto con il vivente che rivelerà l’epidemia di Covid-19. Quando sviluppa negli anni 2010 la sua visione ecologica, anticipa i dibattiti contemporanei sull’Antropocene e sul crollo della biodiversità. Questa dimensione visionaria fa dell’arte di Kiki Smith uno strumento di prospettiva sociologica tanto quanto un oggetto di contemplazione estetica.
Resta questa domanda inquietante posta implicitamente da tutta la sua opera: come abitare un corpo fragile in un mondo ostile? Questa interrogazione attraversa epoche e civiltà, ma Smith le conferisce un’urgenza contemporanea che rivela le aporie della nostra modernità tecnoscientifica. Confrontandoci con la nostra animalità repressa, ci porta a mettere in discussione i fondamenti della nostra supposta umanità. Questa funzione critica principale assicura all’arte di Smith una longevità che supera le mode artistiche contingenti.
- France Culture, intervista radiofonica, 2019, citata in NAD NOW, “Kiki Smith, Wild Woman”, luglio 2020.
- Alain Elkann Interviews, intervista con Kiki Smith, dicembre 2018.
- Claire Barliant, “Se riesci a vivere più a lungo della maggior parte degli uomini, improvvisamente puoi essere venerata, un’intervista con Kiki Smith”, Apollo Magazine, ottobre 2019.
















