Ascoltatemi bene, banda di snob : ecco un artista che merita qualcosa di più dei vostri cenni condiscendenti del capo e delle vostre abituali referenze. Gully, questo misterioso alchimista della tela nato nel 1977, forgia da più di quindici anni un’opera che rompe le nostre certezze sull’arte contemporanea. Dietro l’anonimato volontario si cela un creatore che maneggia l’appropriazione con una rara intelligenza, trasformando le nostre comuni referenze in teatro intimo dello stupore infantile.
Il suo percorso artistico inizia negli anni ’90 all’interno della cultura graffiti della regione parigina, dove impara l’arte della visibilità e del riconoscimento. Ma contrariamente ai suoi contemporanei che hanno esteso la loro pratica urbana verso le gallerie, Gully nel 2008 compie una netta cesura, adottando un nuovo pseudonimo per segnare questa transizione dall’illegalità allo studio. Questa rottura, perché di questo si tratta, rivela una maturità artistica che rifiuta la facilità dello storytelling biografico per concentrarsi sull’essenziale: l’opera.
Infatti l’opera di Gully non si limita a riciclare i codici dello street art nello spazio codificato dell’arte contemporanea. Essa attinge alla grande tradizione dell’appropriazione postmoderna infondendole una dimensione narrativa propria. Le sue tele di grande formato mettono in scena bambini in sontuosi scenari, confrontati con i capolavori della storia dell’arte. Questi piccoli personaggi, Andy, Jean-Michel e Salvador, non sono semplici spettatori passivi ma attori a pieno titolo che interagiscono, giocano, a volte persino trasgrediscono di fronte alle opere canoniche.
La memoria di Bergson e l’architettura dell’infanzia
L’opera di Gully si illumina particolarmente alla luce della filosofia della memoria di Bergson. Henri Bergson, nel suo fondamentale libro Matière et mémoire pubblicato nel 1896 [1], sviluppa una concezione rivoluzionaria della temporalità che trova un’eco straordinaria nell’arte del nostro pittore anonimo. Per Bergson, la memoria non è un semplice serbatoio di ricordi immagazzinati nel cervello, ma un processo dinamico che attualizza il passato nel presente dell’azione. Questa concezione temporale, che distingue tra memoria-abitudine e memoria pura, offre una chiave di lettura feconda per comprendere l’approccio artistico di Gully.
Quando osserviamo le tele dell’artista, assistiamo a questa attualizzazione bergsoniana del passato artistico nel presente dell’esperienza estetica. I bambini dipinti da Gully incarnano questa memoria pura di cui parla il filosofo francese, questa capacità di far emergere il passato non come ripetizione meccanica ma come creazione nuova. Non riproducono i gesti dei maestri ma li reinventano con la spontaneità dell’infanzia. In The Children meet Picasso, Murakami, Haring, Magritte, Koons, Basquiat, De Saint- Phalle and Lichtenstein 29 (2023), aggiudicato 195.000 euro nel 2024, vediamo così bambini danzare e giocare in una sala museale, in mezzo a sculture e quadri famosi, trasformando l’eredità artistica in un terreno di gioco contemporaneo.
Questa dimensione memoriale si articola strettamente con l’architettura degli spazi che dipinge Gully. I suoi decori sontuosi, che si tratti di musei immaginari o di atelier fantastici, costituiscono altrettanti spazi-tempi propri di Bergson dove il passato artistico coesiste con la spontaneità infantile. Bergson insiste sul fatto che “il nostro presente è la materialità stessa della nostra esistenza” [1], ed è proprio questa materialità che Gully cattura nelle sue architetture pittoriche. I marmi, le dorature, le prospettive sapienti formano un cofanetto materiale che permette l’attualizzazione della memoria artistica.
Il bambino in Gully diventa così il mediatore privilegiato di questa temporalità di Bergson. Egli non si trova né nella pura ripetizione del passato né nell’oblio dell’eredità, ma in questa zona intermedia che Bergson chiama “riconoscenza attenta”, dove la memoria diventa creatrice. I piccoli personaggi dell’artista riconoscono le opere dei maestri pur distorcendole, interrogandole, abitando esse in modo differente. Attualizzano l’eredità artistica non come conservatori di musei ma come creatori in divenire.
Questo approccio bergsoniano alla memoria permette di comprendere perché Gully rifiuta l’istoricismo facile del pastiche per privilegiare un’appropriazione creativa. I suoi bambini non visitano un museo morto ma abitano uno spazio-tempo vivo dove Picasso può incrociare Warhol, dove Hopper dialoga con Basquiat. Questa co-presenza temporale, impossibile nella storia lineare tradizionale, diventa naturale nello spazio memoriale di Bergson che l’artista crea. Le architetture di Gully funzionano così come macchine per attualizzare il tempo artistico, dispositivi spazio-temporali che permettono l’incontro impossibile tra le epoche.
L’architettura gioca anche un ruolo fondamentale in questa economia memoriale. Gli spazi dipinti da Gully non sono mai neutri: portano in sé la memoria dei luoghi d’arte, di quelle “cattedrali” che sono musei e gallerie. Ma l’artista li abita con una presenza infantile che li trasforma radicalmente. Il bambino di Gully non contempla l’arte da una distanza rispettosa ma vi si immerge corporalmente, attualizzando col suo gioco la virtualità delle opere passate.
Questa dimensione architettonica rivela un’altra faccia dell’eredità di Bergson in Gully: la critica della spazializzazione del tempo. Bergson rimprovera al pensiero occidentale di “spazializzare il tempo”, cioè di concepirlo secondo il modello dello spazio geometrico. Ebbene, le architetture di Gully sembrano proprio sfuggire a questa critica creando spazi-tempi ibridi dove la geometria classica è abitata dalla durata vissuta dell’infanzia. Le sue prospettive non sono mai puramente geometriche ma sempre animate dalla presenza ludica dei bambini che le trasformano in terreni di gioco temporali.
L’appropriazione postmoderna e la critica istituzionale
La seconda griglia di lettura che illumina l’opera di Gully ci viene dalla teoria critica americana e più precisamente dai lavori di Hal Foster sull’appropriazione postmoderna. Nel suo libro The Anti-Aesthetic: Essays on Postmodern Culture pubblicato nel 1983 [2], Foster analizza le strategie di appropriazione sviluppate dagli artisti della sua generazione come una forma di resistenza alla cultura del consumo e alle istituzioni artistiche tradizionali.
L’appropriazione da parte di Gully si colloca in questa linea di critica distinguendosi tuttavia per la sua dimensione ludica e narrativa. Là dove gli artisti analizzati da Foster, Sherrie Levine, Richard Prince e Cindy Sherman, per esempio, praticavano un’appropriazione spesso fredda e concettuale, Gully riscalda l’esercizio con la presenza dei suoi piccoli personaggi. Questa differenza non è casuale: rivela uno spostamento dalla critica istituzionale verso un approccio più inclusivo e pedagogico dell’arte.
I bambini di Gully non denunciano l’istituzione museale ma la reinventano. Trasformano lo spazio sacro del museo in un terreno di gioco, rivelando così le possibilità di un rapporto meno solenne con l’arte. Questo approccio si riallaccia alle preoccupazioni di Foster quando auspica un’arte postmoderna di resistenza piuttosto che di reazione [2]. L’opera di Gully resiste effettivamente all’intimidazione culturale evitando però l’iconoclastia gratuita.
La critica istituzionale in Gully passa quindi attraverso l’affermazione di un diritto all’arte per tutti, compresi i più giovani. Le sue tele funzionano come manifesti discreti per una democratizzazione dell’accesso all’arte. I bambini che dipinge non sono visitatori modello che rispettano le norme museali, ma esploratori curiosi che si appropriano liberamente dell’eredità artistica. Questa trasgressione dolce rivela i codici impliciti dell’istituzione proponendo al contempo un’alternativa benevola.
L’appropriazione in Gully funziona anche come critica all’originalità artistica. Mettendo in scena l’incontro tra i bambini e le opere canoniche, egli rivela che ogni creazione si radica in un’eredità precedente. I suoi piccoli personaggi non plagiano i maestri ma dialogano con loro, attualizzando l’insegnamento di Foster secondo cui “l’appropriazione rivela che ogni rappresentazione è sempre già appropriazione” [2]. Questa messa in abisso dell’influenza artistica smorza l’ansia dell’influenza celebrando al contempo la trasmissione culturale.
La dimensione critica dell’opera si rivela anche nella scelta dell’anonimato. Rifiutando la celebrità personale, Gully critica implicitamente l’economia della starificazione artistica contemporanea. Come spiega lui stesso: “è il suo lavoro e le storie che racconta che devono prevalere e non la sua persona”. Questa posizione etica si inserisce nella linea delle critiche postmoderne dell’autore-artista sviluppate da Foster e i suoi contemporanei.
L’anonimato di Gully rivela anche una consapevolezza acuta delle sfide commerciali dell’arte contemporanea. Sfuggendo alla personalizzazione mediatica, preserva uno spazio di libertà creativa che sfugge alle logiche del marchio personale. Le sue opere più grandi, che ora superano le stime di 100.000€, testimoniano un successo commerciale che non ha intaccato l’integrità del suo approccio. Questo successo paradossale, un anonimo famoso, un critico del sistema acclamato dal mercato, illustra le contraddizioni feconde dell’arte postmoderna analizzate da Foster.
La critica istituzionale in Gully si esprime infine nel suo rapporto con la storia dell’arte. Le sue appropriazioni non rispettano la tradizionale cronologia storica ma creano anacronismi fecondi. Quando fa dialogare Rockwell con Picasso o confronta i bambini con le opere di Magritte, rivela l’arbitrarietà delle classificazioni storiche affermando al contempo la contemporaneità permanente delle grandi opere. Questo approccio si riallaccia alle analisi di Foster sulla temporalità complessa dell’arte postmoderna, che mescola epoche e sovverte le genealogie stabilite.
L’economia dello stupore
Ma ridurre l’opera di Gully alle sue dimensioni teoriche sarebbe perdere il suo fascino essenziale: la sua capacità di suscitare meraviglia. Dietro la sofisticazione concettuale si nasconde infatti un’opera profondamente generosa, che punta al piacere estetico piuttosto che all’intimidazione intellettuale. I bambini dipinti da Gully sono i nostri ambasciatori nel mondo dell’arte: ci mostrano la strada di un rapporto senza complessi con la creazione.
Questa economia della meraviglia si rivela particolarmente nella tecnica pittorica dell’artista. I suoi miscugli di pittura a olio, acrilico, pennarelli e aerosol creano una materialità ricca che affascina ancor prima di comprenderne il senso. Gully padroneggia perfettamente i codici del fotorrealismo quando riproduce le opere dei maestri, ma sa anche deviarli con malizia quando i suoi bambini intervengono nell’immagine. Questa virtuosità tecnica al servizio di un discorso accessibile costituisce una delle forze del suo lavoro.
L’artista ha inoltre sviluppato una vera e propria galleria di personaggi ricorrenti che funzionano come figure familiari per lo spettatore. Andy (chiara referenza a Warhol), Jean-Michel (Basquiat), Salvador (Dalí) o Pablo (Picasso) ritornano di tela in tela, creando una continuità narrativa che fidelizza lo sguardo. Questa dimensione seriale, ereditata dai suoi anni da writer, permette a Gully di costruire un universo coerente dove ogni nuova opera arricchisce l’insieme.
Il suo successo commerciale testimonia questa capacità di raggiungere un vasto pubblico senza sacrificare l’esigenza artistica. I record di vendita, come ad esempio 168.000 euro al martello per il suo trittico Children meet Delacroix, Géricault, Poussin and Manet/Children meet Banksy, Gully, Obey, Jonone/Children meet Picasso, Hopper, Hirst nel 2021, rivelano una forte domanda per un’arte che concilia sofisticazione e accessibilità.
Questo successo pone ovviamente la questione del recupero commerciale della critica istituzionale. Come può un’arte che interroga i codici dell’istituzione trionfare nello stesso mercato che pretende di criticare? La risposta forse risiede nella natura stessa dell’appropriazione postmoderna, che ha imparato a convivere con le proprie contraddizioni. Gully non pretende di sfuggire al mercato dell’arte ma vi mantiene uno spazio di interrogazione e di piacere estetico.
Il suo rifiuto delle mostre personali dal 2017, motivato da “un manque de tableaux disponibles”, rivela d’altra parte una coscienza acuta di queste sfide. Limitando la sua produzione e privilegiando la qualità sulla quantità, preserva la singolarità del suo lavoro di fronte alle pressioni del mercato. Questa strategia della scarsità, paradossalmente, rafforza la sua critica del produttivismo artistico contemporaneo.
L’opera di Gully interroga dunque i nostri rapporti con l’eredità culturale, con l’istituzione artistica e con la trasmissione dei saperi. Lo fa con intelligenza e generosità che suscitano ammirazione. In un mondo dell’arte spesso chiuso su se stesso, questo anonimo volontario ci ricorda che l’arte può ancora essere un linguaggio condiviso, uno spazio di incontro tra generazioni e sensibilità.
I suoi bambini meravigliati sono forse ciò che abbiamo perso lungo il cammino: quella capacità di stupirci di fronte alla bellezza, di giocare con le forme, di reinventare instancabilmente il nostro rapporto con il mondo. Gully ci offre una lezione di umiltà e speranza: l’arte non appartiene a nessuno e appartiene a tutti. A volte basta uno sguardo da bambino per ricordarcelo.
L’artista ci insegna che la sofisticazione teorica e la semplicità emotiva non sono in opposizione ma possono alimentarsi a vicenda. La sua opera dimostra che è possibile pensare l’arte contemporanea senza rinunciare al piacere estetico, criticare le istituzioni senza cadere nel nichilismo, ereditare il passato senza scadere nell’accademismo. In questo senso, Gully incarna forse una delle vie più promettenti dell’arte di oggi: quella di una critica benevola che punta sull’intelligenza collettiva piuttosto che sull’elitarismo culturale.
Il suo anonimato, ben lontano dall’essere un vezzo d’artista, rivela un’etica della creazione che pone l’opera prima dell’ego. In un mondo saturo di immagini e discorsi, questa discrezione volontaria risuona come una lezione di saggezza. Gully ci ricorda che l’arte vera non ha bisogno di fare rumore per farsi sentire: le basta semplicemente toccare il pubblico.
- Henri Bergson, Matière et mémoire, Parigi, Presses Universitaires de France, 1896.
- Hal Foster (a cura di), The Anti-Aesthetic: Essays on Postmodern Culture, Seattle, Bay Press, 1983.
















