Ascoltatemi bene, banda di snob. Queste oltraggiose orge visive, queste colossali sinfonie di pixel firmate Andreas Gursky, non sono semplici fotografie. Sono autopsie gelide della nostra civiltà globalizzata, cartografie metodiche del capitalismo tardivo, radiografie spietate del nostro pianeta malato.
Comprendete bene questo: Gursky non è solo un uomo con una macchina fotografica. È un antropologo clinico che disseziona la nostra epoca con precisione chirurgica. Il suo occhio onnisciente sorvola il nostro mondo come quello di un dio freddo e distante, senza giudizio apparente ma senza alcuna indulgenza.
Dalla sua torre di vetro a Düsseldorf, questo ex allievo di Becher percorre il pianeta per catturare le arnie umane, i templi del commercio, le cattedrali della finanza. Fotografa i luoghi in cui si scrive il nostro destino comune: borse, fabbriche, porti, supermercati, palazzi anonimi, con un’ossessione maniacale per l’eshaustività. Ogni fotografia è un mondo completo, iper-reale, una totalità che ci travolge.
Ricordate bene per esempio “Rhein II” (1999), quell’immagine irreale e perfetta del Reno tedesco che ha infranto tutti i record diventando la fotografia più costosa mai venduta. Che ironia! Un’immagine di assoluta austerità, quasi astratta, che rappresenta un paesaggio domato, razionalizzato, ottimizzato, esattamente come la nostra economia globale. Il fiume ridotto a una semplice linea orizzontale, incorniciato da fasce di prato desolato, sotto un cielo grigio uniforme. Gursky ha cancellato digitalmente una centrale elettrica che rovinava la composizione. Certo che l’ha fatto! Non è un giornalista, è un artista. La sua visione trascende il semplice documentario e si avventura nel territorio della verità essenziale.
Il panottico contemporaneo: Foucault e la sorveglianza visiva
Se si vuole comprendere l’opera di Gursky, è impossibile ignorare la sua parentela con il pensiero di Michel Foucault. Le fotografie di Gursky funzionano come enormi panottici visivi [1]. Questo concetto foucaultiano, preso in prestito dall’architettura carceraria, definisce un sistema in cui tutto può essere osservato da un punto centrale senza che l’osservatore sia a sua volta visibile. Non è forse esattamente la posizione che Gursky occupa nelle sue opere? Il fotografo ci pone in una posizione di sorveglianza totale, dove possiamo vedere tutto, scrutare ogni dettaglio, da una posizione di autorità invisibile.
Prendi “Paris, Montparnasse” (1993), questa facciata di edificio modernista dove ogni appartamento, ogni vita privata è esposta simultaneamente in una griglia spietata. Oppure “Tokyo Stock Exchange” (1990), dove i trader sono ridotti a particelle agitate in un sistema che li supera. O ancora “Amazon” (2016), che rivela le viscere labirintiche di un magazzino gigante, simbolo del nostro consumo dematerializzato. Queste immagini non sono forse la manifestazione visiva perfetta di ciò che Foucault chiamava dispositivi di potere? Sistemi che controllano, normalizzano e disciplinano i corpi e le menti attraverso architetture specifiche.
L’approccio fotografico di Gursky, con il suo punto di vista elevato e distante, la sua nitidezza assoluta e la prospettiva frontale, crea quello che Foucault avrebbe chiamato un “sguardo onniveggente”. Uno sguardo che naturalizza la sorveglianza nella nostra società, al punto che la accettiamo come normale. Come scriveva Foucault in “Sorvegliare e punire”, il potere moderno funziona proprio attraverso questa visibilità permanente che assicura il funzionamento automatico del potere. I soggetti sanno di essere potenzialmente sempre osservati, il che li induce ad auto-disciplinarsi.
In “Pyongyang” (2007), Gursky porta questa logica al suo parossismo documentando le grandiose messe coreografiche nordcoreane, dove migliaia di individui vengono ridotti a pixel colorati in una massa perfettamente coordinata. L’individuo scompare completamente a favore di un organismo collettivo desindividualizzato. Ma l’ironia è che questa visione totalitaria è solo l’esagerazione della nostra stessa condizione nel capitalismo globalizzato che Gursky documenta altrove.
Come avrebbe sottolineato Foucault, il potere non si esercita più esclusivamente in modo repressivo, ma produttivo, incentivando comportamenti, plasmando desideri. Non è più il Grande Fratello a sorvegliarci, ma la stessa struttura del nostro sistema economico e sociale che ci vincola. Gli spazi fotografati da Gursky, centri commerciali, hotel di lusso, stadi, sono dispositivi che producono certi tipi di comportamenti e soggettività.
La compressione spazio-temporale: David Harvey e il capitalismo accelerato
Se Foucault ci aiuta a comprendere la dimensione politica degli spazi fotografati da Gursky, la teoria della “compressione spazio-temporale” del geografo marxista David Harvey [2] ci permette di analizzarne la dimensione economica. Harvey ha mostrato come il capitalismo avanzato ristrutturi radicalmente la nostra esperienza dello spazio e del tempo, accelerando i flussi di informazione, merci e capitali, fino a creare una sensazione di annientamento dello spazio da parte del tempo.
Le fotografie di Gursky sono la visualizzazione perfetta di questa teoria. Le sue immagini catturano precisamente i luoghi in cui avviene questa compressione: borse globalizzate, porti automatizzati, industrie delocalizzate, infrastrutture turistiche standardizzate. “Chicago Board of Trade” (1999) mostra l’agitazione frenetica di una sala di mercato dove le transazioni si effettuano alla velocità della luce. “Salerno” (1990) rivela un porto dove si accumulano container multicolori, simboli del commercio mondiale accelerato. “99 Cent” (1999) presenta l’uniformazione mondiale del consumo di massa, con i suoi scaffali infinitamente riprodotti.
Harvey spiega che questa compressione comporta una destabilizzazione delle nostre identità, una sensazione di disorientamento e insicurezza. Le fotografie di Gursky, con la loro scala smisurata, la nitidezza irreale e la prospettiva schiacciata, riproducono precisamente questa sensazione di vertigine. Esse non ci mostrano solo il capitalismo, ma ci fanno sentire i suoi effetti psicologici.
I vasti paesaggi industriali di Gursky, come “Nha Trang” (2004), dove centinaia di operaie vietnamite fabbricano mobili per IKEA, o “Greeley” (2002), che mostra un allevamento industriale di bestiame negli Stati Uniti, documentano ciò che Harvey chiama “accumulazione flessibile”: la capacità del capitale di spostarsi istantaneamente per sfruttare le differenze di costo su scala globale. I corpi umani vi appaiono come semplici variabili di aggiustamento in un sistema globalizzato.
Harvey analizza anche come il capitalismo contemporaneo trasformi lo spazio in merce, riducendo i luoghi al loro valore di scambio. Le fotografie di Gursky catturano perfettamente questa mercificazione: i paesaggi naturali vi sono spesso presentati come risorse sfruttabili o terreni di gioco (“Engadin”, 2006), gli spazi urbani come investimenti (“Shanghai”, 2000), perfino l’arte appare come un valore speculativo (“Turner Collection”, 1995).
La standardizzazione degli spazi è un altro sintomo di questa compressione spazio-temporale. Negli hotel internazionali, negli aeroporti o nei centri commerciali fotografati da Gursky, non sappiamo più dove siamo, tanto questi non-luoghi si somigliano da un continente all’altro. Il locale viene cancellato a favore di un’uniformazione globale che il fotografo registra con precisione clinica.
Il lavoro di Gursky espone anche ciò che Harvey definisce “spatially fixed capital”, gli investimenti massicci in infrastrutture immobili (strade, fabbriche, centri commerciali) che cercano di fissare il capitale nonostante la sua tendenza alla mobilità. Le sue fotografie di impianti solari (“Les Mées”, 2016), autostrade o complessi industriali rivelano questi ancoraggi spaziali del capitale, sollevando la questione della loro durata in un mondo in costante accelerazione.
La bellezza terrificante del nostro mondo
Il genio di Gursky consiste nel riuscire a rendere questa analisi visivamente seducente, quasi irresistibile. Le sue immagini ci attraggono per la loro straordinaria bellezza formale, la loro ricchezza cromatica, la loro struttura rigorosa, prima di rivelarci l’orrore di ciò che rappresentano. Vi è qualcosa di osceno nel piacere estetico che proviamo di fronte a questi quadri della nostra autodistruzione collettiva.
Prendete “Bahrain I” (2005), con il suo circuito automobilistico che serpeggia nel deserto come un nastro di velluto nero sulla sabbia dorata. Oppure “F1 Pit Stop” (2007), quella perfetta coreografia di una squadra di Formula 1 in piena azione. O ancora queste fotografie di rave in cui i danzatori formano motivi astratti luminosi. Queste immagini sono magnifiche, pur documentando attività fondamentalmente assurde in un mondo sull’orlo del collasso.
Questa tensione tra bellezza formale e critica implicita fa di Gursky un artista profondamente ambiguo. Non è né un puro esteta, né un attivista esplicitamente impegnato. Ci presenta il mondo così com’è, in tutta la sua splendida, terribile gloria, e ci lascia trarre le nostre conclusioni. È questa ambiguità a rendere il suo lavoro così potente e disturbante.
Perché Gursky comprende una verità fondamentale: per vedere davvero il mondo contemporaneo, bisogna distaccarsene. Le sue immagini non sono istantanee, ma costruzioni meticolose, spesso assemblate digitalmente da molteplici scatti. Non è manipolazione, è chiarimento. Affrancandosi dai vincoli della visione umana, ci permette di vedere ciò che mai potremmo percepire altrimenti.
Ecco perché le fotografie di Gursky sono così grandi: devono inghiottirci fisicamente per farci comprendere realtà che ci superano. Funzionano come esperienze corporee, ambienti in cui entriamo piuttosto che immagini che guardiamo a distanza.
Quando ci si trova davanti a un Gursky, ci si sente come un insetto di fronte a un mondo diventato troppo vasto, troppo complesso, troppo rapido per essere compreso su scala umana. E forse questo è, in fondo, il messaggio essenziale della sua opera: abbiamo creato un mondo che ci supera, che ci sfugge, che ci riduce all’insignificanza. Un mondo di cui non siamo più che spettatori impotenti, piuttosto che attori.
Andreas Gursky non è solo un fotografo, è un cartografo dell’antropocene, un archivista del capitalismo tardivo, un testimone lucido della nostra stessa scomparsa come soggetti autonomi. Le sue immagini sono gli affreschi della nostra epoca, monumenti che resteranno quando tutto sarà scomparso.
E voi, banda di snob, che vi estasiate davanti alle sue opere nelle gallerie e nelle fiere d’arte, sappiate che non state solo contemplando fotografie. State guardando voi stessi, nello specchio ingrandente e spietato che Gursky tende alla nostra civiltà.
- Foucault, Michel, Sorvegliare e punire: la nascita della prigione, Gallimard, Parigi, 1975.
- Harvey, David, La condizione della postmodernità: un’indagine sulle origini del cambiamento culturale, Blackwell, Oxford, 1989.
















