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Li Jin : L’inchiostro della trasgressione sensuale

Pubblicato il: 11 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Li Jin trasforma l’arte tradizionale cinese in una celebrazione sensuale della quotidianità, creando opere dove sontuosi banchetti e corpi voluttuosi si affiancano a una profonda riflessione esistenziale. Il suo stile unico mescola tecnica classica e sensibilità contemporanea in un’audace esplorazione della condizione umana.

Ascoltatemi bene, banda di snob, Li Jin, nato nel 1958 a Tianjin, è l’incarnazione stessa di quella deliziosa contraddizione che mette in discussione le vostre certezze sull’arte contemporanea cinese. Ecco un artista che ha il coraggio di prendere il pennello tradizionale e intingerlo nell’inchiostro della trasgressione con un godimento non nascosto, offrendo al contempo una profonda riflessione sulla condizione umana.

La sua prima tematica artistica ruota attorno a questa ossessione viscerale per i piaceri sensuali, in particolare il cibo e la carne. Nelle sue opere degli anni ’90 e 2000 ci offre banchetti traboccanti dove personaggi paffuti, spesso un autoritratto appena velato, si crogiolano in una sregolatezza di colori e forme. Non è senza richiamare la nozione di “carnivalesco” di Michail Bachtin, dove il corpo grottesco diventa un atto di resistenza contro l’ordine stabilito. I suoi banchetti esuberanti sono popolati da figure voluttuose che sfidano le convenzioni sociali con un’insolenza gioiosa. Li Jin trasforma la tradizione della pittura cinese in un teatro della trasgressione gioiosa, dove ogni colpo di pennello è una celebrazione della vita nel suo aspetto più carnale.

Ma non lasciatevi ingannare, dietro queste scene edonistiche si nasconde una profonda malinconia esistenziale. Questi banchetti esuberanti sono in realtà vanità contemporanee, una riflessione sulla fugacità dei piaceri terreni che avrebbe fatto sorridere Arthur Schopenhauer. La solitudine trapela attraverso ogni colpo di pennello, come un’eco al pensiero di Maurice Merleau-Ponty sulla fenomenologia della percezione: il corpo come punto di convergenza tra l’essere e il mondo. Li Jin ci mostra che il piacere può essere sia una celebrazione sia una forma di resistenza contro la vacuità dell’esistenza.

La sua arte è profondamente radicata nella quotidianità, ma la trascende per raggiungere una dimensione quasi mitologica. Le sue scene di banchetti non sono semplici rappresentazioni di pasti, ma allegorie della condizione umana. I corpi che dipinge, con le loro carni generose e le pose languide, diventano simboli di resistenza contro l’uniformazione e la disumanizzazione della società contemporanea. Nel suo lavoro c’è una forma di rivolta silenziosa contro la standardizzazione dei corpi e dei desideri.

Nel 1984, spinto da una ricerca spirituale che ricorda stranamente quella di Paul Gauguin in Polinesia, Li Jin si autoesilia in Tibet. Questa esperienza segna l’inizio della sua seconda tematica artistica: la ricerca di un’autenticità primitiva e di una connessione viscerale con la natura. Il confronto con i rituali funebri tibetani, in particolare la sepoltura celeste, trasforma radicalmente la sua percezione del corpo e dell’esistenza. Questa esperienza riecheggia le riflessioni di Georges Bataille sulla trasgressione e il sacro. Il corpo, nella sua materialità più cruda, diventa il luogo di una rivelazione metafisica.

Il suo soggiorno in Tibet gli permette di sviluppare un’estetica del xianhuo (vivacità) che trascende la semplice rappresentazione per raggiungere una verità più profonda sulla condizione umana. I paesaggi tibetani, con i loro vasti spazi e la luce implacabile, diventano il teatro di una trasformazione interiore. Li Jin vi scopre una forma di spiritualità che non è nel rifiuto del corpo, ma nella sua accettazione totale, compreso ciò che ha di più peribile.

Questo periodo tibetano influenza profondamente la sua tecnica pittorica. Sviluppa un approccio più gestuale, più spontaneo, che cerca di catturare l’essenza stessa della vita piuttosto che la sua semplice apparenza. I suoi colpi di pennello diventano più audaci, più espressivi, come se l’esperienza dell’altitudine avesse liberato il suo gesto. La tradizione della pittura a inchiostro cinese viene così reinventata attraverso il prisma di questa esperienza estrema.

Nelle sue opere recenti, particolarmente dal 2015, abbandona il colore per concentrarsi sulle infinite sfumature dell’inchiostro nero. Questa svolta radicale non è senza ricordare la nozione di “disfamiliarizzazione” teorizzata da Victor Chklovski: spogliandosi degli artifici cromatici, Li Jin ci costringe a vedere il mondo con uno sguardo nuovo. I suoi ritratti monocromatici, eseguiti in uno stile audace, hanno un’intensità psicologica sorprendente. Il nero diventa uno spettro infinito di possibilità espressive, richiamando le ricerche di Pierre Soulages sull’outrenoir.

Questo periodo monocromatico rappresenta una nuova tappa nella sua esplorazione della condizione umana. I volti che dipinge sembrano emergere dalle profondità dell’inchiostro come apparizioni spettrali, portatori di una verità inquietante sulla nostra natura profonda. In queste opere vi è una tensione palpabile tra presenza e assenza, tra materialità e spiritualità, che richiama le riflessioni di Martin Heidegger sull’essere e il nulla.

La maestria tecnica di Li Jin raggiunge qui vette vertiginose. La sua capacità di modulare le tonalità dell’inchiostro, di giocare con gli incidenti del mezzo, testimonia una profonda comprensione delle possibilità espressive della pittura tradizionale cinese. Ma questa virtuosità non è mai fine a se stessa: è messa al servizio di una ricerca esistenziale che conferisce alla sua opera una dimensione universale.

La traiettoria artistica di Li Jin è uno schiaffo magistrale a tutti coloro che pensano che l’arte contemporanea cinese debba scegliere tra tradizione e modernità. Egli crea una nuova forma di espressione che trascende questa dicotomia semplicistica, pur mantenendo un’autenticità viscerale che manca dolorosamente a molti artisti contemporanei. La sua capacità di trasformare il quotidiano in un’esperienza sublime, mantenendo uno sguardo critico sulla società di consumo cinese, lo rende uno degli artisti più incisivi della sua generazione.

La sua arte è profondamente radicata nella tradizione cinese, ma la reinventa costantemente. Le tecniche ancestrali della pittura a inchiostro diventano nelle sue mani strumenti di esplorazione del mondo contemporaneo. Nel suo lavoro esiste una tensione creativa tra eredità e innovazione che risuona con le riflessioni di Walter Benjamin sulla tradizione nell’era della riproducibilità tecnica.

Li Jin ci mostra che la vera tradizione non è una prigione ma un trampolino verso nuove forme di espressione. La sua padronanza delle tecniche tradizionali gli permette paradossalmente una maggiore libertà creativa. Può così permettersi audaci forme formali che sarebbero impossibili senza questa solida base. È questa dialettica tra tradizione e innovazione a dare alla sua opera la sua potenza unica.

Le sue opere sono una celebrazione della vita in tutta la sua complessità, oscillando tra gioia esuberante e meditazione esistenziale. Questa dualità ricorda il pensiero di Friedrich Nietzsche sull’equilibrio tra l’apollineo e il dionisiaco. Li Jin riesce nell’impresa di creare un’arte che è allo stesso tempo profondamente radicata nella tradizione cinese e risolutamente contemporanea nella sua sensibilità.

La dimensione autobiografica del suo lavoro aggiunge un ulteriore livello di complessità alla sua opera. Le figure che dipinge, spesso ispirate alla sua immagine stessa, diventano archetipi universali della condizione umana. In questa costante auto-rappresentazione c’è una forma di umiltà paradossale: dipingendo se stesso, cerca di cogliere l’umanità intera.

L’umorismo gioca anch’esso un ruolo non trascurabile nel suo lavoro. I suoi personaggi, con i loro corpi generosi e le loro attitudini disinvolte, incarnano una forma di resistenza gioiosa contro le convenzioni sociali. Ma questo umorismo non è mai fine a se stesso: serve a rivelare verità più profonde sulla natura umana. È un umorismo che disarma per meglio toccare il cuore.

La sensualità nella sua opera non è semplicemente una celebrazione dei piaceri carnali, ma un’affermazione della vita di fronte alla coscienza acuta della morte. La sua esperienza in Tibet, in particolare il confronto con i rituali funerari, gli ha donato una profonda comprensione della relazione tra Eros e Thanatos. Le sue scene di banchetti più esuberanti sono attraversate da questa consapevolezza della finitezza umana.

Il rapporto con il tempo nella sua opera è particolarmente affascinante. I suoi dipinti catturano momenti di piacere intenso, ma questi istanti sono sempre presentati come precari, sul punto di scomparire. C’è una meditazione sottile sulla natura effimera dell’esistenza che ricorda la concezione buddhista dell’impermanenza. I piaceri che rappresenta sono tanto più preziosi perché fugaci.

La dimensione politica della sua opera, sebbene mai esplicita, è comunque presente. Le sue rappresentazioni di corpi godenti possono essere lette come una sottile critica della società di consumo cinese contemporanea. Celebrare piaceri semplici e sensuali è una forma di resistenza silenziosa alla mercificazione generalizzata dell’esistenza.

L’evoluzione della sua tecnica pittorica riflette una profonda maturazione spirituale. Il passaggio dal colore al monocromo non è una semplice scelta estetica, ma il riflesso di una ricerca interiore. Le infinite sfumature dell’inchiostro nero gli permettono di esplorare territori emotivi e spirituali più sottili e profondi.

Li Jin dimostra indiscutibilmente che è possibile essere profondamente contemporanei attingendo alle risorse della cultura tradizionale. È una lezione particolarmente preziosa nell’epoca della globalizzazione culturale.

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Riferimento/i

LI Jin (1958)
Nome: Jin
Cognome: LI
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Cina

Età: 67 anni (2025)

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