Ascoltatemi bene, banda di snob. Lisa Brice dipinge come altri respirano: con quell’urgenza vitale che distingue i veri artisti dai fabbricanti d’immagini. Nelle sue tele saturate di blu cobalto, questa sudafricana stabilitasi a Londra dal 1999 non si limita a rileggere la storia dell’arte occidentale. La smantella, la ricompone e la proietta in un universo dove le donne finalmente smettono di essere oggetti per diventare soggetti della propria esistenza.
L’opera di Brice si inscrive in un approccio che richiama le teorie sviluppate da Michel Foucault sulle relazioni tra potere e rappresentazione [1]. Come il filosofo francese ha dimostrato nelle sue analisi sui dispositivi di controllo sociale, il modo in cui rappresentiamo i corpi rivela le strutture di dominazione che regolano le nostre società. Brice sembra aver assimilato questa lezione con un’acuità notevole. Le sue donne blu, con sigarette tra le labbra e sguardi impenetrabili, sfuggono ai codici visivi tradizionali della femminilità. Non si presentano allo spettatore, esistono indipendentemente dal suo sguardo. Questa autonomia appena conquistata si esprime particolarmente nella sua serie Untitled (2023), dove un’artista nuda si ritrae mentre esamina le sue parti intime, trasformando così L’Origine du monde di Courbet in un atto di emancipazione femminista. La donna non è più l’oggetto dello sguardo maschile ma diventa l’autrice della propria rappresentazione.
Questa strategia di riappropriazione affonda le sue radici nei movimenti femministi degli anni Sessanta, quando l’autoesame ginecologico divenne un atto politico di riconquista del sapere medico e della sessualità femminile. Brice si inserisce in questa tradizione facendo dell’autoritratto un gesto di resistenza. Le sue donne si guardano, si dipingono, si trasformano secondo la propria volontà. Abitano spazi liminali – bar, studi e camere – tradizionalmente codificati come maschili o come luoghi di transazione sessuale, ma vi impongono le proprie regole. L’artista sposta così le figure storiche di Manet, Degas e Vallotton in un presente alternativo dove la passività lascia spazio all’agire. In Untitled (after Vallotton) (2023), la donna nera di La Blanche et la Noire diventa pittrice a sua volta, invertendo i rapporti di potere insiti nell’opera originale.
La scelta del blu in Brice non è mai casuale. Questo colore che ha dominato l’arte occidentale come simbolo di ricchezza e divinità, che Picasso utilizzò per esprimere malinconia e che Yves Klein si appropriò fino a farne il suo territorio esclusivo, diventa qui lo strumento di una liberazione visiva. Brice attinge all’immaginario del carnevale di Trinidad e Tobago, dove i “Blue Devils” si coprono di vernice blu per sfuggire alle costrizioni sociali ordinarie. Questo riferimento culturale trasforma il colore in una maschera di emancipazione. Il blu cancella le distinzioni razziali, confonde le identità fissate e crea uno spazio di possibile trasformazione. Evoca anche quell’ora particolare del crepuscolo, quel momento sospeso tra giorno e notte in cui tutto può cambiare.
L’influenza del cinema sull’opera di Brice è particolarmente interessante. L’artista ha lavorato come conceptrice di story-board prima di tornare alla pittura, e questa esperienza traspare nella costruzione delle sue immagini [2]. Le sue composizioni possiedono quella qualità cinematografica che fa di ogni tela un fotogramma estratto da un film immaginario. Le donne di Brice sembrano catturate in quei momenti d’intermezzo cari ai grandi registi, quando i personaggi smettono di recitare il loro ruolo sociale per rivelare la loro vera natura. Questa estetica richiama i film della Nouvelle Vague francese, dove le eroine di Godard o Truffaut conquistavano la loro libertà tramite piccole rivoluzioni quotidiane.
L’approccio cinematografico di Brice si manifesta anche nel suo trattamento dello spazio e del tempo. Le sue tele funzionano come sequenze narrative aperte, dove lo spettatore ricostruisce la storia a partire da indizi visivi. Le tende di perle, gli specchi, gli schermi che strutturano le sue composizioni creano un gioco complesso di rivelazione e occultamento che richiama il montaggio cinematografico. In Untitled (after Manet & Degas) (2023), la ricostruzione del bar delle Folies-Bergère diventa un set di ripresa dove le attrici hanno preso il controllo della telecamera. I riferimenti alle Bevitrici di assenzio di Degas e alla Prugna di Manet non sono più citazioni nostalgiche ma elementi di una sintassi visiva contemporanea.
Questa complessa dimensione temporale rivela una delle forze principali dell’opera di Brice: la sua capacità di creare un dialogo tra passato e presente senza cadere nella semplice parodia. L’artista non si limita a modernizzare capolavori del passato, li fa entrare in collisione con la nostra epoca per rivelarne i presupposti ideologici. La sua versione di Ofelia trasforma la vergine suicida di Millais in una donna combattiva che entra in un bar, birra in mano e sigaretta al labbro. Questa metamorfosi non è gratuita: rivela come l’arte occidentale abbia a lungo celebrato la passività femminile, anche nella morte.
Gli spazi dipinti da Brice, bar, studi e appartamenti, sono tutti territori riconquistati dove si sviluppa una socialità femminile autonoma. Le sue donne bevono, fumano, si spogliano, dipingono secondo i propri desideri, lontano dallo sguardo maschile normalizzante. Questa geografia della libertà trova la sua piena espressione nella sua recente mostra “Lives and Works” dove l’artista gioca con i codici biografici della storia dell’arte. Il titolo fa riferimento alle Vite di Vasari evocando al contempo la formula amministrativa che identifica gli artisti per il loro luogo di residenza. Brice interroga così i meccanismi di costruzione della reputazione artistica e il modo in cui la biografia influenza la ricezione delle opere.
La tecnica pittorica di Brice partecipa pienamente a questa estetica dell’emancipazione. Le sue applicazioni di pittura, generose senza essere impastate, i suoi contorni sfocati che fanno vibrare le forme, il modo in cui lascia trasparire la tela in alcuni punti testimoniano un approccio spontaneo che rifiuta la perfezione levigata. Questa gestualità libera si oppone alle convenzioni della pittura di genere tradizionale in cui la virtuosità tecnica serviva spesso a magnificare l’oggettificazione dei corpi femminili. In Brice, la pittura ritrova la sua dimensione tattile e sensuale senza mai scadere nel compiacimento.
L’artista sviluppa anche un rapporto originale con la serie e la ripetizione. I suoi numerosi studi a olio su carta calco funzionano come un laboratorio visivo dove sperimenta le pose, le inquadrature, le interazioni tra i personaggi. Questo metodo ricorda quello dei cineasti che moltiplicano le riprese per cogliere l’attimo esatto. La carta calco, materiale di trasferimento e sovrapposizione, diventa metafora della trasmissione culturale e della riappropriazione artistica. Brice può così far migrare le sue figure da una composizione all’altra, creando un universo coerente dove le sue eroine blu si muovono in totale libertà.
L’umorismo discreto che attraversa l’opera di Brice costituisce un’arma formidabile contro le pesantezze dell’arte ufficiale. I suoi ammiccamenti ai maestri antichi non sfociano mai in reverenza acritica. Quando trasforma la barista di Manet in DJ contemporanea o fa posare Gertrude Stein accanto ad anonimi di Trinidad, rivela l’arbitrarietà delle gerarchie culturali. Questa insolenza controllata evoca lo spirito dei surrealisti che, un secolo prima, già dinamitarono le convenzioni borghesi dell’arte.
La dimensione internazionale dell’opera di Lisa Brice merita di essere sottolineata. Artista sudafricana formata a Città del Capo, residente a Londra, abituale degli atelier di Trinidad, incarna quella generazione di artisti nomadi che costruiscono la loro estetica nel movimento. I suoi riferimenti visivi attingono tanto all’arte occidentale quanto alle culture caraibiche o africane. Questa ibridazione culturale si traduce visivamente in dettagli rivelatori: un bicchiere di vino francese sostituito da una birra Stag di Trinidad, un basco parigino scambiato con un cappello da pescatore tropicale. Queste sostituzioni apparentemente aneddotiche rivelano in realtà un approccio postcoloniale sottile che decentra lo sguardo occidentale senza cadere nella rivendicazione semplicistica.
Il trattamento della nudità in Brice illustra perfettamente questo approccio sfumato. Le sue donne nude non sono mai vulnerabili né compiacenti. Assumono il loro corpo con una nonchalance che disinnesca ogni tentativo di voyeurismo. Questa naturalità conquistata si oppone radicalmente ai codici della pittura accademica, dove la nudità femminile era sistematicamente erotizzata per il piacere maschile. Con Brice, la nudità torna a essere uno stato naturale privo delle sue connotazioni morali o sessuali restrittive.
L’evoluzione recente dell’opera di Brice verso formati più monumentali testimonia un’ambizione crescente. Le sue tele di grande dimensione trasformano l’atto di osservare in un’esperienza fisica. Lo spettatore si trova immerso in questi universi blu dove il confine tra reale e immaginario si sfuma. Questa strategia di immersione rivela una comprensione fine delle sfide contemporanee della pittura di fronte alla concorrenza delle immagini digitali. Brice non cerca di competere con la tecnologia ma rivendica la specificità insostituibile dell’esperienza pittorica.
La critica potrebbe rimproverare a Lisa Brice una certa compiacenza decorativa nell’uso del blu o una tendenza all’illustrazione nelle sue citazioni cinematografiche. Questi rimproveri sarebbero ingiusti perché non riconoscerebbero la coerenza profonda di un percorso che fa del colore e della narrazione gli strumenti di una critica sociale sottile. Il blu di Brice non è mai gratuito, porta un carico simbolico e politico che si dispiega attraverso l’intera sua opera. Allo stesso modo, i suoi prestiti al cinema non sono aneddotici ma una riflessione sui modi contemporanei di costruzione dell’immaginario collettivo.
L’arte di Lisa Brice si impone oggi come una delle proposte più compiute della pittura figurativa contemporanea. Il suo lavoro supera di gran lunga il quadro dell’arte femminista per interrogare i meccanismi di rappresentazione che plasmano la nostra percezione del mondo. Liberando le sue eroine dalle gabbie storiche che le imprigionavano, apre uno spazio di possibilità dove l’arte torna a essere un territorio di sperimentazione e libertà. Le sue donne blu, sigarette alle labbra e sguardi fieri, incarnano questa riconquista dell’autonomia creativa che manca dolorosamente nella nostra epoca di standardizzazione visiva.
In un mondo in cui le immagini proliferano senza sosta, dove la rappresentazione dei corpi femminili oscilla tra mercificazione e moralizzazione, l’opera di Lisa Brice propone una terza via: quella della dignità ritrovata. Le sue donne non sono né vittime né oggetti di consumo, sono semplicemente umane in tutta la complessità di questo termine. Questa umanità riconquistata costituisce forse l’eredità più bella che un’artista del nostro tempo possa lasciare. Perché al di là delle questioni di genere o di rappresentazione, è proprio di questo che si tratta: ridare all’arte la sua capacità di rivelare ciò che c’è di più autentico in noi.
L’opera di Lisa Brice ci ricorda che la pittura rimane un’arte di resistenza, capace di sovvertire i codici dominanti e di inventare nuovi modi di vedere. Nei suoi blu profondi e nei gesti liberati, disegna i contorni di un mondo dove la creazione artistica tornerebbe a essere sinonimo di emancipazione collettiva. Una lezione preziosa per la nostra epoca che ha tanto bisogno di ritrovare la via dell’autenticità.
- Michel Foucault, Surveiller et punir : Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975.
- Lisa Brice, intervista con Aïcha Mehrez, Tate Etc, n. 43, estate 2018.
















