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Martedì 18 Novembre

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Liu Xiaohui o la ricerca esistenziale del reale

Pubblicato il: 3 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 12 minuti

La dimensione artigianale dell’opera di Liu Xiaohui si manifesta nel suo rapporto con i materiali. Egli tratta il colore non come un elemento decorativo o espressivo, ma come una materia concreta, dotata di peso e densità, costruendo pazientemente le sue composizioni come un architetto del silenzio.

Ascoltatemi bene, banda di snob, voi che vagate per gallerie asettiche in cerca della prossima forte emozione, della prossima indignazione calcolata, del prossimo quadro che si compra non per amarlo ma per impressionare gli ospiti durante una cena insipida. Oggi vi parlo di un artista che sfida tutto ciò che credete di sapere sulla pittura contemporanea cinese: Liu Xiaohui. Sì, proprio lui che ha l’audacia di dipingere instancabilmente le stesse sagome, gli stessi dorsali femminili, come se avesse un’unica idea in mente, ma che idea!

Nato nel 1975 nella provincia dello Shandong, Liu Xiaohui è cresciuto lontano dalle luci abbaglianti di Shanghai o Pechino. Arriva nella capitale cinese a 16 anni, prosegue gli studi presso la prestigiosa Accademia Centrale delle Belle Arti (CAFA), prima di insegnare più tardi nel dipartimento di pittura murale. Un percorso che potrebbe sembrare convenzionale, ma non lasciatevi ingannare: non c’è nulla di convenzionale in Liu Xiaohui.

Ciò che colpisce immediatamente nella sua opera è quell’ostinazione monomaniaca a dipingere e ridipingere gli stessi motivi. Le sue tele sono abitate da silhouette femminili viste di spalle, che camminano verso un orizzonte incerto, o da figure che compiono gesti semplici, come vestirsi davanti a uno specchio. Ma non fatevi ingannare, qui non conta il soggetto, ma il modo in cui viene trattato, rielaborato, fino all’esaurimento.

Il teatro dell’assurdo: Liu Xiaohui e il mito di Sisifo

Guardate attentamente queste schiene di donne, queste silhouette in camicette bianche e gonne scure. Ci ricordano inevitabilmente il mito di Sisifo come rivisitato da Albert Camus. Come l’eroe greco condannato a spingere eternamente il suo masso fino alla cima della montagna per vederlo ridiscendere e ricominciare senza fine, Liu Xiaohui si impegna in un processo creativo paradossale, fatto di ripetizioni e sforzi apparentemente vani [1]. Dipinge, cancella, ridipinge, corregge, in una ricerca infinita della forma perfetta, o meglio della forma “giusta”.

Questo parallelo con l’assurdo camusiano non è casuale. Nel suo saggio “Il mito di Sisifo”, Camus scrive: “La lotta stessa verso le vette è sufficiente a riempire un cuore d’uomo” [2]. Allo stesso modo, per Liu Xiaohui, è il processo stesso della pittura che conta, molto più del risultato finale. Quando passa settimane, a volte mesi, a rielaborare la stessa tela, è in questa lotta costante che trova la ragione della sua esistenza come artista.

Il filosofo francese ci invita a immaginare Sisifo felice, ed è esattamente ciò che fa Liu Xiaohui, trasforma questa ripetizione apparentemente sterile in un’affermazione esistenziale. Ogni strato di pittura diventa il testimone di una decisione, di un momento di coscienza acuta. Come dice lui stesso: “Non sono sicuro che questo sia il modo giusto di dipingere, quindi continuo a provare approcci diversi” [3]. Questa incertezza permanente non è una debolezza, ma la stessa fonte della sua forza creativa.

La dimensione assurda del suo lavoro si manifesta anche nei suoi titoli o, meglio, nella loro assenza. “Senza titolo, Corridoio”, “Senza titolo, Prato verde”, “Senza titolo, Specchio”… Questa apparente neutralità nasconde in realtà un rifiuto di guidare la nostra interpretazione, come per dire: quello che vedete è solo una minima parte del processo, la punta dell’iceberg di un lavoro colossale, invisibile ma presente in ogni pennellata, in ogni decisione di composizione.

Ciò che è interessante è che Liu Xiaohui utilizza immagini apparentemente banali come veicoli per esplorare questioni filosofiche profonde. Non è un caso che intitoli una delle sue esposizioni “L’enigma di Sisifo”. Ci confronta con l’apparente insignificanza delle nostre azioni ripetitive, suggerendo al contempo che è proprio in questa ripetizione che possiamo trovare un senso alla nostra esistenza.

Il cinema come rivelazione: l’influenza di Ozu su Liu Xiaohui

Se il mito di Sisifo ci offre una chiave di lettura essenziale per comprendere l’approccio di Liu Xiaohui, il suo rapporto con il cinema, e in particolare con l’opera del regista giapponese Yasujirō Ozu, ne costituisce un’altra altrettanto fondamentale.

È guardando “Il sapore del sakè” di Ozu che Liu Xiaohui è stato colpito dall’immagine di una donna di spalle, che indossa una camicia bianca, una gonna scura e scarpe con i tacchi. Questa immagine, catturata quasi per caso, è diventata l’ossessione che ha dato origine alla sua serie “Sagome di spalle” [4]. Ma perché questa fascinazione per un’inquadratura apparentemente banale?

Ozu è noto per il suo stile minimalista, contemplativo, la sua attenzione ai piccoli dettagli della vita quotidiana, le sue inquadrature fisse e spesso all’altezza di un osservatore seduto su un tatami. Come scrive il critico cinematografico Donald Richie: “Ozu ci mostra che la vita non consiste in grandi tragedie o grandi felicità, ma in una serie di piccoli momenti che, messi uno dopo l’altro, costituiscono la nostra esistenza” [5]. Questa estetica del quotidiano Liu Xiaohui la fa propria nella sua pittura.

Ma c’è di più. In Ozu, l’inquadratura non è mai innocente, è sempre carica di una tensione invisibile, di un’emozione contenuta. Allo stesso modo, le sagome di spalle di Liu Xiaohui non sono semplici studi formali, sono cariche di una presenza enigmatica, di un pathos silenzioso. La vista di spalle diventa metafora, di ciò che non possiamo vedere, di ciò che sfugge al nostro sguardo, della natura fondamentalmente sfuggente dell’altro.

La temporalità propria del cinema di Ozu, quei momenti sospesi, quegli inquadramenti che si soffermano oltre la loro necessità narrativa, trova un equivalente nella pittura di Liu Xiaohui. Ci obbliga a rallentare, a contemplare, a sentire il passare del tempo. Come dice il critico d’arte John Berger: “La pittura, a differenza della fotografia, contiene il proprio tempo” [6]. Liu Xiaohui amplifica questa caratteristica sovrapponendo letteralmente strati temporali in ogni tela.

Ciò che è particolarmente interessante è il modo in cui Liu Xiaohui traduce l’influenza cinematografica in un medium statico. Non cerca di imitare il movimento del cinema, ma piuttosto di catturare ciò che il cinema di Ozu possiede di più pittorico, questa capacità di trasformare l’ordinario in straordinario con la sola forza dell’inquadratura e della composizione.

La relazione tra Liu Xiaohui e Ozu va oltre l’omaggio o l’influenza. Si tratta piuttosto di una conversazione tra due artisti separati dal tempo, dalla cultura e dal medium, ma uniti da una sensibilità estetica comune, dalla stessa attenzione al dettaglio, dalla stessa credenza nel potere espressivo della riservatezza.

Nelle sue opere recenti, dove forme geometriche colorate sconvolgono la rappresentazione, Liu Xiaohui si allontana dall’estetica pulita di Ozu, ma conserva quell’attenzione alla composizione, quell’economia di mezzi che caratterizza il cineasta giapponese. I triangoli blu, i cerchi gialli diventano elementi di punteggiatura visiva, come i piani di transizione di Ozu, quelle immagini apparentemente distaccate dalla narrazione che però creano una continuità emotiva.

La ricerca impossibile del “reale”

Attraverso il suo processo ossessivo di pittura, Liu Xiaohui insegue qualcosa che sembra sfuggirgli costantemente: la verità, o ciò che chiama “affidabile e reale” (可靠的真实). Ma cos’è il reale nella pittura? È la riproduzione fedele del visibile? È l’espressione di una verità interiore? È la materialità stessa della pittura?

Liu Xiaohui sembra dirci che il reale non è uno stato fisso, ma un processo, una ricerca senza fine. “Non ho mai saputo cos’è il reale”, confida, “ma forse posso avvicinarmici attraverso l’atto di dipingere” [7]. C’è qualcosa di profondamente toccante in questa modestia, in questo riconoscimento dei limiti della nostra percezione e comprensione.

Questa ricerca del reale assume per Liu Xiaohui una dimensione particolare quando introduce il motivo dello specchio nelle sue opere più recenti. Lo specchio, simbolo tradizionale della rappresentazione nella pittura sin dai tempi di Velázquez, diventa per lui uno strumento di indagine ontologica. Che cosa è più reale, la figura o il suo riflesso? Il corpo o la sua immagine? L’originale o la copia?

Rappresentando personaggi che si vestono o si svestono davanti a uno specchio, Liu Xiaohui crea un infinito gioco di rimandi. Dipinge una rappresentazione di una rappresentazione, in un gioco di specchi che richiama le riflessioni di filosofi come Jacques Derrida sulla natura della rappresentazione e l’impossibilità di accedere a un significato trascendentale [8].

Questo mettere in dubbio la realtà trova espressione formale nel modo in cui Liu Xiaohui tratta la superficie delle sue tele. A forza di ridipingere, correggere, sovrapporre gli strati, crea una texture ruvida, quasi scolpita, che attira l’attenzione sulla materialità stessa della pittura. Queste asperità, queste tracce di pentimenti, queste pennellate diventano le cicatrici visibili di una lotta costante con il medium, con la forma, con il reale stesso.

Come scrive Gilles Deleuze in “Francis Bacon: Logica della sensazione”: “La pittura deve strappare la figura al figurativo” [9]. Questo è esattamente ciò che fa Liu Xiaohui, parte da una figura riconoscibile, ma lavorandola, maltrattandola, la trasforma in qualcos’altro, in una presenza che non è più del tutto figurazione ma neanche astrazione, qualcosa di intermedio, inquietante, che resiste alla categorizzazione.

Ciò che è particolarmente interessante nel lavoro recente di Liu Xiaohui è il modo in cui introduce elementi geometrici astratti, cerchi, triangoli, rettangoli di colori vivaci, che vengono a perturbare la rappresentazione. Queste forme sembrano emergere dallo stesso processo pittorico, come se l’artista, cercando incessantemente il reale nella figurazione, finisse per trovarlo nella pura presenza del colore e della forma.

C’è qualcosa di profondamente commovente in questa ricerca impossibile, in questa tenacia nel cogliere ciò che sfugge. Liu Xiaohui ci ricorda che la pittura non è un’arte della certezza, ma del dubbio; non un’arte dell’affermazione, ma della domanda. Ciascuna delle sue tele è un’interrogazione aperta, un frammento di una conversazione infinita con il reale.

L’artista come artigiano laborioso

Liu Xiaohui incarna la figura dell’artista che va controcorrente rispetto a molti cliché contemporanei. Non è né il genio tormentato, né il provocatore mediatico, né l’imprenditore dell’arte. Si presenta piuttosto come un lavoratore instancabile, un artigiano tenace che si alza presto ogni mattina per recarsi nel suo studio e dedicarsi al suo compito quotidiano.

“Mi alzo alle 6:20 ogni mattina”, confida [10]. Questa regolarità quasi monastica può sembrare prosaica, ma rivela una concezione profonda dell’arte come disciplina, come pratica quotidiana, come fatica. Liu Xiaohui si colloca così in una lunga tradizione di artisti per i quali la creazione non è il frutto di un’ispirazione fulminea, ma di un lavoro paziente e metodico.

Questa etica del lavoro trova espressione nella materialità stessa delle sue tele. Infatti, a forza di essere ridipinte, rielaborate, acquisiscono uno spessore, una texture che testimoniano il tempo e lo sforzo investiti. Come dice lui stesso: “Preferisco le tecniche laboriose” [11]. Quello che chiama con una disarmante modestia “tecniche stupidine” (笨功夫), queste ore passate ad aggiustare un contorno, a modificare leggermente una tonalità, a rielaborare una silhouette, costituiscono il cuore stesso della sua pratica artistica.

C’è qualcosa di profondamente etico in questo approccio. In un’epoca in cui l’arte contemporanea spesso valorizza la velocità, l’efficienza, la novità a ogni costo, Liu Xiaohui sceglie la lentezza, la ripetizione, l’approfondimento. Può passare anni su una stessa tela, tornando continuamente su di essa, modificandola, conferendole letteralmente lo spessore del tempo.

Questa dimensione artigianale si manifesta anche nel suo rapporto con i materiali. Tratta il colore non come un elemento decorativo o espressivo, ma come una materia concreta, dotata di peso, di densità. “Uso il colore come un mattone per costruire”, spiega [12]. Questa metafora architettonica è rivelatrice, Liu Xiaohui non si considera tanto un creatore di immagini quanto un costruttore di presenze pittoriche.

Il suo studio, descritto da chi l’ha visitato, somiglia più a quello di un artigiano che a quello di un artista contemporaneo tipo. Tele a diversi stadi di completamento si accumulano lì, alcune aspettando anche anni prima di essere riprese. Questo spazio di lavoro diventa il teatro di un’attività incessante, scandita dai gesti ripetitivi del pittore, da questa coreografia quotidiana che costituisce l’essenza stessa della sua pratica.

Questa concezione del lavoro artistico come fatica quotidiana ci ricorda le parole di Paul Valéry: “Una poesia non è mai finita, solo abbandonata” [13]. Liu Xiaohui sembra condividere questa visione, i suoi dipinti non sono tanto terminati quanto interrotti, momentaneamente lasciati com’erano, sempre suscettibili di essere ripresi, modificati, ritoccati.

In questo approccio c’è una profonda umiltà, un riconoscimento dei limiti dell’artista di fronte al suo materiale, di fronte al compito impossibile che è il suo, cogliere qualcosa della realtà, creare una presenza che resista al tempo. Liu Xiaohui ci ricorda che l’arte non è tanto una questione di talento o ispirazione quanto di perseveranza, ostinazione, impegno quotidiano.

L’arte del depouillement

La pittura di Liu Xiaohui ci pone di fronte a una forma di spogliazione radicale, a un’economia di mezzi che suscita ammirazione. In un mondo saturo di immagini, in un mercato dell’arte assetato di novità e sensazionalismo, egli sceglie una restrizione volontaria, una concentrazione sull’essenziale.

Questa spogliazione non è sinonimo di facilità o povertà, al contrario. Come dice il critico d’arte Harold Rosenberg: “La difficoltà non sta nel fare di più, ma nel fare di meno” [14]. Ogni dipinto di Liu Xiaohui è il frutto di innumerevoli decisioni, rifiuti, eliminazioni, al fine di raggiungere una forma di espressione che, nella sua apparente semplicità, raggiunge una densità rara.

L’artista ci invita a rallentare, a osservare attentamente, a prendere il tempo necessario per percepire le sottigliezze di tono, le leggere variazioni di forma, le tracce di pentimenti che costituiscono la vera ricchezza delle sue opere. In una cultura della distrazione e dell’immediatezza, i suoi dipinti richiedono e ricompensano un’attenzione prolungata.

Ciò che colpisce anche è la dimensione profondamente umana del suo lavoro. Nonostante la freddezza apparente di alcune composizioni, nonostante l’assenza di volti, nonostante la restrizione cromatica, le sue opere emanano un’emozione contenuta, una presenza che ci tocca senza che possiamo dire esattamente perché.

Forse è perché, come suggerisce John Berger, “dietro ogni immagine c’è sempre un’altra immagine” [15]. Dietro la silhouette femminile di spalle, dietro il gesto semplice di vestirsi davanti a uno specchio, si nascondono altre silhouette, altri gesti, tutta un’archeologia della pittura che fa di ogni quadro una testimonianza della lotta dell’artista con il suo mezzo, con il visibile, con se stesso.

Liu Xiaohui occupa un posto singolare nell’arte contemporanea cinese. Né del tutto tradizionalista, né radicalmente sperimentale, traccia la propria via, fedele solo ai suoi interrogativi, al suo ritmo, alla sua concezione esigente della pittura. In un paesaggio artistico spesso dominato dalle grandi narrazioni storiche o politiche, sceglie un’esplorazione intima, quotidiana, ostinata.

La sua opera ci ricorda che la pittura, lontana dall’essere un medium obsoleto, resta uno spazio privilegiato di esplorazione del visibile e dell’invisibile, del tempo e della materia, della presenza e dell’assenza. Attraverso le sue silhouettes ripetute, i suoi spazi purificati, i suoi gesti semplici ripetuti all’infinito, Liu Xiaohui ci offre una meditazione profonda su cosa significhi vedere, rappresentare, essere al mondo. Ci propone un’altra via, quella dell’approfondimento, della pazienza, dell’attenzione alle piccole cose, dell’accettazione dei limiti. Una lezione di umiltà e perseveranza di cui abbiamo più che mai bisogno.


  1. Camus, Albert. “Il mito di Sisifo”. Gallimard, 1942.
  2. Ibid.
  3. Intervista con Liu Xiaohui, Artron News, 2018.
  4. “Intervista artistica: il pittore Liu Xiaohui”, Athos Magazine, 2018.
  5. Richie, Donald. “Ozu: la sua vita e i suoi film”. University of California Press, 1977.
  6. Berger, John. “Modi di vedere”. Penguin Books, 1972.
  7. He Jing, “Liu Xiaohui: L’enigma di Sisifo”, testo della mostra, Antenna Space, Shanghai, 2015.
  8. Derrida, Jacques. “Della grammatologia”. Les Éditions de Minuit, 1967.
  9. Deleuze, Gilles. “Francis Bacon: Logica della sensazione”. Éditions de la Différence, 1981.
  10. “Liu Xiaohui: Lasciami rendere la pittura sottile al punto che posso sopportare”, Artron News, 2013.
  11. “Liu Xiaohui: Usando le “abilità stupide” più laboriose per andare contro corrente”, Sina Art, 2018.
  12. “Liu Xiaohui × He Jing: La pittura non è una competizione tesa, ma una pratica completamente rilassata”, Hi Art, 2020.
  13. Valéry, Paul. “Sul Cimitero marino”. Gallimard, 1933.
  14. Rosenberg, Harold. “La tradizione del nuovo”. Horizon Press, 1959.
  15. Berger, John. “Un altro modo di raccontare”. Pantheon Books, 1982.
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Riferimento/i

LIU Xiaohui (1975)
Nome: Xiaohui
Cognome: LIU
Altri nome/i:

  • 刘晓辉 (Cinese semplificato)
  • 劉曉輝 (Cinese tradizionale)

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Cina

Età: 50 anni (2025)

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