Ascoltatemi bene, banda di snob, c’è qualcosa di deliciosamente ironico nel vedere Ólafur Elíasson, quest’artista islandese-danese, giocare con i nostri sensi come un fisico eccentrico nel suo laboratorio. Mentre l’arte contemporanea si riempie di concetti oscuri e materiali rari, Elíasson manipola la luce, l’acqua, la nebbia, questi elementi così ordinari che diventano invisibili ai nostri occhi stanchi dagli schermi. Questa è tutta la splendore e l’audacia del suo approccio: farci riscoprire ciò che vediamo senza mai guardare davvero.
Nato nel 1967 a Copenaghen, Elíasson non è semplicemente un artista, è un orchestratore di esperienze sensoriali, uno scultore di ambienti che ci trasforma in partecipanti attivi piuttosto che spettatori passivi. Questa trasformazione non è insignificante; si inscrive in una profonda linea intellettuale che risale a Marcel Duchamp e al suo rifiuto dell’arte “retinica” in favore di un’arte “cerebrale”. Ma dove Duchamp intellettualizzava, Elíasson corporalizza. Riporta l’arte nei nostri corpi, facendo della nostra percezione sensoriale il vero mezzo dell’opera.
Prendiamo la sua installazione emblematico “The Weather Project” che ha invaso la Turbine Hall della Tate Modern nel 2003. Questa falsa luce solare che attraversava la nebbia artificiale creava un’esperienza quasi religiosa per due milioni di visitatori venuti a contemplare questo simulacro di astro. Vi vedo una brillante dimostrazione di ciò che il filosofo Henri Bergson chiamava “l’intuizione come metodo”. Nel suo Pensée et le Mouvant, Bergson scriveva: “Philosopher consiste à invertir la direction habituelle du travail de la pensée” [1]. È esattamente ciò che fa Elíasson: inverte le nostre abitudini percettive per permetterci di riscoprire ciò che credevamo di conoscere.
Bergson distingueva l’intelligenza che “divide, immobilizza, concettualizza” dall’intuizione che “afferra il movimento, la durata, la qualità”. L’opera di Elíasson ci costringe proprio ad abbandonare le nostre griglie concettuali per tornare all’esperienza diretta. Quando riempie una stanza di nebbia colorata in “Din blinde passager” (2010), ci invita a navigare in uno spazio dove la visione diventa tattile, dove lo sguardo cede il posto ad altri modi di percezione. L’intelligenza bergsoniana taglia il mondo in oggetti fissi per manipolarli meglio, ma l’intuizione ci connette al flusso ininterrotto della realtà. Elíasson ci immerge in questo flusso, in quella “durata pura” che Bergson considerava la trama stessa del reale.
La bellezza di questo approccio sta nel fatto che trascende il semplice piacere estetico per diventare una vera e propria praxis filosofica. Quando attraversate il suo “Beauty” (1993), questa semplice installazione in cui una tenda d’acqua sotto un proiettore crea un arcobaleno effimero, sperimentate letteralmente la teoria bergsoniana della percezione. Prendete coscienza che la vostra percezione non è passiva ma attiva, che costruisce la realtà tanto quanto la riceve.
Ma non fermiamoci a questa lettura bergsoniana. Perché Eliasson opera anche sul terreno del teatro. La sua pratica risuona profondamente con le teorie del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht e il suo concetto di “Verfremdungseffekt”, l’effetto di straniamento. Brecht cercava di rompere l’illusione teatrale per costringere lo spettatore ad adottare un atteggiamento critico piuttosto che abbandonarsi all’emozione. Nel suo Petit Organon pour le théâtre, spiegava: “Una rappresentazione distanziata è una riproduzione che permette certamente di riconoscere l’oggetto riprodotto, ma allo stesso tempo di renderlo insolito” [2].
Non è forse proprio questo che fa Eliasson quando installa la sua cascata artificiale “Waterfall” (2019) davanti alla Tate Modern? Ci mostra un fenomeno naturale pur esponendo ostentatamente la sua struttura artificiale, l’impalcatura che sostiene questa cascata. Questa messa a nudo dei meccanismi è tipicamente brechtiana. Ci dice: guardate, è un’illusione, ma un’illusione che rivela qualcosa del nostro rapporto con il mondo.
Gli specchi che ricorrono costantemente nella sua opera giocano anch’essi questo ruolo di distanziamento. Quando vi trovate davanti a “Your spiral view” (2002), questo caleidoscopio gigante che frammenta il vostro riflesso, siete contemporaneamente partecipanti e osservatori della vostra esperienza. È proprio ciò che Brecht voleva provocare nei suoi spettatori: una coscienza acuta della loro posizione. Come scriveva il drammaturgo, “Il distanziamento è storicizzare, è rappresentare i processi e le persone come processi e persone storiche, quindi effimere.”
L’intero lavoro di Eliasson può essere letto come una vasta impresa di distanziamento brechtiano applicato ai fenomeni naturali. Quando tinge i fiumi di verde fluorescente con la sua uranina (“Green River”, 1998-2001), realizza letteralmente ciò che Brecht chiamava “rendere straniero il familiare”. Il fiume, elemento del paesaggio urbano che non notiamo più, diventa improvvisamente visibile, stranamente visibile. I passanti si fermano, si interrogano, escono dalla loro letargia percettiva.
Questa dimensione teatrale si esprime anche nella sua pratica collaborativa. Il suo studio a Berlino, dove lavorano più di 80 persone, non può che ricordare una compagnia teatrale brechtiana. Artigiani, ricercatori, architetti, tutti partecipano alla creazione di opere che sono veri e propri dispositivi scenici. Non illudiamoci, le installazioni di Eliasson sono palcoscenici dove siamo invitati a recitare i nostri ruoli, a diventare consapevoli dei nostri movimenti, delle nostre reazioni.
“In Real Life”, la sua retrospettiva alla Tate Modern nel 2019, era letteralmente una successione di scene dove i visitatori venivano posti in diverse situazioni percettive. Dal “Moss Wall” (1994) che si poteva toccare al “Room for one colour” (1997) che trasformava tutto in giallo e nero, ogni installazione era un piccolo spettacolo teatrale sensoriale dove il pubblico diventava attore. Come dice lo stesso Eliasson, “Cerco di usare la luce come materiale per creare una sensazione di spazio, ma anche come mezzo per suggerire che lo spazio è sempre in continua trasformazione.” Questa concezione dinamica e relazionale dello spazio è profondamente teatrale.
E cosa dire di “Little Sun”, questo progetto commerciale e umanitario di lampade solari per le regioni senza elettricità? Non è forse una forma di teatro sociale, un modo per estendere la scena artistica oltre le mura istituzionali per trasformare direttamente la vita quotidiana? Brecht avrebbe applaudito questa dissoluzione dei confini tra arte e intervento sociale, lui che sognava un teatro politicamente efficace.
Elíasson non si limita a teorizzare sull’ecologia e il cambiamento climatico; agisce concretamente. I suoi blocchi di ghiaccio della Groenlandia installati in spazi pubblici (“Ice Watch”, 2014-2018) consentono ai passanti di toccare, sentire, vedere sciogliersi questo ghiaccio artico, trasformando un’astrazione statistica in un’esperienza sensibile. Come scrive Brecht, “Il teatro deve rendere possibile la conoscenza e deve renderla piacevole.” È esattamente ciò che fa Elíasson con questi interventi pubblici.
Questa doppia lettura, bergsoniana e brechtiana, ci permette di cogliere la complessità dell’opera di Elíasson, che opera simultaneamente su più livelli. Da un lato, rinnova il nostro rapporto intuitivo con il mondo, ricollegandoci a una percezione diretta dei fenomeni (Bergson). Dall’altro, ci distanzia dalle nostre abitudini percettive, costringendoci ad adottare una postura critica rispetto a ciò che vediamo (Brecht).
Ma non fatevi ingannare: nonostante questa profondità concettuale, il lavoro di Elíasson rimane di un’accessibilità sconcertante. Questo è il suo genio. Mentre tanti artisti contemporanei si rinchiudono in un ermetismo elitario, Elíasson crea opere che colpiscono immediatamente il pubblico più vasto, soddisfacendo al contempo l’appetito intellettuale dei conoscitori più esigenti. È un equilibrista che cammina sulla corda tesa tra affetto e concetto, tra immediato e mediato.
In “Your rainbow panorama” (2011), questa passerella circolare con vetrate colorate installata sul tetto del museo ARoS ad Aarhus, Elíasson offre un’esperienza al tempo stesso ludica e profonda. I visitatori si aggirano in questo corridoio arcobaleno, vedendo la città trasformarsi al ritmo dei colori. I bambini ci corrono ridendo, mentre i filosofi meditano sulla relatività della percezione. Chi altro se non Elíasson può soddisfare simultaneamente tanti livelli di lettura?
Alcuni potrebbero obiettare che questa accessibilità confina talvolta con lo spettacolare, addirittura con l’intrattenimento. Si potrebbe temere che l’effetto “wow” di alcune installazioni si riduca a un semplice stupore da instagrammare. Ma si fraintende la strategia di Elíasson. Se seduce i nostri sensi, è per coinvolgere meglio la nostra riflessione. La bellezza sensibile delle sue opere non è un fine a sé, ma un mezzo per condurci a una coscienza più acuta del nostro posto nel mondo.
Prendiamo “Riverbed” (2014), dove ha trasportato un paesaggio roccioso islandese completo all’interno del Louisiana Museum in Danimarca. Oltre alla prodezza tecnica, quest’opera ci confronta con un’esperienza fisica destabilizzante: camminare su pietre instabili in un museo, navigare in un paesaggio naturale artificialmente spostato. Questa dissonanza cognitiva tra le nostre aspettative (il pavimento liscio di un museo) e la realtà (un terreno accidentato) provoca una consapevolezza delle convenzioni che normalmente governano i nostri comportamenti negli spazi culturali.
Nell’ambito della distanziazione brechtiana, Elíasson espone sempre i meccanismi delle sue illusioni. Le sue installazioni mostrano come funzionano, rifiutando la magia nera a favore di una magia bianca che rivela i propri trucchi. Questa trasparenza è politica: ci invita ad adottare la stessa attitudine critica verso le illusioni che strutturano le nostre società.
L’estetica di Elíasson, sebbene attinga ai fenomeni naturali, non è mai naturalista. Non cerca di riprodurre la natura ma di creare situazioni che interrogano il nostro rapporto con essa. La sua cascata artificiale non imita una vera cascata, espone proprio la sua artificialità per farci prendere coscienza del nostro rapporto mediato con la natura. Come scriveva Bergson: “L’arte è sicuramente solo una visione più diretta della realtà.”
L’opera di Ólafur Elíasson ci offre una via d’uscita di fronte alla doppia impasse dell’arte contemporanea: da un lato l’ermetismo concettuale che parla solo agli iniziati, dall’altro lo spettacolo vuoto che mira solo all’effetto immediato. Riesce in questa impresa di creare un’arte che pensa e fa pensare, ma che comincia sempre facendo sentire. Un’arte che, come voleva Brecht, diverte per meglio istruire, e come suggeriva Bergson, ci ricollega all’intuizione diretta del reale.
Forse questo è, in fondo, il genio di Elíasson: farci riscoprire che non siamo semplicemente cervelli disincarnati che navigano in un mondo di astrazioni, ma corpi sensibili immersi in un ambiente fisico con cui interagiamo costantemente. In tempi di crisi ecologica e di crescente virtualizzazione delle nostre esistenze, questa lezione è più preziosa che mai.
- Henri Bergson, La Pensée et le Mouvant, PUF, 1903, p. 213-214.
- Bertolt Brecht, Petit Organon pour le théâtre, L’Arche, 1963, p. 65.
















