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Martedì 18 Novembre

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L’universo queer luminoso di Salman Toor

Pubblicato il: 31 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Nei suoi dipinti vibranti, Salman Toor cattura l’intimità degli uomini queer sud-asiatici che navigano tra le culture. La sua tavolozza verde smeraldo illumina scene notturne dove smartphone e sguardi malinconici raccontano la storia di individui alla ricerca di appartenenza in un mondo che li sorveglia costantemente.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è tempo di parlare di Salman Toor, quell’artista che ha il coraggio di reinventare la pittura figurativa contemporanea senza scusarsi di essere chi è. Originario del Pakistan e ora attivo a New York, Toor ci offre una visione singolare dell’esistenza queer degli uomini sud-asiatici in un’America post-11 settembre, un’America che sorveglia, controlla e interroga i corpi bruni con una diffidenza istituzionalizzata.

Nella sua opera, la luminosità verdognola caratteristica, quella tonalità di smeraldo che bagna le sue scene notturne, non è solo una semplice firma estetica, ma un brillante dispositivo narrativo che trasforma l’ordinario in straordinario. Questo colore, allo stesso tempo “glamour”, “tossico” e “notturno” secondo le parole stesse dell’artista, crea un filtro attraverso cui osserviamo questi momenti di intimità maschile, come se guardassimo attraverso un vetro opaco che ci lascia intravedere ciò che di solito non è visibile.

Questa trasparenza controllata mi ricorda stranamente le teorie di Guy Debord sulla società dello spettacolo, dove ogni interazione sociale è mediata da immagini. In “La Société du Spectacle” (1967), Debord afferma che “Tutta la vita delle società nelle quali regnano le condizioni moderne di produzione si presenta come una immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era vissuto direttamente si è allontanato in una rappresentazione” [1]. Non è esattamente ciò che fa Toor? Trasforma l’esperienza diretta di questi uomini in rappresentazioni, ma con una sottile torsione, restituisce loro la loro agenzia (questa capacità di un individuo di agire autonomamente), il loro potere di sceneggiare il proprio spettacolo.

Prendete “The Bar on East 13th Street” (2019), un chiaro omaggio al “Bar aux Folies-Bergère” di Manet. Toor sovverte magistralmente lo sguardo tradizionale sostituendo la cameriera bianca con un giovane uomo bruno. È qui che il lavoro di Toor diventa veramente rivoluzionario: appropria non solo le tecniche e le composizioni dei maestri europei, ma le devia per raccontare storie radicalmente diverse.

La malinconia che permea le opere di Toor ricorda il concetto di esilio interiore di cui parla Edward Said nei suoi scritti sullo spostamento e l’alterità. In “Riflessioni sull’esilio” (2000), Said scrive che “l’esilio è stranamente affascinante da pensare ma terribile da vivere. È la frattura impossibile da sanare tra un essere umano e il suo luogo natale, tra l’io e la sua vera casa” [2]. Questa frattura identitaria è palpabile in opere come “Tea” (2020), in cui un giovane uomo sta, a disagio, davanti alla sua famiglia, i loro sguardi carichi di tensioni non verbalizzate.

Il genio di Toor risiede nella sua capacità di dipingere spazi di libertà provvisoria in questa condizione di esiliato. In “Four Friends” (2019), dei giovani uomini ballano in un appartamento newyorkese angusto, creando una zona temporanea di autonomia, un paradiso effimero dove possono essere pienamente loro stessi. Questi momenti di gioia collettiva servono da controcanto all’alienazione che caratterizza altre opere come “Bar Boy” (2019), in cui il protagonista resta solo nonostante la folla, ipnotizzato dal bagliore del suo telefono.

Toor padroneggia l’arte di dipingere quella che Said chiama “la dissonanza cognitiva” dell’immigrato, questa capacità di vedere simultaneamente attraverso molteplici prospettive culturali. Questa visione molteplice permette all’artista di creare quadri che funzionano come testimonianze culturali stratificate, dove i riferimenti alla storia dell’arte occidentale si sovrappongono alle esperienze contemporanee delle minoranze sessuali e razziali.

L’intimità che Toor cattura nelle sue scene in camera da letto è particolarmente interessante. In “Bedroom Boy” (2019), un uomo nudo si scatta un selfie su un letto bianco immacolato, reinventando l’odalisca classica nell’era delle app di incontri. Non è più lo sguardo del pittore maschile su un corpo femminile passivo, ma l’auto-rappresentazione attiva di un corpo maschile bruno che controlla la propria immagine. Debord avrebbe apprezzato questa inversione dello spettacolo, dove il soggetto tradizionalmente oggettivato diventa il produttore della propria rappresentazione.

La tecnica pittorica di Toor è tanto notevole quanto i suoi temi. Le sue pennellate abbozzate, rapide ma precise, creano una tensione tra l’immediato e l’eterno. Come scrive Said, “l’esiliato sa che in un mondo secolare e contingente, le dimore sono sempre provvisorie” [2]. Questa fugacità è inscritta nella materialità stessa della pittura di Toor, le sue figure sembrano allo stesso tempo solidamente presenti e sul punto di dissolversi.

L’opera di Toor dialoga costantemente con la storia dell’arte, ma mai in maniera servile. Si appropria dei gesti, delle composizioni e delle tecniche dei maestri europei per creare un vocabolario visivo che parla di esperienze radicalmente diverse. I suoi riferimenti vanno da Caravaggio a Watteau, passando per Manet e Van Dyck, ma sono sempre trasformati, reinventati al servizio di una visione contemporanea e personale.

La società dello spettacolo di Debord trova una risonanza particolare nell’onnipresenza degli schermi nei dipinti di Toor. Smartphone e laptop appaiono come portali verso altre realtà, altre possibilità di esistenza. In “Sleeping Boy” (2019), il bagliore bluastra di un laptop illumina il volto addormentato del protagonista, suggerendo che anche nel sonno questi giovani uomini rimangono connessi a reti virtuali che trascendono i confini geografici.

Questa mediazione tecnologica dell’esperienza richiama l’osservazione di Debord secondo cui “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra persone, mediato da immagini” [1]. I personaggi di Toor negoziano costantemente il loro rapporto con il mondo e con gli altri attraverso queste interfacce tecnologiche, il che aggiunge un ulteriore livello di complessità alla loro condizione di esiliati culturali.

I dipinti che rappresentano controlli alle frontiere o perquisizioni da parte delle forze dell’ordine (“Man with Face Creams and Phone Plug”, 2019) testimoniano la violenza sistemica che prende di mira i corpi razzializzati. Qui Said ci aiuta a comprendere come l’identità sia costruita non solo dall’autodefinizione ma anche dall’etichettatura esterna. L’esiliato è costantemente rimandato alla sua alterità dallo sguardo dominante, un fenomeno che Toor cattura con un’acuta sensibilità dolorosa.

Tuttavia, nonostante la malinconia che attraversa la sua opera, Toor non cade mai nella disperazione. C’è una resilienza gioiosa nei suoi personaggi, una determinazione a creare spazi di autenticità in un mondo ostile. Come scrive Said, “l’esilio può produrre rancori e rimpianti, ma anche una visione più acuta delle cose” [2]. Questa visione acuta è proprio ciò che Toor ci offre, uno sguardo al contempo critico ed empatico sulle complessità dell’identità contemporanea.

L’opera “Parts and Things” (2019) illustra perfettamente questa esplorazione dell’identità frammentata. In questo dipinto surreale, parti di corpi disarticolate escono da un armadio, metafora evidente del coming out ma anche illustrazione viscerale di ciò che Said chiama “la pluralità di visione” dell’esiliato. I pezzi sparsi, teste, torsoli, membri, evocano le molteplici facce identitarie che i soggetti diasporici devono costantemente negoziare.

Se Debord ci mette in guardia contro la passività indotta dallo spettacolo, Toor ci mostra come le comunità marginalizzate possano riappropriarsi degli strumenti dello spettacolo per affermare la propria esistenza. I suoi personaggi non sono semplici consumatori passivi di immagini, ma agenti attivi che creano i propri contro-narativi visivi.

La virtuosità tecnica di Toor è particolarmente evidente nel suo uso della luce. Che si tratti del bagliore verdastro di bar e feste o degli aloni quasi divini che circondano alcuni dei suoi personaggi, Toor usa la luce come uno strumento narrativo potente. Questa maestria ricorda quella di Caravaggio, ma al servizio di una visione radicalmente contemporanea.

In “The Star” (2019), un giovane si prepara davanti a uno specchio, assistito da amici che sistemano i suoi capelli e il suo trucco. Questo quadro cattura perfettamente l’ambivalenza della visibilità per le minoranze, essere visti può essere allo stesso tempo un’affermazione gioiosa e un’esposizione pericolosa. Come osserva Debord, “ciò che appare è buono, ciò che è buono appare” [1], Toor complica questa equazione mostrando come l’apparenza sia sempre negoziata attraverso rapporti di potere.

L’opera di Toor costituisce infine una critica sottile ma incisiva di ciò che Said chiama “l’orientalismo”, questa tendenza occidentale a esotizzare e omogeneizzare le culture non occidentali. Dipingendo uomini sud-asiatici nella loro complessità individuale, Toor disinnesca le aspettative orientaliste e rifiuta di fornire le rappresentazioni esotiche che il mercato dell’arte occidentale potrebbe aspettarsi da un artista pakistano.

La forza di Toor risiede nella sua capacità di creare opere che funzionano simultaneamente a più livelli: estetico, politico, personale. I suoi quadri sono belli da vedere, con i loro colori vibranti e le composizioni accuratamente orchestrate, ma sono anche profondamente politici nella loro insistenza nel rappresentare vite spesso invisibili.

L’opera di Salman Toor ci ricorda che l’arte più potente spesso nasce dai margini, dagli interstizi tra culture, generi, identità. È proprio questa posizione intermedia, quell’esilio produttivo di cui parla Said, che permette a Toor di offrire uno sguardo unico sul nostro mondo contemporaneo.

In un’epoca in cui lo spettacolo mediatico tende ad appiattire la complessità umana, Toor ci offre immagini che resistono alla semplificazione, che insistono sulla profondità e ambiguità dell’esperienza vissuta. I suoi quadri sono inviti a guardare in modo diverso, a vedere oltre le rappresentazioni dominanti per scoprire quei momenti di intimità, vulnerabilità e gioia che costituiscono la trama di ogni vita umana, indipendentemente dai confini culturali o sessuali.

Toor dipinge spazi interni, appartamenti, bar, camere da letto, ma sono anche spazi mentali, carte emotive dell’esperienza diasporica queer. E forse è qui che risiede il suo più grande traguardo: farci entrare in questi spazi interni, invitarci a vedere il mondo attraverso altri occhi, a sentire altri modi di essere. In un mondo sempre più diviso, questo è un atto tanto estetico quanto politico.


  1. Debord, Guy. “La società dello spettacolo”, Éditions Buchet-Chastel, Parigi, 1967.
  2. Said, Edward W. “Riflessioni sull’esilio e altri saggi”, Actes Sud, Arles, 2008. (Traduzione di “Reflections on Exile and Other Essays”, Harvard University Press, 2000).
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Riferimento/i

Salman TOOR (1983)
Nome: Salman
Cognome: TOOR
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Pakistan

Età: 42 anni (2025)

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