Ascoltatemi bene, banda di snob. Pensate di sapere tutto sull’arte contemporanea con le vostre analisi cervellotiche, ma guardate una ceramica e non vedete altro che un vaso. Che tristezza! È come contemplare il mare e vedere solo acqua. Oggi vi parlerò di Dame Magdalene Odundo, quest’artista keniota divenuta britannica che, da più di quattro decenni, trasforma l’argilla in poesia silenziosa e fa tacere i più loquaci di noi.
Se non conoscete ancora Odundo, significa che vivete in una caverna, il che è ironico, visto che è proprio nelle caverne che gli esseri umani hanno iniziato a lavorare l’argilla circa 20.000 anni fa. Odundo è la ceramista più influente dei nostri tempi, colei le cui opere si vendono all’asta a prezzi stratosferici, oltre 500.000 euro per un singolo vaso nel 2023. I suoi pezzi, questi corpi neri o aranciati dalle curve sensuali, ci parlano di un linguaggio universale che trascende confini ed epoche.
Nata a Nairobi nel 1950, Odundo è cresciuta tra il Kenya e l’India, inizialmente formata nel design grafico prima di stabilirsi nel Regno Unito nel 1971. È a Cambridge che scopre la sua passione per la ceramica, sotto l’influenza di Zoë Ellison, quella ceramista zimbabwiana che le mise l’argilla in mano per la prima volta. “La prima volta che ho toccato l’argilla, me ne sono letteralmente innamorata”, confida [1]. Lei che contava di diventare grafica ha finito per abbracciare questa materia primordiale, quella che ci lega tutti alla terra. Ha poi proseguito la sua formazione al West Surrey College of Art and Design (oggi University for Creative Arts) e al Royal College of Art di Londra.
Ma è durante i suoi viaggi in Nigeria, Kenya, tra i Pueblo del New Mexico, in Cina e altrove, che Odundo forgia veramente la sua identità artistica. Assorbe tecniche e influenze, non per copiarle stupidamente, ma per assimilarle e trascenderle. Osserva le ceramiste Gwari in Nigeria, tra cui la leggendaria Ladi Kwali, e apprende le tecniche di modellatura a mano. Come un’antropologa dell’argilla, studia le tradizioni ceramiche di tutto il mondo per meglio inventare il proprio linguaggio.
Ciò che rende unico Odundo è che è riuscita a creare uno stile immediatamente riconoscibile attingendo alla storia universale della ceramica. I suoi vasi non sono vasi. Sono corpi, presenze, personaggi. Modella i suoi pezzi a mano con la tecnica del colombino, allungando e pizzicando l’argilla rossa fino a ottenere forme organiche che evocano ora un ventre di donna incinta, ora un collo slanciato, o ancora un’acconciatura tradizionale africana. Dopo la modellatura segue la lucidatura meticolosa con ciottoli, poi la cottura. Una prima cottura in atmosfera ossidante conferisce questa caratteristica tonalità arancione; una seconda in atmosfera riducente produce questi neri profondi che sembrano assorbire la luce.
Osservate il pezzo “Untitled” del 1995, con il suo ventre arrotondato e il lungo collo che si protende come in un allungamento aggraziato. Non è forse un corpo che danza? Una donna in movimento? O forse un uccello sul punto di spiccare il volo? Questa ambiguità è esattamente ciò che rende potente il suo lavoro. Odundo ci lascia liberi di interpretare, di proiettare i nostri fantasmi e associazioni su forme allo stesso tempo familiari e straniere.
Prendiamo ora la dimensione corporea della sua opera, che ci immerge direttamente nel campo della danza. Perché sì, le ceramiche di Odundo danzano. Vorticano, si contorcono, si allungano nello spazio come ballerini in piena coreografia. Non è un caso che parli spesso di “danzare” con i suoi pezzi durante la creazione. Sta su un piccolo sgabello accanto al pezzo di argilla, lavorando dall’alto verso il basso, girandoci intorno, in una vera e propria performance corporea. Il processo creativo diventa esso stesso una danza.
La danza, quest’arte del corpo in movimento, trova un’eco perfetta in questi vasi che sembrano immobilizzati in pieno movimento. Come ha brillantemente espresso il coreografo Merce Cunningham, “la danza è un’arte nel tempo e nello spazio; l’oggetto della danza è creare relazioni temporali e spaziali significative” [2]. I pezzi di Odundo creano precisamente queste relazioni significative nello spazio, suggerendo al contempo il tempo attraverso il movimento sospeso.
Le sue opere ci ricordano le danze tradizionali africane, dove il corpo diventa veicolo di comunicazione con forze invisibili. Ma evocano anche le linee essenziali della danza contemporanea, le eleganti torsioni di un balletto moderno. Il pezzo “Untitled” del 2021, con la sua vita sottile e l’apertura asimmetrica, non è forse come una danzatrice che si piega in un’arabesca perfetta? Lo storico dell’arte Augustus Casely-Hayford ha giustamente osservato che Odundo crea “un sistema visivo transtemporale e transglobale che le è proprio; moderno, ma allo stesso tempo antico, africano ma risolutamente europeo” [3].
Questa tensione tra tradizione e modernità, tra Oriente e Occidente, tra statico e dinamico, fa tutta la ricchezza della sua opera. Non si limita a fare bei vasi per decorare il vostro salotto IKEA (anche se renderebbero il vostro interno decisamente più interessante). Esplora questioni fondamentali di identità, migrazione, appartenenza. Nata in Kenya, formata in Gran Bretagna, viaggiando per il mondo, Odundo incarna quell’ibridità culturale che definisce la nostra epoca.
Ma c’è di più. Se la danza ci permette di comprendere la dimensione corporea e ritmica della sua opera, è verso l’architettura che dobbiamo volgere lo sguardo per afferrare la sua struttura spaziale. Perché i vasi di Odundo sono prima di tutto spazi, volumi che dialogano con il vuoto che li circonda e che contengono.
Come affermava l’architetto Louis Kahn, “l’architettura è la creazione ponderata di spazi” [4]. Le ceramiche di Odundo incarnano perfettamente questa definizione. Ogni pezzo è uno spazio accuratamente orchestrato, dove l’interno e l’esterno entrano in risonanza. Lei parla spesso dei suoi vasi come di “una pelle e un corpo, un interno e un esterno”. Questa concezione dell’oggetto come uno spazio abitabile, come un’architettura in miniatura, è fondamentale.
Prendete la serie “Symmetrical Series” di Odundo, quei vasi dalle forme perfettamente equilibrate la cui apertura stretta contrasta con la pienezza del corpo. Non vi ricorda forse le proporzioni perfette di un tempio greco? O la purezza formale di una cattedrale modernista come quella di Ronchamp di Le Corbusier? Odundo comprende, come i grandi architetti, che la forma deve essere al servizio dello spazio che definisce.
Questa dimensione architettonica si manifesta anche nel suo modo di pensare i volumi. Le sue opere non sono mai semplicemente appoggiate su un basamento; sembrano elevarsi, sfidare la gravità, creare un proprio rapporto con lo spazio. Come spiega lei stessa: “Il corpo umano è un vaso che ci contiene, che contiene il nostro essere umano. In quanto artisti e creatori di oggetti, quando scolpiamo, modelliamo o formiamo figure o contenitori, facciamo eco al vaso che siamo come contenitori umani di spirito e corpo” [3].
Questa visione del corpo come architettura, e dell’architettura come corpo, attraversa tutta la sua opera. Ci ricorda che abitiamo il nostro corpo come abitiamo uno spazio, e che ogni spazio porta l’impronta del corpo che l’ha concepito. I vasi di Odundo sono architetture corporee, spazi viventi che respirano e dialogano con il loro ambiente.
C’è un’economia di mezzi nel lavoro di Odundo che suscita ammirazione. Come i più grandi architetti, sa che la semplicità è l’ultima sofisticazione. Le sue opere non contengono alcun elemento superfluo, nessuna decorazione gratuita. Ogni curva, ogni rigonfiamento, ogni texture è necessaria all’equilibrio dell’insieme. Questa rigore formale riecheggia la celebre frase dell’architetto Mies van der Rohe: “Less is more”, il meno è di più.
Tuttavia, in questa apparente semplicità si cela una complessità infinita. Perché ogni pezzo di Odundo contiene delle moltitudini: la storia della ceramica sin dalla notte dei tempi, le tradizioni di lavorazione di più continenti, le riflessioni personali dell’artista sull’identità e l’appartenenza. Come un edificio che è allo stesso tempo funzionale e simbolico, utile e sacro, i suoi vasi operano a più livelli di lettura.
Durante la recente mostra “Magdalene Odundo: A Dialogue with Objects” al Gardiner Museum di Toronto (ottobre 2023, aprile 2024), l’artista ha affiancato le sue opere a oggetti storici di diverse culture ed epoche. Questo dialogo visivo rivelava le profonde connessioni tra il suo lavoro e la storia universale della creazione di oggetti. Un vaso greco antico si confrontava con una ceramica contemporanea, una maschera africana dialogava con una scultura modernista. In questo vasto panorama, le opere di Odundo apparivano come sintesi perfette, ponti gettati tra epoche e culture.
Questa esposizione, come quella tenutasi a Houghton Hall fino a settembre 2024, o quella alla Thomas Dane Gallery di Londra, testimonia lo status ormai incontestabile di Odundo nel mondo dell’arte. Non è più soltanto una ceramista, ma un’artista di rilievo la cui opera trascende le categorie tradizionali di arte e artigianato.
Il mercato l’ha ben capito, tra l’altro. I prezzi delle sue opere sono esplosi negli ultimi anni. Le cifre vertiginose delle sue vendite testimoniano il riconoscimento tardivo ma definitivo del suo genio. Perché si tratta proprio di genio. In un mondo saturo di immagini e rumori, Odundo ci offre il lusso del silenzio e della contemplazione. Le sue opere non urlano, sussurrano. Non si impongono, invitano. Come ha scritto così bene il critico Emmanuel Cooper, “alcune di queste opere sono quasi esilaranti per la loro audacia, la loro spudoratezza, la loro sfacciataggine. A volte, si pavoneggiano anche in una sorta di autosoddisfazione meravigliosamente seducente. Sembrano poter scoppiare a ridere in qualsiasi momento” [4].
Questa personificazione non è casuale. I vasi di Odundo sono vivi. Respirano, danzano, ci guardano. Ci chiamano nella nostra umanità più profonda, ricordandoci che siamo anche noi vasi temporanei, contenitori di anima. Ci riportano all’essenziale: la terra da cui veniamo e a cui torneremo.
Nel nostro tempo ossessionato dal digitale e dal virtuale, l’opera di Odundo ci ricorda il valore inestimabile del tangibile, del materiale, dell’incarnato. I suoi vasi sono decisamente analogici. Esistono nello spazio reale, hanno un peso, una consistenza, una presenza. Sono il frutto di un dialogo diretto tra la mano dell’artista e la materia. Come dice lei stessa: “Vieni dalla terra, e vi ritorni” [3].
Questa consapevolezza della nostra finitudine, del nostro radicamento terrestre, conferisce alla sua opera una dimensione profondamente umanista. Odundo celebra la bellezza del corpo umano in tutta la sua diversità, sensualità, fragilità. I suoi vasi sono come inni alla carne, alla pelle, alle curve e alle pieghe che costituiscono la nostra umanità comune.
C’è qualcosa di propriamente alchemico nel suo modo di trasformare l’argilla, questa materia grezza e informe, in oggetti di una bellezza straordinaria. L’argilla diventa oro sotto le sue dita, letteralmente, se si considera il valore commerciale delle sue opere, ma soprattutto metaforicamente, in questa trasmutazione della materia in spirito.
Perché si tratta anche di spiritualità nell’opera di Odundo. Non una spiritualità dogmatica o religiosa, ma questa connessione profonda a ciò che ci supera, a ciò che ci unisce tutti. I suoi vasi sono come oggetti rituali contemporanei, punti di contatto tra il visibile e l’invisibile, il materiale e l’immateriale.
L’artista stessa riconosce questa dimensione: “Il vaso è presente dalla nascita alla morte. Siamo portati al mondo attraverso un vaso e lo lasciamo in un vaso. Penso sia per questo che l’idea di incarnazione, e di rappresentazione di un individuo, è stata così toccante quando si pensa e si apprezza il vaso come un oggetto universale” [3].
Questa universalità è forse la chiave per comprendere la potenza dell’opera di Odundo. In un mondo frammentato e diviso, ci ricorda la nostra umanità comune, la nostra appartenenza alla grande famiglia dei creatori di oggetti, dai primi ceramisti della preistoria fino a oggi. Ci inserisce in una continuità temporale che supera confini e identità particolari.
Non è forse questa la missione ultima dell’arte? Farci sentire, al di là delle differenze superficiali, ciò che ci unisce profondamente? I vasi di Odundo, nella loro eleganza silenziosa, riescono in questo meglio di molti discorsi. Sono al tempo stesso profondamente radicati in tradizioni specifiche e decisamente universali, come se l’artista avesse realizzato la quadratura del cerchio.
Allora sì, banda di snob, potete continuare a esaltarvi davanti all’ultimo artista concettuale alla moda che espone le sue mutande sporche in una galleria alla moda. Nel frattempo, Magdalene Odundo, nel suo atelier nel Surrey, continuerà a modellare l’argilla con la pazienza e la saggezza di un’artista che ha capito l’essenziale: l’arte vera non cerca di impressionare, ma di toccare. Non vuole essere compresa intellettualmente, ma sentita visceralmente.
I suoi vasi ci parlano senza parole, ci toccano senza contatto, ci emozionano senza artifici. Nella loro apparente semplicità si nasconde una complessità infinita, come in quei kōan zen che sfidano la logica per raggiungere direttamente l’intuizione. Ci invitano a rallentare, osservare, sentire. A essere pienamente presenti. In questo mondo di rumore e furia, non è forse il più bel dono?
- Stephanie Connell, “Artist Spotlight: The work of Dame Magdalene Odundo”, Doerr Valuations, 2024.
- Merce Cunningham, “Spazio, Tempo e Danza”, Transformation, 1952, vol. 1, n. 3.
- Beth Williamson, “Recensione di Magdalene Odundo-Thomas Dane Gallery”, Studio International, 2024.
- Emmanuel Cooper, “Magdalene Odundo: Una mostra a tutto campo”, Crafts Council, Londra, 1992.
















