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Maja Ruznic : Tra Jung e l’eredità di Rothko

Pubblicato il: 29 Ottobre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Basata nel Nuovo Messico, Maja Ruznic dipinge figure fantasmatiche che emergono da vasti campi cromatici. Il suo processo si basa sull’immaginazione attiva: versa la pittura diluita, osserva le macchie asciugarsi, poi estrae forme da questo caos colorato. Le sue opere coniugano lo sciamanesimo slavo, la memoria del disradicamento bosniaco e la ricerca del sublime di Rothko.

Ascoltatemi bene, banda di snob : se state ancora cercando una pittura figurativa che si limiti a guardarvi gentilmente dal suo muro bianco, cambiate strada. Maja Ruznic non è qui per assecondare il vostro bisogno di conforto visivo. Questa artista basata nel Nuovo Messico costruisce mondi dove le figure si dissolvono, dove i colori respirano come organismi viventi, e dove ogni tela agisce come un portale verso territori psichici che la maggior parte di noi preferirebbe lasciare inesplorati. Le sue pitture a olio diluito evocano simultaneamente i terrori della guerra, i misteri dello sciamanesimo slavo, e quella particolare malinconia che coglie chi ha conosciuto il disradicamento. Esibita alla Whitney Biennial 2024 e presente nelle collezioni del Museo d’Arte Moderna della città di Parigi, del MoMA a San Francisco e del Whitney Museum, Ruznic si impone oggi come una voce essenziale della pittura contemporanea.

L’immaginazione attiva : dialogare con i fantasmi interiori

Ciò che colpisce prima di tutto in Ruznic è il suo metodo. L’artista non lavora a partire da schizzi o fotografie. Versa la pittura diluita sulla tela e aspetta. Osserva le macchie asciugarsi per ore fino a che forme emergono dal caos cromatico. Questo approccio trova il suo ancoraggio teorico in un concetto sviluppato dallo psichiatra svizzero Carl Jung tra il 1913 e il 1916: l’immaginazione attiva [1]. Jung definiva questo metodo come un processo che permette al conscio e all’inconscio di comunicare, una tecnica di meditazione dove i contenuti dell’inconscio si traducono in immagini o si personificano in entità distinte.

Ruznic pratica esplicitamente questa tecnica nel suo processo creativo. Spiega di fare molta immaginazione attiva, questo metodo sviluppato da Jung che consiste nell’osservare le immagini emergere nel corpo e lasciarle condurre il cammino [2]. Questa dichiarazione inserisce direttamente la pratica pittorica di Ruznic in una tradizione psicoanalitica dove la pittura diventa uno strumento di esplorazione dell’inconscio. Ogni tela funziona come una seduta terapeutica, un confronto con ciò che Jung chiamava l’ombra.

Le figure che popolano i dipinti di Ruznic non sono ritratti nel senso classico. Sono archetipi, manifestazioni di forze psichiche profonde. In The Arrival of Wild Gods (2022), un trittico monumentale, si osservano forme umanoidi che sembrano emergere da un liquido amniotico viola e verde. Queste figure non possiedono tratti definiti. Fluttuano in uno spazio indeterminato, come se aspettassero che il nostro sguardo dia loro forma. È proprio qui che risiede la potenza dell’immaginazione attiva: essa non impone un significato fisso. Invita lo spettatore a proiettare i propri contenuti inconsci sulla tela.

L’approccio di Ruznic differisce radicalmente dalla rappresentazione figurativa tradizionale. I suoi personaggi ricorrenti, l’uomo con i baffi che evoca il padre che non ha mai conosciuto, il girasole che rappresenta sua madre e la figura con il piede deformato che incarna l’artista stessa, non sono individui ma costellazioni psichiche. Appaiono, si trasformano, si fondono, si separano attraverso le tele, imitando le dinamiche dell’inconscio stesso.

La tecnica pittorica rafforza questa dimensione psicologica. Diluendo massicciamente la sua pittura con olio di lino e cera, Ruznic crea strati traslucidi che lasciano visibile la trama del lino grezzo. Questa trasparenza materializza l’idea di Jung secondo cui l’inconscio affiora costantemente sotto la superficie della coscienza. Si vede letteralmente attraverso le forme, come se le figure non fossero mai completamente presenti, sempre in procinto di apparire o scomparire.

In The Helpers II (2023-24), un’opera dominata da verdi profondi e violetto acquatico, una dozzina di profili facciali circondano una figura femminile con le braccia aperte. Sopra di lei si libra una forma che potrebbe essere un lampadario o una testa capovolta con capelli lunghi. Questa composizione evoca i rituali di intercessione tra il mondo materiale e quello spirituale. Gli “aiutanti” del titolo non sono angeli nel senso cristiano, ma figure protettrici provenienti da cosmologie più antiche, entità che Jung avrebbe identificato come proiezioni dell’archetipo del sé.

La pratica quotidiana di Ruznic somiglia essa stessa a un rituale sciamanico. Inizia le sue giornate con una o due ore di escursione nel deserto del Nuovo Messico, ossigenando il suo corpo. Poi pratica brevi meditazioni e sedute di immaginazione attiva. Solo dopo questo lavoro preparatorio si dedica alle grandi tele. L’immaginazione attiva richiede uno stato particolare di coscienza, né completamente sveglio né addormentato, uno stato di sogno controllato. Le lunghe ore che Ruznic trascorre semplicemente a guardare le sue pitture in corso fanno parte integrante di questo processo.

Questa dimensione terapeutica spiega perché così tante persone piangono davanti alle tele di Ruznic. Durante la sua mostra al Harwood Museum nel 2021, diversi visitatori hanno riportato reazioni emotive intense. Queste lacrime testimoniano un riconoscimento, un incontro con contenuti psichici che gli spettatori portano dentro senza saperlo. L’immaginazione attiva funziona: rende visibile l’invisibile, personifica l’impersonale, dà forma al caos interiore.

Il respiro del colore : ereditare da Rothko

Se l’immaginazione attiva di Jung fornisce il metodo, è Mark Rothko a dare a Ruznic il suo linguaggio pittorico fondamentale. Ruznic racconta di aver visto una sala di Rothko alla Tate Modern, un’esperienza che l’ha profondamente segnata. Ciò che vide quel giorno fu la trama del lino grezzo attraverso gli strati sottili di pittura [3]. Questa visione ha cambiato per sempre la sua pratica. Ha deciso di non sovraccaricare mai più le sue tele di pigmento, poiché l’eccesso di pittura nasconde il respiro del supporto.

Questa nozione di respiro è fondamentale. Per Rothko così come per Ruznic, la tela non è un semplice supporto inerte. È un organismo vivente. Quando si può vedere la trama del tessuto, la pittura sembra respirare con lo spettatore. Rothko voleva che i suoi quadri fossero appesi all’altezza degli occhi, in una luce soffusa, a breve distanza dallo spettatore. Cercava l’avvolgimento totale del campo visivo. Ruznic persegue la stessa ambizione, ma vi aggiunge una dimensione figurativa che Rothko aveva abbandonato nel 1947.

La Color Field painting, questo movimento di cui Rothko fu uno dei pionieri assieme a Barnett Newman e Clyfford Still negli anni 1950, si basava su vaste distese di colore puro che creavano piani ininterrotti [4]. Questi pittori rifiutavano che il colore servisse a rappresentare oggetti riconoscibili: esso diventava esso stesso il contenuto del quadro, la sua unica ragione d’essere. Ruznic opera una sintesi audace tra Color Field e figurazione. I suoi sfondi funzionano come i campi di Rothko, vasti estesi atmosferici di colore saturo che sembrano pulsare della loro stessa energia. Ma a differenza di Rothko, lei fa emergere da questi campi forme quasi umane.

In Azmira & Maja (2023-24), una tela monumentale di 230 per 180 centimetri attualmente nella collezione del Musée d’Art Moderne di Parigi, una madre e una bambina stanno davanti a un paesaggio giallo-verde vaporoso. Lo sfondo non è un decor; è una presenza emotiva tanto forte quanto le due figure umane. Questo verde particolare evoca per Ruznic la Bosnia, il suo paese natale che ha dovuto fuggire a nove anni durante la guerra.

Il colore per Ruznic funziona come un sistema simbolico personale. Ogni tonalità rappresenta un luogo, una persona, uno stato d’animo. Il blu oltremare mescolato con il bianco di titanio e il blu cobalto crea per lei un’apertura psichica. Il verde e il giallo la riportano alla Bosnia, alla casa verde menta della sua infanzia. Queste associazioni sono radicate nella memoria corporea. Il colore agisce direttamente sul sistema nervoso dello spettatore, bypassando l’intelletto per toccare qualcosa di più antico e profondo.

Lo stesso Rothko insisteva sulla dimensione emotiva del suo lavoro. Non si interessava alle relazioni tra colori o forme, ma solo all’espressione delle emozioni umane fondamentali. Ruznic condivide esattamente questa convinzione. I suoi quadri non sono esercizi formali. Sono portali emotivi. La differenza è che mentre Rothko era arrivato a considerare qualsiasi figurazione un ostacolo all’emozione pura, Ruznic pensa che le figure spettrali e semi-astratte che evoca possano portare tanta carica emotiva quanto i rettangoli fluttuanti di Rothko.

In The Child’s Throat (2024), Ruznic giustappone marroni caldi, verdi lussureggianti e un blu elettrico che evoca laser che attraversano una giungla. Le figure sdraiate, pressate l’una contro l’altra, ricordano superficialmente Gustav Klimt. Ma dove Klimt decorava, Ruznic disturba. Al centro della composizione c’è una figura di bambino con la testa inclinata all’indietro, circondata da fantasmi sgraziati. È un’immagine di sacrificio, di vulnerabilità assoluta. Il colpo di genio è che queste magnifiche armonie cromatiche servono un contenuto emotivo profondamente turbante.

Verso una pittura della soglia

Una evidenza si impone esaminando l’opera di Maja Ruznic: ci troviamo davanti a un’artista che ha realizzato ciò che pochi pittori contemporanei osano neppure tentare. Ha creato un linguaggio visivo che onora le grandi tradizioni moderniste pur superandole, che prende sul serio la dimensione terapeutica e spirituale dell’arte senza cadere nel misticismo vuoto, che assume la figurazione senza rinunciare alle conquiste dell’astrazione.

La sintesi che realizza Ruznic tra l’immaginazione attiva di Jung e l’eredità di Rothko non è un collage eclettico di riferimenti intellettuali. È una necessità vitale. Per un’artista che ha conosciuto la guerra, l’esilio e lo sradicamento, che ha vissuto in campi profughi austriaci tra i nove e i dodici anni, la pittura non può essere un semplice gioco formale. Deve essere un linguaggio di sopravvivenza, un modo per trattare cose per le quali non aveva parole. L’immaginazione attiva le fornisce il metodo per immergersi in queste zone traumatiche senza annegare. La lezione di Rothko le dà i mezzi per tradurre queste immersioni in esperienze visive che toccano direttamente il sistema nervoso dello spettatore.

Ciò che rende l’opera di Ruznic particolarmente rilevante oggi è che rifiuta la facilità dell’impegno politico diretto pur rimanendo profondamente politica. I suoi dipinti non denunciano esplicitamente la guerra in Bosnia. Non illustrano gli orrori dello spostamento forzato. Al contrario, ci immergono nello stato psichico del trauma, della perdita, della memoria spezzata. E paradossalmente, è questo approccio obliquo che rende l’esperienza universalmente accessibile. I suoi fantasmi non sono solo quelli delle guerre balcaniche. Sono i fantasmi che portiamo tutti: i nostri genitori scomparsi, le nostre identità frammentate, le nostre speranze infrante e le nostre paure d’infanzia.

La decisione di Ruznic di stabilirsi nel deserto del New Mexico nel 2017 appare, in retrospettiva, come una scelta estetica ed esistenziale di straordinaria accuratezza. Questo paesaggio arido, con la sua intensità luminosa, la sua durezza vegetale, la sua complessa storia di violenza coloniale e di resilienza indigena, offre l’equivalente geografico del suo progetto artistico. È una terra di soglie, uno spazio liminale dove i confini tra vita e morte, visibile e invisibile, materiale e spirituale si affievoliscono. Ruznic dipinge soglie. Le sue figure abitano un intermezzo. Non sono né completamente astratte né del tutto figurative. Non sono né vive né morte. Sono in questo stato intermedio che gli antropologi chiamano liminalità.

Se le sue figure restano sfocate, se i loro contorni si dissolvono, è perché dipinge la stessa texture della memoria e dell’inconscio. I ricordi traumatici non sono mai nitidi. Ritornano a frammenti, per sensazioni diffuse, per colori e per umori piuttosto che per racconti coerenti. L’estetica di Ruznic è un’epistemologia del trauma, una teoria della conoscenza adattata a ciò che non può essere conosciuto chiaramente ma solo percepito confusamente.

Nella nostra epoca saturata di immagini, dove ogni secondo si producono migliaia di fotografie nitide e precise, dove l’imaging medico può mappare ogni millimetro dei nostri corpi, dove la sorveglianza digitale pretende di vedere e registrare tutto, la pittura nebulosa e incerta di Ruznic costituisce un atto di resistenza estetica. Afferma che esistono realtà che l’alta definizione non può catturare, verità che solo la tecnica della mano ubriaca può avvicinare.

Il futuro dirà se Maja Ruznic entrerà nel pantheon dei grandi pittori del XXI secolo. Ma ciò che conta davvero è che ha già realizzato qualcosa di essenziale. Ha dimostrato che la pittura può ancora essere uno strumento di esplorazione psichica autentica, un ponte tra i morti e i vivi, tra il conscio e l’inconscio, tra la catastrofe storica e la possibilità di redenzione. In un mondo che si nutre di superficialità e istantaneità, Maja Ruznic ci offre immagini che richiedono tempo, che premiano la contemplazione protratta, che si approfondiscono invece di esaurirsi. È già una vittoria considerevole.


  1. Carl Gustav Jung, The Collected Works of C.G. Jung, Volume 8: The Structure and Dynamics of the Psyche, Princeton University Press ; Barbara Hannah, Encounters with the Soul: Active Imagination as Developed by C.G. Jung, Chiron Publications, 1981.
  2. Maja Ruznic, intervista a The Creative Independent, 2025.
  3. Maja Ruznic, citata in Claudia Cheng, “The Art of Maja Ruznic, Motherhood, and Meditation”, 2020.
  4. Irving Sandler, Abstract Expressionism: The Triumph of American Painting, Harper & Row, 1970.
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Riferimento/i

Maja RUZNIC (1983)
Nome: Maja
Cognome: RUZNIC
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Bosnia ed Erzegovina

Età: 42 anni (2025)

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