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Mark Bradford : L’archeologo della memoria urbana

Pubblicato il: 22 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 5 minuti

Bradford non dipinge, strappa. Le sue opere monumentali sono create a partire da strati di manifesti pubblicitari che accumula e poi lacera parzialmente, creando un’archeologia del presente. Ogni strato rivela una storia nascosta della città, trasformando il banale in straordinario.

Ascoltatemi bene, banda di snob! Mark Bradford (nato nel 1961 negli Stati Uniti) è uno dei pochi artisti che mi dà ancora speranza in questo mondo saturo di ego e vacuità concettuale. Mentre alcuni si deliziano davanti a quadrati bianchi pensando di dimostrare intelligenza, Bradford scava letteralmente nella carne di Los Angeles per estrarne l’essenza.

Vi parlerò di due aspetti fondamentali del suo lavoro che trascendono la semplice nozione di estetica per raggiungere qualcosa di più profondo, più viscerale. Qualcosa che probabilmente farebbe svenire i piccoli borghesi che confondono arte moderna e arte contemporanea nei loro salotti dorati.

Prima di tutto, la sua tecnica di scavo urbano. Bradford non dipinge, strappa. Non compone, scompone. Le sue opere monumentali, alcune raggiungono più di 3 metri di altezza, sono create a partire da strati successivi di manifesti pubblicitari, volantini e carta trovati nelle strade di South Central Los Angeles. Li accumula, li incolla, poi li strappa parzialmente con strumenti elettrici, creando così un’archeologia del presente. Questo approccio fa eco al pensiero di Walter Benjamin sulle rovine della modernità, dove ogni strato rivela una storia nascosta della città.

Ma Bradford va oltre Benjamin. Non si limita a osservare le rovine, le crea attivamente per rivelare ciò che si nasconde dietro la facciata educata della società americana. Quando usa una levigatrice elettrica per attaccare la superficie delle sue opere, è come se effettuasse una dissezione urbana, rivelando i tessuti cicatriziali di una città segnata da rivolte, povertà e segregazione. Non è senza ricordare il concetto di “società dello spettacolo” di Guy Debord, dove la realtà sociale è mediata da immagini. Bradford decompone letteralmente questo spettacolo, strato dopo strato.

Il secondo aspetto del suo lavoro è la sua mappatura sociale. Le sue opere, viste da lontano, spesso evocano viste aeree di aree urbane, mappe astratte di territori immaginari. Ma avvicinatevi, e scoprirete che queste “mappe” sono composte da annunci di prestiti su pegno, pubblicità per test DNA di paternità, offerte di soluzioni abitative… Ci presenta un atlante della precarietà urbana, una geografia della sopravvivenza quotidiana.

Questo approccio cartografico ricorda la “psicogeografia” dei situazionisti, ma Bradford la reinventa completamente. Dove Guy Debord e i suoi compagni si spostavano a piedi per Parigi per rivelare le zone di attrazione e repulsione emotiva, Bradford mappa le zone di tensione sociale, le linee di frattura economiche, i confini invisibili che segmentano le nostre città.

Prendete la sua opera “Scorched Earth” (2006), una mappa astratta del massacro razziale di Tulsa del 1921. L’opera sembra a prima vista una vista satellitare di una zona urbana devastata. Ma in realtà è una meditazione profonda sulla violenza sistemica e sulla memoria collettiva. Gli strati di carta bruciata e strappata diventano una potente metafora della storia cancellata, delle vite distrutte, delle cicatrici che non guariscono mai del tutto.

E mentre vedo alcuni collezionisti stupirsi davanti alle sue opere parlando solo della loro “bellezza formale”, come se la bellezza fosse l’unico criterio rilevante nell’arte contemporanea, Bradford continua il suo lavoro di archeologo sociale. Scava, gratta, rivela. Ogni colpo di levigatrice è un atto di resistenza contro l’amnesia collettiva, ogni strato di carta strappata è una striscia di verità messa a nudo.

Le sue opere sono testimonianze urbane che ci ricordano che la storia non viene mai veramente cancellata, solo coperta da nuovi strati di menzogne e oblio. È ciò che Derrida chiamava la “traccia”, questa presenza-assenza che infesta le nostre società. Bradford rende queste tracce visibili, tangibili, impossibili da ignorare.

Bradford trasforma materiali ordinari in documentari straordinari. Queste pubblicità a basso costo, questi manifesti strappati diventano nelle sue mani documenti storici, prove materiali della lotta quotidiana per la sopravvivenza nei quartieri svantaggiati. C’è qualcosa di profondamente foucaultiano in questo approccio, un’archeologia del sapere applicata all’arte contemporanea.

Le sue opere monumentali, alcune raggiungendo dimensioni impressionanti di 15 metri di lunghezza, ci costringono a confrontarci con la realtà sociale su una scala che sfida qualsiasi tentativo di minimizzazione o evitamento. È un’arte che rifiuta di essere ignorata, che richiede di essere vista, che forza la confrontazione.

Quando Bradford ha rappresentato gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia nel 2017, alcuni critici lo hanno definito il “Pollock della nostra epoca”. Che sciocchezza! Bradford non è Pollock, è Bradford. Non ha bisogno di essere confrontato con i grandi maestri bianchi per essere legittimato. Il suo lavoro si basta da solo, nella sua forza bruta e nella sua rilevanza sociale.

La sua installazione “Mithra” (2008) a New Orleans, un’arco monumentale lungo 21 metri costruito con pannelli di compensato recuperati, era molto più di una semplice scultura. Era un monumento ai sopravvissuti dell’uragano Katrina, un’accusa silenziosa contro l’abbandono istituzionale, un richiamo al fatto che l’arte può e deve essere un testimone del suo tempo.

Ciò che mi piace di Bradford è che crea opere che funzionano sia come documenti sociali sia come oggetti estetici autonomi. Non sacrifica mai l’una all’altra. La bellezza formale delle sue composizioni non attenua il loro mordente politico; al contrario, lo rafforza, lo rende più incisivo.

Il suo utilizzo delle carte crespa, quei piccoli fogli usati per le permanenti nei saloni di parrucchieri, come materiale artistico non è solo un riferimento autobiografico al suo passato da parrucchiere. È una trasformazione alchemica del banale in straordinario, un’elevazione del quotidiano a livello artistico che avrebbe fatto sorridere Marcel Duchamp.

Bradford dimostra che l’arte contemporanea può ancora avere significato, che può ancora parlarci del nostro mondo, delle nostre lotte, delle nostre speranze. Non ha bisogno di rifugiarsi nell’ermetismo concettuale o nella provocazione facile per essere rilevante.

Certo, le sue opere si vendono per milioni di euro. E allora? L’ironia del mercato dell’arte che trasforma la critica sociale in merce di lusso non toglie nulla alla potenza del suo lavoro. Al contrario, rafforza la pertinenza della sua critica.

Bradford è l’artista di cui abbiamo bisogno in questi tempi di confusione e amnesia collettiva. Le sue opere sono un costante richiamo che l’arte può ancora essere uno strumento di resistenza, un modo per preservare la memoria, un modo per rendere visibile l’invisibile.

E mentre alcuni continueranno a estasiarsi su Jonone nelle loro conversazioni salottiere, Bradford continuerà a scavare nelle viscere delle nostre città, a rivelare le loro storie nascoste, a costringerci a guardare ciò che preferiamo ignorare. Questo è il vero arte contemporanea. Tutto il resto è solo distrazione estetica per borghesi annoiati.

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Riferimento/i

Mark BRADFORD (1961)
Nome: Mark
Cognome: BRADFORD
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 64 anni (2025)

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