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Mark Tansey: Il filosofo del pennello

Pubblicato il: 9 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Mark Tansey manipola il tempo nelle sue opere con una maestria incomparabile. Nei suoi dipinti monocromatici crea enigmi visivi che ci costringono a interrogare non solo ciò che vediamo, ma anche come vediamo, trasformando ogni tela in un’esperienza intellettuale unica.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Se pensate che Mark Tansey, nato nel 1949 a San Jose in California, sia solo un pittore monocromatico che si diverte a creare dipinti dal realismo fotografico, siete tanto miopi quanto quei critici d’arte che confondono tecnica e sostanza. Ecco un artista che, dagli anni 1980, gioca magistralmente con la nostra percezione con un’ironia pungente che farebbe impallidire lo stesso René Magritte.

Nel mondo asettico dell’arte contemporanea, dove troppo spesso la mediocrità si veste delle vesti della novità, Tansey appare come un provocatore sottile che maneggia il pennello con la precisione di un chirurgo e lo spirito di un filosofo. La sua tecnica, di assoluta virtuosità, non è altro che il contenitore di un pensiero che fa saltare in aria le nostre certezze sull’arte e sulla sua rappresentazione.

Prendiamo innanzitutto questa ossessione di Tansey per la rappresentazione della rappresentazione. Le sue opere sono come specchi deformanti che ci restituiscono la nostra stessa stupidità di fronte all’arte. In “The Innocent Eye Test” (1981), mette in scena una mucca confrontata con un quadro che rappresenta altri bovini, sotto lo sguardo attento di scienziati in camici bianchi. La scena è di un ridicolo consumato, ma è proprio qui che risiede il suo genio. Quest’opera non è altro che uno schiaffo monumentale all’establishment artistico che pretende di detenere la verità su cosa sia l’arte “autentica”. Il dipinto funziona come una macchina da guerra contro i nostri pregiudizi sulla percezione artistica, in eco diretto alle teorie del filosofo Ludwig Wittgenstein sui giochi di linguaggio e sulla relatività dell’interpretazione.

Wittgenstein, nelle sue “Ricerche filosofiche”, dimostrava che il significato di una parola dipende interamente dal suo uso in un dato contesto. Allo stesso modo, Tansey ci dimostra che il significato di un’immagine è inscindibile dal suo contesto interpretativo. La mucca del suo dipinto diventa così una metafora vivente del nostro stesso sguardo sull’arte, uno sguardo che oscilla perpetuamente tra innocenza e condizionamento culturale. Gli scienziati che la osservano rappresentano questa pretesa assurda di voler quantificare e oggettivare l’esperienza artistica, come se l’arte potesse essere ridotta a una serie di dati misurabili.

Questa dimensione filosofica prende un’ampiezza ancora più vertiginosa in “Triumph of the New York School” (1984), dove Tansey orchestra una scena di resa militare che mette in scena gli artisti europei che si arrendono ai espressionisti astratti americani. Il dipinto, che parodia “La resa di Breda” di Velázquez, mette Clement Greenberg nel ruolo del generale vittorioso, mentre i surrealisti francesi si sottomettono in una coreografia della sconfitta culturale. Quest’opera monumentale non è una semplice satira storica, ma illustra in modo brillante la teoria di Michel Foucault sulle relazioni di potere nella società.

Proprio come Foucault analizzava i meccanismi invisibili del potere istituzionale in “Sorvegliare e punire”, Tansey smaschera gli ingranaggi nascosti del mondo dell’arte, le sue gerarchie arbitrarie e le lotte intestine per la dominazione culturale. Il dipinto diventa così una dimostrazione magistrale del modo in cui il potere culturale si sposta e si trasforma, come si incarna in istituzioni, discorsi e pratiche artistiche che finiscono per imporsi come norme indiscutibili.

La tecnica monocromatica di Tansey non è una semplice scelta estetica, ma costituisce una vera e propria dichiarazione filosofica. Usando un solo colore, che sia il blu profondo di “Derrida Queries de Man” (1990), il rosso sangue di “Forward Retreat” (1986) o il seppia nostalgico di altre opere, ci costringe a concentrarci sulla struttura stessa dell’immagine piuttosto che sulla sua superficie seducente. Questo approccio ricorda la fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty, che insisteva sulla primazia della percezione nel nostro rapporto con il mondo. Come il filosofo francese, Tansey ci mostra che vedere non è un atto passivo ma una costruzione attiva del senso.

In “Action Painting II” (1984), spinge questa riflessione fino all’assurdo rappresentando dei lavavetri su un grattacielo, i loro movimenti imitano ironicamente i gesti dei pittori espressionisti astratti. La battuta è feroce: ecco che il “action painting” di Jackson Pollock è ridotto a un semplice atto di pulizia domestica. Ma al di là della satira, Tansey pone una domanda fondamentale: che cosa differenzia realmente un gesto artistico da un gesto utilitario? La risposta non si trova nel movimento stesso, ma nel contesto che gli conferisce significato.

La sua tecnica di lavoro è altrettanto sovversiva quanto il suo messaggio. Lavorando su una superficie coperta di gesso, dispone di sole sei ore prima che la pittura si asciughi per creare le sue immagini complesse. Questa costrizione temporale diventa una metafora dell’atto creativo stesso, urgente, precario e irreversibile. Ogni quadro è il risultato di una performance tecnica che deve essere precisa come un’operazione chirurgica, meticolosa come una dimostrazione matematica.

La manipolazione del tempo nelle sue opere rivela una profondità filosofica aggiuntiva. In “Achilles and the Tortoise” (1986), mette in scena il celebre paradosso di Zenone in un paesaggio contemporaneo, con scienziati moderni che piantano un albero mentre in lontananza un razzo decolla. Questa collisione temporale illustra brillantemente la teoria di Henri Bergson sulla durata reale e sul tempo vissuto. Proprio come Bergson sosteneva in “L’Évolution créatrice” che la nostra esperienza del tempo è qualitativa piuttosto che quantitativa, Tansey ci mostra che l’arte può esistere simultaneamente in diverse temporalità.

Il suo uso magistrale delle fonti fotografiche merita inoltre di essere menzionato. Tansey accumula migliaia di immagini che combina e trasforma per creare le sue composizioni. Questo processo ricorda il metodo dello storico dell’arte Aby Warburg e il suo Atlas Mnémosyne, un tentativo di mappare le relazioni complesse tra le immagini attraverso la storia. Come Warburg, Tansey comprende che le immagini non sono mai isolate ma fanno parte di una vasta rete di significati che si rispondono e si arricchiscono reciprocamente.

In “Bricolage Bomb” (1981), spinge questa logica ai suoi limiti creando un’immagine che sembra uscita direttamente da un manuale tecnico ma che, a uno sguardo più attento, rivela un assemblaggio impossibile di elementi disparati. Il titolo fa riferimento al concetto di “bricolage” sviluppato dall’antropologo Claude Lévi-Strauss, suggerendo che ogni creazione culturale è necessariamente un assemblaggio di elementi preesistenti ricombinati in modo nuovo.

Le critiche che accusano Tansey di fare arte “intellettuale” mancano completamente il punto. Il suo lavoro non è una semplice illustrazione di idee filosofiche, ma una reinvenzione radicale di ciò che la pittura può essere nell’era della riproduzione meccanica. Come Walter Benjamin aveva previsto nel suo saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, l’arte doveva trovare nuovi modi di esistere di fronte alla sfida della riproduzione meccanica. Tansey ha affrontato questa sfida creando opere che sono allo stesso tempo commenti sulla riproduzione e oggetti unici impossibili da riprodurre fedelmente.

In “The Critical Theory Farm” (1988), rappresenta un gruppo di teorici dell’arte che arano un campo con macchinari agricoli obsoleti, una metafora pungente di come alcune teorie critiche continuino a essere applicate meccanicamente ben oltre la loro attualità. L’ironia è tanto più gustosa quanto il quadro stesso dimostra la vitalità persistente della pittura, quel medium presumibilmente obsoleto.

La dimensione narrativa delle sue opere merita anche la nostra attenzione. Prendiamo “The Bricoleur’s Daughter” (1987), dove una giovane donna assembla quella che sembra una macchina impossibile in un laboratorio ingombro. Il quadro è una meditazione sottile sulla natura della creazione artistica, suggerendo che ogni artista è necessariamente un bricolage che assembla elementi preesistenti per creare qualcosa di nuovo. La precisione tecnica con cui Tansey rappresenta questa scena impossibile crea un paradosso visivo che ci obbliga a mettere in discussione i nostri presupposti sul rapporto tra realtà e rappresentazione.

In “Forward Retreat” (1986), porta questa logica narrativa all’assurdo rappresentando cavalieri militari che galoppano al contrario sui loro cavalli. L’immagine è tecnicamente impeccabile ma concettualmente vertiginosa, creando una tensione tra la virtuosità dell’esecuzione e l’impossibilità della scena rappresentata. È proprio in questa tensione che risiede la forza di Tansey: la sua capacità di usare la padronanza tecnica non come fine a sé stessa, ma come mezzo per creare paradossi visivi che stimolano la nostra riflessione.

La sua serie di dipinti ispirati alle teorie della decostruzione di Jacques Derrida merita un’attenzione particolare. In “Derrida Queries de Man” (1990), rappresenta i due filosofi al bordo di un precipizio fatto di testo stampato, una visualizzazione brillante di come la decostruzione metta in discussione le fondamenta stesse della nostra comprensione del linguaggio e della rappresentazione. Il vertigine fisico suggerito dalla composizione diventa una metafora del vertigine intellettuale provocato dalla messa in discussione delle certezze filosofiche.

L’influenza della fotografia sul suo lavoro è anche cruciale. Utilizzando immagini di partenza che raccoglie meticolosamente, Tansey crea un dialogo complesso tra pittura e fotografia. I suoi dipinti monocromatici evocano deliberatamente le vecchie fotografie, ma la loro impossibilità narrativa li colloca chiaramente nel campo della pittura. Questa tensione tra i mezzi richiama le riflessioni di Roland Barthes in “La chambre claire” sulla natura dell’immagine fotografica e la sua relazione con la realtà.

La dimensione politica del suo lavoro non deve essere neppure trascurata. Nelle sue rappresentazioni delle lotte di potere nel mondo dell’arte, Tansey rivela i meccanismi di dominazione culturale che stanno alla base della storia dell’arte moderna. Il suo trattamento della “vittoria” della scuola di New York sull’arte europea non è solo una satira storica, ma una critica tagliente dell’imperialismo culturale americano.

Se nei suoi dipinti vedete solo immagini monocrome abilmente eseguite, vi state perdendo completamente l’essenziale. Tansey è uno dei pochi artisti contemporanei che riesce a creare un’arte allo stesso tempo intellettualmente stimolante e visivamente accattivante, dimostrando che la pittura può ancora sorprenderci e sfidarci, anche nell’era del digitale e delle realtà virtuali. La sua opera è una lezione magistrale sulla possibilità di fare arte significativa in un mondo che presumibilmente ha visto tutto.

In un panorama artistico contemporaneo troppo spesso dominato dal vuoto spettacolare e dal concettuale ermetico, Tansey ci ricorda che l’arte può essere allo stesso tempo accessibile e profonda, tecnica e concettuale, tradizionale e radicalmente nuova. I suoi dipinti sono enigmi visivi che ci costringono a mettere in discussione non solo ciò che vediamo, ma anche come vediamo. In un mondo saturo di immagini, il suo lavoro ci ricorda che la vera funzione dell’arte non è darci risposte, ma porci le giuste domande.

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Riferimento/i

Mark TANSEY (1949)
Nome: Mark
Cognome: TANSEY
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 76 anni (2025)

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