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Martedì 18 Novembre

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Matt Connors: il genio irritante dell’astrazione

Pubblicato il: 20 Novembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Matt Connors trasforma la pittura astratta in una danza sovversiva dove ogni pennellata è una provocazione deliberata. Le sue tele sembrano dipinte con la spensieratezza di un bambino ma nascondono la precisione di un chirurgo, creando una tensione affascinante tra spontaneità e controllo.

Ascoltatemi bene, banda di snob! Matt Connors, nato nel 1973 a Chicago, non è semplicemente un altro pittore astratto che ricicla i resti del modernismo come un avvoltoio affamato. No, questo tipo è un vero agitatori che trasforma la pittura astratta in una danza sovversiva, dove ogni pennellata è una provocazione deliberata contro le nostre aspettative ben ordinate.

Guardate le sue tele, quelle superfici che sembrano essere state dipinte con la noncuranza di un bambino ma nascondono la precisione di un chirurgo. Non è un caso se le sue opere vi danno l’impressione di essere già state viste da qualche parte. Questa è esattamente la sua intenzione, questo modo di giocare con la nostra memoria collettiva dell’arte astratta come un DJ che mescola campioni, ma attenzione, non è un semplice copia-incolla.

La prima caratteristica del suo lavoro risiede nel suo rapporto unico con la superficie pittorica. Connors non dipinge sulla tela, dipinge nella tela. La sua pittura si infiltra nelle fibre come acqua nella sabbia, creando una profondità paradossale in ciò che dovrebbe essere piatto. Questa tecnica ricorda ciò che Walter Benjamin chiamava l’aura dell’opera d’arte, eccetto che qui Connors ribalta il concetto come un guanto. L’aura non deriva dall’originalità dell’opera ma dalla sua capacità di farci dubitare di ciò che vediamo.

Utilizza principalmente l’acrilico Flashe, una pittura opaca che si impregna nella tela grezza come l’acquerello sulla carta. Questa tecnica crea opere che sembrano galleggiare tra due stati, né completamente superfici, né completamente oggetti. È ciò che Jacques Rancière chiamerebbe una “partizione del sensibile”, una redistribuzione di ciò che è visibile e invisibile, di ciò che è in superficie e ciò che è in profondità.

Le sue tele sono punteggiate da piccoli incidenti deliberati, schizzi, sbavature, tratti che non si incontrano esattamente. Questi “errori” non sono difetti ma punti di ancoraggio per il nostro sguardo, momenti in cui l’illusione della perfezione astratta si incrina per rivelare qualcosa di più interessante: la presenza umana dietro l’apparente macchina.

La seconda caratteristica del suo lavoro è il modo in cui gioca con le referenze storiche dell’arte astratta. Prendete le sue grandi tele come “Stripes in Nature” (2019) o “JaJanus” (2015). A prima vista, si potrebbero vedere omaggi a Kenneth Noland o Ellsworth Kelly. Ma guardate più da vicino: queste forme geometriche che sembrano così precise sono in realtà leggermente storte, come se fossero state disegnate con un mouse difettoso.

Questo approccio riecheggia ciò che Roland Barthes chiamava il “grado zero della scrittura”, solo che qui ci troviamo di fronte al grado zero della pittura astratta. Connors decostruisce i codici dell’astrazione geometrica non per distruggerli, ma per reinventarli. Crea quella che io chiamo un'”astrazione di secondo grado”, una pittura che commenta la propria storia creando allo stesso tempo qualcosa di nuovo.

Il suo lavoro è particolarmente affascinante nel modo in cui incorpora elementi che sembrano usciti direttamente da un software di disegno digitale. Queste linee rette che si interrompono bruscamente, queste forme che si sovrappongono goffamente, tutto ciò evoca i primi passi di un principiante su Photoshop. Ma è proprio qui che risiede il suo genio: trasforma questi “errori” digitali in poesia pittorica.

C’è una tensione palpabile nelle sue opere tra il fatto a mano e l’apparenza meccanica, tra l’analogico e il digitale. Questa dualità ci ricorda le riflessioni di Vilém Flusser sulla tecnica e la cultura, dove l’artista diventa un giocatore che sfida i programmi prestabiliti della macchina. Connors gioca questo gioco con un’ironia mordente, creando opere che sembrano allo stesso tempo programmate e profondamente umane.

Il modo in cui usa il colore è altrettanto sovversivo. Le sue palette possono sembrare arbitrarie a prima vista, gialli urlanti accostati a blu profondi, rosa caramella che si scontrano con verdi acidi. Ma c’è una logica in questa apparente cacofonia cromatica. Ogni colore è scelto non per la sua bellezza intrinseca, ma per la sua capacità di creare una tensione, un disagio visivo che ci costringe a guardare più attentamente.

In “Mural for a Gay Household I & II” (2018-2020), porta questa logica al suo parossismo. Questi immensi dittici verticali, con i loro motivi a scacchiera perfettamente eseguiti, sono brutalmente interrotti da macchie nere centrali. È come se Connors ci dicesse: “Pensavate fosse solo un esercizio di stile modernista? Sorpresa!”

Questo modo di lavorare ricorda ciò che Lucy Lippard descriveva come la “smaterializzazione dell’arte”, tranne che qui Connors opera al contrario. Rimaterializza l’astrazione, le ridà un corpo, una presenza fisica che va oltre la semplice superficie dipinta. Le sue opere non sono finestre su un altro mondo, ma oggetti che esistono risolutamente nel nostro spazio.

L’influenza della poesia sul suo lavoro è evidente, in particolare nel modo in cui struttura le sue composizioni come versi liberi visivi. Non è un caso che abbia chiamato la sua prima mostra con il titolo del primo raccolta di poesie di James Schuyler, “Freely Espousing”. La poesia, come la sua pittura, opera per giustapposizione, per rottura, per sorpresa.

Il suo approccio all’astrazione ricorda anche le teorie di Susan Sontag sullo stile. Proprio come Sontag sosteneva un’esperienza diretta dell’arte piuttosto che una sovrainterpretazione, Connors crea opere che resistono a una lettura univoca. Sono lì, di fronte a noi, provocatorie nella loro apparente semplicità, ma ricche di complessità visive e concettuali.

Nelle sue opere più recenti, come quelle presentate al Goldsmiths CCA nel 2024, Connors porta ancora più avanti questa logica di perturbazione. Mette in dialogo le sue stesse opere con quelle di altri artisti, creando quelli che chiama “finding aids”, strumenti di navigazione nell’oceano delle referenze visive che quotidianamente ci sommergono.

Questo approccio curatoriale rivela un’altra faccia della sua pratica: la sua capacità di pensare l’arte come un sistema relazionale piuttosto che come una serie di oggetti isolati. È ciò che Nicolas Bourriaud chiamerebbe un’estetica relazionale, ma Connors va oltre creando connessioni che superano i limiti tradizionali tra artista, curatore e spettatore.

Il suo lavoro pone questioni fondamentali sulla natura stessa dell’originalità nell’arte. In un mondo saturo di immagini, dove ogni gesto pittorico sembra essere già stato fatto, Connors trova una nuova via abbracciando questa saturazione piuttosto che cercare di trascenderla. Crea quella che io definirei una “pittura post-originale”, una pratica che riconosce il suo patrimonio mentre lo sovverte.

I critici che accusano Connors di semplice riciclaggio estetico mancano il punto essenziale. Il suo lavoro non è una celebrazione nostalgica del modernismo, ma un’interrogazione critica sulla possibilità stessa della pittura astratta nel XXI secolo. Come scriveva Arthur Danto, viviamo in un mondo dell’arte “post-storico”, dove tutti gli stili sono disponibili simultaneamente. Connors naviga in questo mondo con un’intelligenza rara.

C’è qualcosa di profondamente politico nel suo modo di trattare l’eredità modernista. Rifiutando la purezza formale cara ai modernisti, introducendo “errori” e imperfezioni deliberate nelle sue composizioni, in un certo senso democratizza l’astrazione. Le sue opere ci dicono che la geometria non appartiene solo ai maestri del Bauhaus, che il colore non è la proprietà esclusiva degli espressionisti astratti.

Ciò che rende il suo lavoro così rilevante oggi è che crea una pittura che riconosce pienamente il suo posto in un mondo digitale, insistendo però sul suo carattere fondamentalmente analogico. Le sue opere non sono simulazioni digitali tradotte nella pittura, ma oggetti che portano le tracce della loro fabbricazione manuale pur dialogando con la nostra realtà tecnologica.

La cosa forse più affascinante in Connors è la sua capacità di mantenere un equilibrio precario tra serietà e gioco, tra riverenza e irriverenza. Le sue opere possono sembrare spensierate a prima vista, ma nascondono una riflessione profonda sulla natura della pittura e della rappresentazione. Come scriveva John Berger, “vedere viene prima delle parole”, e i dipinti di Connors ci insegnano a vedere in modo diverso.

Allora sì, banda di snob, Matt Connors è forse uno dei pittori più importanti della sua generazione, non perché reinventi la ruota, ma perché ci mostra che la ruota non è mai stata quello che pensavamo fosse. In un mondo dove l’arte sembra spesso bloccata tra cinismo commerciale e presunzione intellettuale, il suo lavoro offre una terza via: quella di una pittura che pensa mentre gioca, che critica mentre crea, che rispetta la sua storia pur sconvolgendola.

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Riferimento/i

Matt CONNORS (1973)
Nome: Matt
Cognome: CONNORS
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 52 anni (2025)

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