Ascoltatemi bene, banda di snob, l’arte contemporanea thailandese possiede in Natee Utarit uno spirito di straordinaria acutezza, capace di smontare le nostre certezze occidentali con la precisione di un chirurgo e l’eleganza di un poeta. Quest’uomo, nato nel 1970 a Bangkok, non si limita a dipingere: disseziona l’eredità pittorica occidentale con un’intelligenza feroce, mettendo in discussione i nostri canoni estetici da più di tre decenni. Le sue tele, di un realismo tecnico stupefacente, nascondono sotto il loro impeccabile strato una critica pungente ai nostri presupposti culturali. Ecco un artista che maneggia il pennello come Voltaire maneggiava la penna: per illuminare tanto quanto per ferire.
L’opera di Utarit si dispiega come un labirinto concettuale in cui ogni serie pittorica rivela una nuova sfaccettatura del suo pensiero. Dalle prime riflessioni sulla natura dell’immagine negli anni Novanta fino alla sua recente serie Déjà vu completata nel 2024, l’artista thailandese non ha mai smesso di interrogare la validità delle tradizioni artistiche occidentali importate nel Sud-Est asiatico. Le sue composizioni, di una complessità narrativa sorprendente, mescolano riferimenti buddhisti e iconografia cristiana, oggetti contemporanei e simboli antichi, creando un linguaggio visivo di una ricchezza inaudita. Questo approccio trova il suo apice nella sua serie monumentale Optimism is Ridiculous: The Altarpieces (2014-2017), dove dodici polittici di ispirazione rinascimentale dispiegano un cosmo pittorico inquietante. Queste opere, proprio per il loro formato, richiamano direttamente la tradizione degli altari europei proponendo al contempo una visione profondamente asiatica del sacro.
L’approccio di Utarit risuona particolarmente con le analisi sociologiche di Zygmunt Bauman sulla modernità liquida [1]. L’identità culturale, secondo Bauman, non è più una realtà fissa ma diventa un processo di costruzione permanente, soggetto ai flussi e riflussi delle influenze esterne. Questa fluidità identitaria trova in Utarit un’espressione pittorica impressionante. I suoi dipinti funzionano come laboratori sociologici dove si sperimenta l’incontro tra Oriente e Occidente. In Nescientia (2014), per esempio, l’artista mette fianco a fianco il Buddha, l’Apollo del Belvedere e un crocifisso ornato, creando una trinità sincretica che sfida le nostre categorie abituali. Questa giustapposizione non è casuale: materializza visivamente i processi di ibridazione culturale analizzati da Bauman. L’identità thailandese contemporanea, secondo questa lettura, non può più essere concepita in opposizione all’influenza occidentale ma deve integrare quest’ultima in un processo dialettico creativo. I personaggi che popolano queste composizioni, spesso thailandesi in abiti d’epoca europea, incarnano questa negoziazione identitaria permanente. Essi navigano in uno spazio pittorico dove i riferimenti si mescolano, si contaminano reciprocamente, creando nuove forme di senso. Questo approccio sociologico all’arte permette a Utarit di superare la semplice denuncia postcoloniale per proporre una visione più sfumata degli scambi culturali. Le sue opere suggeriscono che il dominio culturale occidentale, pur reale, non impedisce l’emergere di forme artistiche ibride capaci di sovvertire i loro modelli. L’artista thailandese sviluppa così un’estetica della resistenza creativa, dove l’appropriazione diventa un atto di emancipazione. I suoi dipinti dimostrano che la modernità liquida, lungi dal dissolvere le specificità culturali, può diventare il terreno di nuove espressioni artistiche. Questa prospettiva sociologica illumina particolarmente la sua serie recente Déjà vu (2019-2024), dove l’ipotesi di un viaggio del Buddha nell’Occidente antico ribalta i rapporti di forza storici. Immaginando una anteriorità orientale alle forme artistiche occidentali, Utarit propone un’archeologia alternativa delle nostre referenze estetiche. Questa pratica rivela quanto le nostre certezze sull’origine delle forme artistiche rimangano fragili e costruite. L’analisi baumaniana permette così di comprendere come Utarit utilizzi la pittura per mappare le trasformazioni identitarie della società thailandese contemporanea.
L’opera di Utarit intrattiene anche un dialogo proficuo con la tradizione letteraria del realismo magico, particolarmente nella sua dimensione sovversiva e nella sua capacità di rivelare la strana familiarità del quotidiano. Come gli scrittori come Gabriel García Márquez o Isabel Allende, l’artista thailandese eccelle nell’arte di far emergere il meraviglioso dal banale e l’insolito dal familiare. Le sue composizioni funzionano secondo questa stessa logica narrativa in cui la realtà è costantemente messa in discussione dall’intrusione di elementi incongrui. Nella sua serie Tales of Yesterday, Today and Tomorrow (2009), i giocattoli dei bambini convivono con i grandi maestri della pittura europea, creando un universo in cui le gerarchie temporali e culturali crollano. Questa estetica del meraviglioso quotidiano trova la sua fonte in una comprensione profonda dei meccanismi letterari del realismo magico. L’artista procede mediante accumulo di dettagli iperrealisti che, per la loro giustapposizione inaspettata, generano un sentimento di straniamento. I suoi nature morte, di una resa tecnica impeccabile, integrano elementi anacronistici o fuori posto che disturbano la logica narrativa tradizionale. Questo approccio gli permette di mettere in discussione le nostre certezze percettive con la stessa efficacia con cui i romanzieri del boom latino-americano mettevano in discussione le certezze politiche e sociali. L’influenza del realismo magico si manifesta anche nel suo modo di trattare la storia. Come Márquez in Cento anni di solitudine, Utarit concepisce il tempo storico come un eterno ritorno dove passato e presente si interpenetrono. Le sue tele propongono una temporalità ciclica dove le referenze artistiche del passato europeo riemergono nel contesto thailandese contemporaneo, creando echi inquietanti. Questa concezione letteraria del tempo storico gli permette di superare la semplice critica post-coloniale per proporre una visione più complessa degli scambi culturali. Le sue opere suggeriscono che la storia artistica non segue una progressione lineare ma procede per ritorni, reinvenzioni e metamorfosi. La serie Optimism is Ridiculous illustra perfettamente questo approccio temporale non-lineare. I polittici di Utarit funzionano come macchine del tempo, dove i codici iconografici del Rinascimento si mescolano con le preoccupazioni contemporanee thailandesi. Questa fusione temporale, caratteristica del realismo magico, permette all’artista di rivelare le permanenze che attraversano la storia umana al di là delle specificità culturali. L’influenza letteraria traspare anche nella sua concezione narrativa della pittura. Ogni tela racconta una storia, ma una storia frammentata, aperta, che richiede allo spettatore un lavoro di interpretazione attivo. Questa dimensione narrativa avvicina il suo lavoro al racconto contemporaneo, dove l’ellissi e l’allusione sostituiscono la descrizione esaustiva. Le sue composizioni pittoriche funzionano quindi come testi visivi il cui senso emerge dal confronto tra diversi sistemi di riferimento. L’artista sviluppa una vera e propria poetica dell’ibridazione culturale, dove la bellezza nasce dalla collisione creativa tra universi estetici apparentemente incompatibili.
Il genio di Utarit risiede nella sua capacità di utilizzare la tecnica pittorica occidentale più classica per sovvertirne i fondamenti ideologici. Formatosi nella tradizione accademica europea presso l’università Silpakorn di Bangkok, fondata da uno scultore italiano, domina perfettamente i codici del realismo occidentale. Questa padronanza tecnica non costituisce in lui una sudditanza, ma diventa lo strumento della sua liberazione creativa. Le sue tele testimoniano una virtuosità sorprendente nel trattamento della luce, della prospettiva e del modellato, competendo con i più grandi maestri europei. Tuttavia, questa perfezione tecnica serve un progetto artistico radicalmente sovversivo. L’artista utilizza l’eccellenza del suo pennello per distorcere meglio i codici che conosce così bene.
Questa strategia di distorsione raggiunge il suo apice nella sua recente serie Déjà vu (2019-2024), dove l’ipotesi fantasiosa di un viaggio del Buddha nell’Occidente antico ribalta completamente i nostri presupposti sull’origine delle forme artistiche. Immaginando un’influenza buddhista sull’arte greco-romana, Utarit propone un’archeologia alternativa delle nostre referenze estetiche. Questo approccio rivela quanto le nostre certezze sulla priorità occidentale rimangano fragili e costruite. La mostra Déjà vu: Buddha is Hiding presentata simultaneamente a Singapore nel 2024 negli spazi di STPI e del Private Museum [2] costituisce l’approdo di questa riflessione di sei anni.
L’artista eccelle anche nell’arte del pastiche intelligente. I suoi riferimenti ai maestri europei, Van Eyck, Holbein, Velázquez e Caravaggio, non sono mai una semplice citazione decorativa ma si inseriscono in un approccio critico coerente. Nella sua serie Pictorial Statement (2000), sovrappone paesaggi fotografici thailandesi a riproduzioni esatte di capolavori occidentali, creando un dialogo visivo sorprendente tra due sistemi di rappresentazione. Questa tecnica della sovrapposizione rivela i presupposti ideologici nascosti dietro l’apparente neutralità dell’immagine.
Il suo metodo di lavoro, meticulosamente documentato, rivela un processo creativo di rigore esemplare. Utarit inizia dipingendo in grisaille, tecnica ereditata dai maestri antichi, prima di aggiungere il colore con velature successive. Questo approccio tradizionale al mestiere pittorico gli permette di raggiungere una precisione tecnica notevole, dove ogni dettaglio concorre all’effetto complessivo. Tuttavia, questa perfezione formale nasconde spesso messaggi politici e sociali di grande acutezza. Le sue tele recenti integrano elementi contemporanei, graffiti, oggetti industriali, riferimenti all’arte concettuale, che disturbano la serenità apparente delle sue composizioni.
L’utilizzo di modelli reali, spesso persone vicine o incontri fortuiti come il mago bangladese Samlee, radica il suo lavoro nella realtà sociale thailandese contemporanea. Questo metodo gli permette di evitare la trappola dell’arte decorativa per mantenere un legame vivo con il suo tempo. I suoi ritratti, di un realismo impressionante, rivelano la complessità identitaria della società thailandese moderna, presa tra tradizioni locali e influenze globalizzate.
L’impatto internazionale della sua opera testimonia la sua capacità di superare i particolarismi culturali per raggiungere una dimensione universale. Le sue esposizioni in Europa, America e in tutta l’Asia incontrano un successo critico costante, dimostrando che il suo discorso artistico risuona oltre i confini geografici e culturali. La recente partecipazione di Utarit alla mostra collaterale della Biennale di Venezia 2024 The Spirits of Maritime Crossing [3] conferma il suo crescente riconoscimento internazionale.
Eppure, nonostante questo riconoscimento mondiale, Utarit rimane profondamente radicato nel suo contesto thailandese. La sua pratica quotidiana, scandita da una rigorosa disciplina, con ingresso in studio alle 6:30 e uscita alle 19, testimonia un’etica del lavoro influenzata dalla filosofia buddhista. Questa disciplina non è una costrizione ma un appagamento, come illustra la sua passione per l’arte del bonsai che alimenta la sua riflessione artistica. L’attenzione ai dettagli, la pazienza necessaria alla crescita, l’accettazione dei cicli naturali: sono tutte lezioni che l’artista trasmette nella sua pratica pittorica.
L’opera di Utarit interroga anche il nostro rapporto con la temporalità artistica. Le sue serie si sviluppano nel corso di diversi anni, Optimism is Ridiculous in tre anni e Déjà vu in sei anni, rivelando una concezione del tempo creativo che si oppone all’immediatezza contemporanea. Questa lunga temporalità gli permette di approfondire le sue intuizioni iniziali fino a esaurirne il potenziale espressivo. Ogni serie funziona come un ciclo completo di ricerche plastiche e concettuali, dove ogni opera arricchisce e complica la riflessione complessiva.
Il suo approccio al sacro è particolarmente interessante. In una società thailandese prevalentemente buddhista, Utarit non si limita a contrapporre Oriente e Occidente ma esplora le convergenze spirituali tra tradizioni religiose. Le sue composizioni rivelano corrispondenze sorprendenti tra icone buddhiste e cristiane, suggerendo radici comuni al di là delle differenze dottrinali. Questo approccio sincretico del religioso gli permette di superare i conflitti confessionali per esplorare l’universalità dell’esperienza spirituale umana.
L’artista sviluppa così un’estetica del riconoscimento reciproco, dove tradizioni culturali diverse possono incontrarsi senza negarsi. Le sue tele propongono un modello di scambio culturale basato sul rispetto e sulla curiosità reciproca piuttosto che sulla dominazione. Questa visione ottimista, nonostante il titolo pessimista della sua serie più famosa, traspare nella stessa bellezza delle sue composizioni. Perché Utarit resta prima di tutto un pittore della bellezza, capace di rivelare la grazia nascosta nelle situazioni più complesse.
La sua tecnica pittorica raggiunge una maturità notevole nelle sue opere recenti. La serie Historia (2023) è testimonianza di una padronanza completa dei mezzi espressivi, dove ogni effetto plastico serve al discorso concettuale. I suoi impasti sottili, i suoi velature trasparenti, i suoi modellati di precisione chirurgica: tutto concorre a creare immagini di un’intensità impressionante. Questa virtuosità tecnica non è mai fine a se stessa ma sempre al servizio di una visione artistica coerente.
L’influenza di Utarit sulla scena artistica contemporanea thailandese rimane considerevole. Le sue innovazioni plastiche e concettuali ispirano una nuova generazione di artisti asiatici desiderosi di conciliare l’eredità locale con il linguaggio internazionale. Il suo esempio dimostra che è possibile sviluppare una pratica artistica autenticamente contemporanea senza rinunciare alle proprie radici culturali.
Le sue collaborazioni più recenti con lo studio STPI di Singapore aprono nuove prospettive al suo lavoro. L’esplorazione delle tecniche di stampa e di fabbricazione della carta gli permette di arricchire il suo vocabolario plastico approfondendo allo stesso tempo la sua riflessione sugli scambi culturali. Queste sperimentazioni tecniche testimoniano una curiosità artistica intatta dopo oltre trent’anni di carriera.
L’opera di Utarit ci ricorda che l’arte contemporanea non può essere compresa senza tenere conto delle dinamiche postcoloniali che attraversano la nostra epoca. Le sue tele rivelano quanto le gerarchie culturali ereditate dal passato coloniale continuino a influenzare le nostre percezioni estetiche. Tuttavia, lungi dal limitarsi a denunciare questi squilibri, l’artista propone vie di riconciliazione creativa tra le culture.
Il suo percorso esemplifica la possibilità di una globalizzazione culturale rispettosa delle diversità locali. Formato secondo i canoni occidentali, nutrito di riferimenti universali, Utarit rimane nondimeno profondamente thailandese nella sua sensibilità e nelle sue preoccupazioni. Questa sintesi riuscita tra locale e globale costituisce forse il suo contributo più prezioso all’arte contemporanea.
Natee Utarit incarna così una figura di artista-pensatore capace di trasformare le eredità del passato in visioni per il futuro. Le sue tele, di una bellezza indiscutibile, portano in sé i germogli di una comprensione rinnovata delle relazioni interculturali. In un mondo attraversato da tensioni identitarie, la sua opera propone un modello di dialogo rispettoso tra le civiltà. Ecco ciò che fa la grandezza di quest’artista: la sua capacità di trasformare la critica in celebrazione, la denuncia in riconciliazione, il conflitto in armonia creativa.
- Bauman, Zygmunt. Liquid Modernity. Cambridge: Polity Press, 2000.
- “Natee Utarit: Déjà vu: Buddha is Hiding.” STPI Creative Workshop & Gallery, Singapore, 28 settembre – 1º dicembre 2024.
- “The Spirits of Maritime Crossing.” Mostra collaterale della 60ª Biennale di Venezia, Palazzo Smith Mangilli Valmarana, 20 aprile – 24 novembre 2024.
- Utarit, Natee. Intervista con l’autore. Art Plugged, 2024.
















