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Noah Davis: Il pittore delle verità invisibili

Pubblicato il: 26 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Le opere di Noah Davis trasformano la quotidianità afro-americana in momenti di eternità. La sua tecnica unica, che mescola realismo e onirismo, crea scene dove l’ordinario diventa straordinario, supportate da una tavolozza crepuscolare che dona alle sue figure una presenza spettrale impressionante.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è giunto il momento di parlare di un artista che ha scosso le nostre certezze come un cocktail Molotov lanciato in un vernissage mondano. Noah Davis (1983-2015) non era del tipo da giocare secondo le regole dell’establishment artistico. A soli 32 anni, questo meteoro della pittura contemporanea ci ha lasciati, ma non prima di aver ridefinito la nostra visione dell’arte afroamericana con un’audacia che farebbe impallidire lo stesso Basquiat. Il suo percorso fulminante, dalle strade di Seattle alle gallerie più prestigiose, testimonia un talento grezzo che ha impiegato solo otto anni per lasciare un’impronta indelebile nella storia dell’arte.

Nelle sue tele, Davis gioca con il reale e l’onirico come un prestigiatore sotto acidi, creando un universo pittorico in cui la banalità del quotidiano si trasforma in momenti di eternità. La sua tecnica è affilata come un bisturi filosofico: figure che emergono da fondi nebbiosi come spettri della nostra coscienza collettiva, i cui volti spesso sfocati o parzialmente cancellati ci interpella nella loro vulnerabilità esistenziale. La sua tavolozza, dominata da violetto crepuscolare e blu notturni, crea un’atmosfera che oscilla tra il tangibile e il sogno, come se fossimo intrappolati in quell’interregno che Walter Benjamin chiamava “tempo-ora”. Questa padronanza tecnica non è un semplice esercizio di stile, ma serve uno scopo più profondo che attraversa tutta la sua opera: la rappresentazione della vita afroamericana nella sua complessità quotidiana, lontana dai cliché e dagli stereotipi mediatici.

Prendete “Pueblo del Rio: Concerto” (2014), in cui un pianista solitario suona un concerto surreale davanti a case popolari. Questa scena, immersa in una luce crepuscolare violacea tipica di Los Angeles, ricorda stranamente la caverna di Platone. Ma invece di mostrarci ombre proiettate su un muro, Davis ci costringe a confrontare la nostra percezione stessa della realtà sociale. Il pianista, figura solitaria in un paesaggio urbano deserto, diventa il filosofo-re di Platone, colui che ha visto la verità e tenta di condividerla con chi è ancora incatenato nella propria caverna mentale. L’architettura modernista delle case popolari, progettata da Paul Williams, primo architetto afroamericano membro dell’American Institute of Architects, fa da sfondo a questa meditazione sull’arte, cultura e società. Davis non si limita a rappresentare la realtà, la trascende, creando uno spazio in cui la musica classica e l’architettura modernista coesistono naturalmente con l’esperienza afroamericana.

Questo approccio filosofico si ritrova anche in “40 Acres and a Unicorn” (2007), dove Davis frantuma le nostre aspettative con la delicatezza di un elefante in un negozio di porcellane. Il titolo fa riferimento alla promessa mai mantenuta del governo americano di offrire “40 acri e un mulo” agli schiavi liberati. Sostituendo il mulo con un unicorno, Davis non si limita a creare una metafora visiva di questa promessa infranta, ma ci immerge in una riflessione profonda sul concetto hegeliano di riconoscimento. Come Hegel spiegava nella sua “Fenomenologia dello Spirito”, la coscienza di sé può emergere solo attraverso il riconoscimento reciproco. Il cavaliere nero, montato sulla sua cavalcatura mitica, si staglia su uno sfondo di un’oscurità abissale, creando un’immagine che oscilla tra favola e commento sociale pungente. L’unicorno, simbolo occidentale per eccellenza, è qui riappropriato e trasformato in veicolo di una critica sociale devastante.

La serie “1975” (2013) illustra perfettamente questa capacità di Davis di trasformare il quotidiano in oro pittorico. Basata su fotografie scattate da sua madre quando era al liceo, questa serie di nove dipinti cattura la vita urbana in un quartiere nero con tenerezza e acume notevoli. Le scene banali, bambini che giocano, adulti che conversano, momenti di svago a bordo piscina, sono rese con una palette sbiadita che conferisce loro una qualità atemporale. Davis sovrappone strati di pittura come tante stratificazioni di memoria collettiva. Le figure sembrano fluttuare tra passato e presente, creando ciò che il filosofo Jacques Derrida chiamava “différance”, quel gioco costante tra presenza e assenza che caratterizza ogni rappresentazione.

In “The Last Barbeque” (2008), Davis trasforma un banale barbecue familiare in una meditazione profonda sulla comunità e sulla memoria collettiva. Tre figure stanno vicino a una griglia, mentre un trio spettrale emerge da un cespuglio, creando una tensione palpabile tra il mondo dei vivi e quello degli antenati. Quest’opera riecheggia la concezione del tempo ciclico nel pensiero tradizionale africano, dove i morti continuano a interagire con i vivi. Ma Davis non si limita a riprodurre queste tradizioni, le reinventa in un contesto contemporaneo, creando una nuova mitologia urbana che attinge tanto alla storia dell’arte occidentale quanto all’esperienza afroamericana.

Questo dialogo costante tra tradizione e modernità, tra personale e politico, trova la sua espressione più intensa in “Painting for My Dad” (2011), realizzato poco prima della morte del padre. Una figura solitaria contempla un orizzonte stellato, tenendo una lanterna che ricorda quella di Diogene in cerca di un uomo onesto. Ma a differenza del cinico greco, il personaggio di Davis non cerca l’onestà nel mondo esterno, la trova nell’introspezione e nella connessione con le proprie radici. L’oscurità che avvolge la figura non è minacciosa ma protettiva, come un bozzolo di malinconia che preserva la memoria degli esseri amati.

La tecnica pittorica di Davis evolve nel corso della sua carriera, ma alcune costanti rimangono. Il suo uso magistrale di wash e drips crea superfici pittoriche complesse che sembrano respirare, vibrare davanti ai nostri occhi. Le figure emergono da questi fondi come apparizioni, talvolta soltanto abbozzate, altre volte rese con una precisione fotografica. Questa tensione tra astrazione e figurazione ricorda il lavoro di Marlene Dumas o Luc Tuymans, ma Davis aggiunge una dimensione in più radicandola nell’esperienza afroamericana. La sua pittura diventa così un atto di resistenza culturale, un modo per reclamare il proprio posto nella storia dell’arte occidentale creando qualcosa di radicalmente nuovo.

La creazione di The Underground Museum nel 2012, insieme a sua moglie Karon Davis, rappresenta l’estensione logica di questa visione artistica. Trasformando una serie di vetrine abbandonate di Arlington Heights in uno spazio culturale vibrante, Davis ha creato quello che il filosofo Henri Lefebvre chiamava uno “spazio differenziale”, un luogo che sfugge alla logica mercantile dominante per creare nuove forme di socialità. Il museo, situato in un quartiere prevalentemente afro-americano e latino, non è solo un semplice luogo espositivo: è un vero e proprio laboratorio sociale dove l’arte diventa il catalizzatore di una trasformazione comunitaria. Le esposizioni mescolano opere di artisti riconosciuti ed emergenti, creando dialoghi inaspettati che mettono in discussione le gerarchie tradizionali del mondo dell’arte.

L’ultima fase della sua opera, mentre lottava contro il cancro che alla fine lo avrebbe portato via, rivela un’intensità ancora maggiore. In opere come “Untitled” (2015), dove due donne riposano su un divano mentre una forma bianca enigmatica volteggia sopra di loro, si percepisce una nuova urgenza. I colori diventano più smorzati, le figure più spettrali, come se Davis cercasse di catturare l’essenza stessa dell’esistenza prima che gli sfuggisse. Queste opere tardive evocano la concezione heideggeriana dell’essere-per-la-morte, dove la coscienza della nostra finitezza diventa il catalizzatore di un’esistenza autentica. La forma bianca che domina la composizione potrebbe essere interpretata come una manifestazione di questa coscienza acuta della mortalità, ma anche come un simbolo di speranza e trascendenza.

Questa tensione tra il terrestre e lo spirituale attraversa tutta l’opera di Davis. In “Man with Alien and Shotgun” (2008), una scena apparentemente banale di caccia si trasforma in un incontro del terzo tipo, creando un commento sottile sull’alterità e l’esclusione. Il cacciatore e la sua preda extraterrestre diventano una metafora della relazione complessa tra dominanti e dominati, tra “noi” e “loro”. Ma Davis rifiuta letture semplicistiche: l’alieno, con la sua forma strana e il suo colore grigio, potrebbe altrettanto bene essere una proiezione delle paure e dei desideri del cacciatore quanto una vera creatura extraterrestre.

La tavolozza di Davis, spesso definita “crepuscolare”, crea atmosfere uniche che trasformano le scene più banali in momenti di sublime stranezza. I viola profondi, i blu notturni e i grigi perlacei che dominano le sue composizioni non sono semplici scelte estetiche: creano uno spazio pittorico in cui il reale e l’immaginario si confondono. Questo uso del colore ricorda le teorie di Wassily Kandinsky sulle corrispondenze tra colori ed emozioni, ma Davis le reinterpreta in un contesto contemporaneo, creando ciò che il filosofo Gilles Deleuze chiamerebbe “blocchi di sensazione”.

L’influenza di Davis sulla nuova generazione di artisti è già percepibile. La sua capacità di navigare tra diversi registri, dal realismo sociale alla fantasia surreale, mantenendo però una coerenza stilistica notevole, ha aperto nuove possibilità per la pittura contemporanea. Il suo lavoro dimostra che è possibile creare un’arte profondamente radicata in un’esperienza specifica raggiungendo al contempo una portata universale. La questione della rappresentazione dei corpi neri nell’arte, centrale nella sua opera, continua a ispirare molti artisti contemporanei che cercano di decostruire gli stereotipi razziali celebrando al tempo stesso la bellezza e la complessità dell’esperienza afro-americana.

Davis utilizza la pittura come Nietzsche usava il martello, per sondare le idoli vuote del nostro tempo. I suoi quadri non sono semplici rappresentazioni, ma atti di resistenza culturale che mettono in discussione i nostri presupposti sull’arte, la razza e l’identità. In un mondo dell’arte ossessionato dalle tendenze e dai valori mercantili, Davis ci ricorda che il vero valore dell’arte risiede nella sua capacità di trasformare la nostra visione del mondo e di creare spazi di libertà e resistenza. La sua opera resta una testimonianza potente della possibilità di creare un’arte che sia allo stesso tempo profondamente personale e universalmente rilevante, tecnicamente sofisticata e socialmente impegnata.

L’eredità di Davis è duplice: da una parte, un corpus di opere che continuano a interrogarci per la loro bellezza e profondità concettuale, dall’altra, un modello di impegno artistico che mostra come l’arte possa essere un vettore di trasformazione sociale. The Underground Museum, sebbene abbia chiuso le sue porte nel 2022, ha ispirato molte iniziative simili in tutto il paese, dimostrando che la visione di Davis di un’arte accessibile a tutti non era utopica. Come diceva lui stesso, il suo scopo era “mostrare i neri in situazioni normali, dove la droga e le armi non hanno nulla a che fare”. Questa semplice dichiarazione nasconde un’ambizione rivoluzionaria: normalizzare la rappresentazione della vita afro-americana in tutta la sua ricchezza e complessità.

Davis trasforma questa missione apparentemente semplice in una profonda esplorazione della condizione umana. Ogni quadro è una finestra aperta su un mondo allo stesso tempo familiare e strano, dove il quotidiano si mescola al mitologico, dove il personale diventa politico senza mai cadere nel didatticismo. La sua opera ci ricorda che la vera arte non consiste nel riprodurre il visibile, ma nel rendere visibile l’invisibile, come diceva Paul Klee. E in questo processo, Davis ha creato una nuova forma di bellezza che continua a perseguitarci e a ispirarci, ricordandoci che l’arte più potente è quella che ci costringe a vedere il mondo, e noi stessi, con occhi nuovi.

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Riferimento/i

Noah DAVIS (1983-2015)
Nome: Noah
Cognome: DAVIS
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 32 anni (2015)

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