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Pablo Atchugarry : L’anima verticale del marmo

Pubblicato il: 23 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Le sculture di Pablo Atchugarry ci offrono un’esperienza totale in cui il nostro corpo entra in risonanza con queste forme slanciate. Le sue colonne di marmo sfidano la gravità, trasformando la materia grezza in elevazione spirituale, creando un dialogo senza tempo tra tradizione scultorea e visione contemporanea.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Pablo Atchugarry non è uno scultore ordinario. Questo intagliatore di marmo uruguaiano ha fatto ciò che migliaia di artisti contemporanei neppure osano immaginare: ha guardato dritto negli occhi la storia monumentale della scultura occidentale, senza battere ciglio, e ha deciso di inserirsi in questa tradizione con un’audacia tranquilla che molti scambierebbero per follia.

Con le sue forme slanciate che sembrano allungarsi all’infinito verso il cielo, Atchugarry ci offre un’arte che trascende l’opposizione facile tra tradizione e modernità. Le sue sculture non sono semplici reinterpretazioni del passato, né tentativi disperati di innovare a tutti i costi. No, esse esistono in uno spazio-tempo proprio, come se fossero sempre già lì, aspettando pazientemente di essere liberate dalla loro prigione di marmo.

Nato nel 1954 a Montevideo, Atchugarry ha scoperto la sua vocazione di scultore dopo essersi inizialmente interessato alla pittura. Ma è nel 1979, durante una visita a Carrara in Italia, che ha sentito l’irresistibile richiamo del marmo. La sua prima scultura in marmo di Carrara, intitolata “La Luce”, segna l’inizio di una relazione appassionata con questo materiale che diventerà la sua firma. Come ha confidato egli stesso: “Ho sentito che il marmo poteva essere un buon vettore di luce” [1]. Questa rivelazione ha trasformato la sua pratica artistica, portandolo a stabilirsi definitivamente in Italia nel 1982.

Ciò che mi colpisce nel lavoro di Atchugarry è quel modo che ha di far danzare il marmo, di renderlo quasi liquido. Le sue colonne sinuose, piene di pieghe e aperture, sfidano le leggi della fisica. Come diavolo fa a dare questa impressione di leggerezza a un materiale che pesa tonnellate? È come se la pietra respirasse. E non venitemi a dire che è solo “bello” o “elegante”, questi aggettivi sono troppo deboli. È una vera alchimia visiva.

Ma non fatevi ingannare: dietro questa apparente fluidità si nasconde un lavoro titanico, una lotta accanita con la materia. Ogni piega, ogni curva è il risultato di un dialogo paziente tra l’artista e il blocco di pietra. Come diceva Bachelard: “La materia è lo specchio energetico della nostra energia” [2]. È proprio questa energia che irraggia le sculture di Atchugarry. Si percepisce quasi fisicamente lo sforzo, la resistenza, poi l’abbandono progressivo della pietra di fronte alla volontà dello scultore.

La filosofia fenomenologica ci offre una chiave di lettura particolarmente pertinente per capire l’opera di Atchugarry. Edmund Husserl considerava che la nostra esperienza del mondo è fondamentalmente legata alla nostra percezione corporea dello spazio. Le sue sculture invitano proprio a un’esperienza totale, dove il corpo dello spettatore entra in risonanza con le forme che contempla. Non esiste un punto di vista ideale per osservare un’opera di Atchugarry, bisogna girarci intorno, spostarsi, avvicinarsi, allontanarsi. È una coreografia silenziosa che ci impone l’artista.

Husserl scriveva che “percepire è dare senso” [3]. Di fronte alle opere monumentali di Atchugarry, siamo invitati a costruire attivamente la nostra percezione, a creare senso partendo da queste forme astratte che evocano però tante cose: figure umane, piante che cercano la luce, onde congelate nel loro movimento. Questa ambiguità interpretativa non è un difetto, ma la forza del suo lavoro. L’astrazione in Atchugarry non è freddezza concettuale, ma apertura poetica.

Ho sempre pensato che la fenomenologia husserliana fosse come una scultura invisibile che tenta di cogliere i contorni della nostra esperienza vissuta. Husserl cercava di “mettere tra parentesi” i nostri pregiudizi per tornare “alle cose stesse”. Non è esattamente quello che fa Atchugarry quando estrae le sue forme dal blocco di marmo grezzo? Mette tra parentesi l’incidente, il superfluo, per rivelare un’essenza formale che sembra essere sempre stata lì, nascosta nella pietra.

L’ossessiva verticalità delle sculture di Atchugarry può essere compresa anche attraverso il prisma husserliano. Questa orientazione non è arbitraria: corrisponde alla nostra esperienza corporea dello spazio, dove la distinzione alto/basso struttura fondamentalmente la nostra percezione. Come notava Husserl, il nostro corpo proprio è “punto-zero” di ogni orientamento spaziale. Le sculture di Atchugarry, nel loro slancio verticale, ci riportano alla nostra stessa stazione eretta, a quella lotta quotidiana contro la gravità che definisce l’esperienza umana.

Questa verticalità è anche carica di una dimensione simbolica evidente. Lo stesso Atchugarry lo ammette: “Nel mio lavoro c’è sempre una forte verticalità, come la montagna ha una verticalità” [4]. Le sue sculture sono “i figli della montagna”, come ama dire. Questa metafora non è banale. Suggerisce una filiazione, una trasmissione generazionale tra la materia grezza e l’opera compiuta. L’artista non crea ex nihilo, rivela, partorisce, permette alla pietra di diventare ciò che era destinata a essere.

L’architettura è un altro prisma interessante per comprendere l’opera di Atchugarry. Le sue sculture monumentali dialogano naturalmente con lo spazio architettonico, come ha magnificamente dimostrato la sua esposizione ai Mercati di Traiano a Roma nel 2015. Intitolata “Città Eterna, Marmi Eterni”, questa mostra creava un ponte temporale straordinario tra le colonne antiche e le sculture contemporanee. Un critico ha notato che le sue opere sembravano “quasi nate per stare lì” [5]. Questa capacità di integrarsi armoniosamente in contesti architettonici millenari non è data a tutti gli artisti contemporanei.

L’architettura gotica, con il suo slancio verticale e la ricerca della leggerezza, offre un parallelo interessante con il lavoro di Atchugarry. Le cattedrali gotiche cercavano di trascendere la pesantezza della pietra per creare un’impressione di elevazione spirituale. Non è forse esattamente ciò che fa Atchugarry con le sue colonne di marmo? Nel suo lavoro c’è quella stessa tensione tra la materialità grezza e l’aspirazione alla trascendenza.

Victor Hugo, in “Notre-Dame de Paris”, scriveva che “l’architettura è il grande libro dell’umanità” [6]. Seguendo questa metafora, le sculture di Atchugarry sarebbero come segni di punteggiatura in questo grande libro, momenti di sospensione, di interrogazione, che scandiscono la nostra lettura dello spazio. Non sono intruse nell’ambiente architettonico, ma presenze che intensificano la nostra percezione dei luoghi.

L’architettura contemporanea ha molto da imparare da Atchugarry. In un’epoca in cui molti edifici sembrano progettati solo per impressionare con la loro audacia formale, le sue sculture ci ricordano che la vera innovazione non consiste nel fare tabula rasa del passato, ma nell’entrare in dialogo con esso. Come ha dimostrato la sua mostra ai Forum Imperiali, è possibile essere risolutamente contemporanei pur inserendosi in una continuità storica.

I grandi architetti hanno sempre capito questo. Le Corbusier, nonostante la sua retorica rivoluzionaria, non ha mai smesso di studiare l’architettura classica. Mies van der Rohe traeva ispirazione dai templi greci. Zaha Hadid, sotto le sue forme futuristiche, nascondeva una profonda conoscenza della storia architettonica. Atchugarry appartiene a quella schiera di creatori che sanno che la vera innovazione non è amnesica.

La sua pratica scultorea risuona anche con i principi fondamentali dell’architettura. Il gioco tra pieno e vuoto, l’equilibrio delle masse, la modulazione della luce, tanti elementi che si ritrovano nelle sue opere. Come un architetto, Atchugarry pensa lo spazio non come un volume da riempire, ma come un’entità dinamica da attivare.

L’installazione del Museo d’Arte Contemporanea Atchugarry (MACA) a Punta del Este in Uruguay illustra perfettamente questa sensibilità architettonica. Progettato dall’architetto Carlos Ott, questo museo di 7.000 metri quadrati si integra armoniosamente in un paesaggio naturale che accoglie anche un parco di sculture. Atchugarry ha dichiarato: “La natura è molto presente in questo spazio” [7]. Questa attenzione al dialogo tra arte, architettura e natura definisce la sua visione.

Più di un semplice luogo espositivo, il MACA rappresenta l’ambizione di Atchugarry di creare un ponte tra l’arte uruguaiana e la scena contemporanea internazionale. È un gesto architettonico che trascende la semplice funzione museale per diventare un vero manifesto culturale. “Il museo farà parte dell’eredità che lascio a Punta del Este, all’Uruguay e all’umanità”, ha affermato [7].

Questa coscienza acuta della trasmissione, dell’eredità, attraversa tutta l’opera di Atchugarry. Quando parla delle sue sculture come “figli della montagna che poi viaggiano per il mondo” [4], evoca una filiazione che va oltre la sua persona. Queste creazioni hanno una vita autonoma che continuerà ben oltre lui. C’è qualcosa di profondamente umile in questa concezione.

Al contrario di tanti artisti contemporanei ossessionati dall’affermazione del loro ego creatore, Atchugarry si vede come un mediatore, un ponte tra la materia grezza e la forma compiuta. Segue in questo una concezione quasi michelangiolesca della scultura come rivelazione piuttosto che come invenzione. “La scultura è già nella pietra, io tolgo solo ciò che è in eccesso”, diceva Michelangelo. Atchugarry si inserisce in questa linea.

Questo rapporto particolare con la materia e il tempo avvicina Atchugarry a una certa forma di spiritualità laica. Quando afferma che il suono del marmo è “il suono dell’eternità” [8], esprime un’intuizione profonda: la pietra, nella sua durata millenaria, trascende la nostra temporalità umana. Lavorare il marmo significa entrare in dialogo con un materiale che esiste sin dall’alba dei tempi geologici.

In un mondo ossessionato dall’effimero, dalla novità a qualsiasi costo, Atchugarry ci offre una lezione di pazienza e umiltà. Le sue sculture non urlano per attirare l’attenzione, si impongono con la loro presenza silenziosa, con la capacità di trasformare lo spazio intorno a loro. Ci ricordano che la vera arte non sta nella rottura ostentata, ma nella continuità reinventata.

Allora, sì, banda di snob, Atchugarry è uno scultore contemporaneo che lavora il marmo come si faceva cinquecento anni fa. E allora? È davvero un problema? O è piuttosto una prova di coraggio, un modo per resistere alla tirannia della moda e del “sempre nuovo”? In un mondo dell’arte contemporanea spesso cinico e autoreferenziale, la sua sincerità disarmante è come una boccata d’aria fresca.

Non è un caso se le sue opere trovano naturalmente il loro posto in spazi tanto diversi quanto il Village Royal a Parigi, il Palazzo Reale a Milano, i Fori Imperiali a Roma o la Città delle Arti e delle Scienze a Valencia. Possiedono quella rara qualità di poter dialogare con contesti architettonici e culturali vari senza mai perdere la propria identità.

Sono consapevole che alcuni di voi, abituati alle piroette concettuali dell’arte contemporanea, potrebbero trovare il lavoro di Atchugarry troppo “classico”, troppo “bello”. Ma non è forse proprio il segno del nostro esaurimento culturale considerare la bellezza con sospetto? Non abbiamo perso qualcosa di essenziale respingendo sistematicamente tutto ciò che non provoca, non scandalizza, non destabilizza?

Quello che amo di Atchugarry è il suo tranquillo rifiuto delle dicotomie facili: tradizione contro modernità, figurazione contro astrazione, materialità contro spiritualità. Le sue sculture esistono in uno spazio intermedio dove queste opposizioni si dissolvono. Sono allo stesso tempo arcaiche e futuriste, sensuali e spirituali, monumentali e intime. Atchugarry ci ricorda una verità semplice ma essenziale: l’arte autentica nasce da un dialogo paziente con la materia, da una ricerca ostinata della forma giusta, da una volontà di trascendere i limiti del tempo presente per toccare qualcosa di eterno.

Forse è questo, in definitiva, il segreto di Atchugarry: la sua capacità di farci ascoltare, attraverso le sue sculture di marmo, “il suono dell’eternità”. E questo è un suono che abbiamo disperatamente bisogno di sentire nel frastuono assordante della nostra epoca.


  1. Intervista a Pablo Atchugarry di Sarah Cascone, “Pablo Atchugarry, Maestro moderno del marmo di Carrara, si integra perfettamente tra le rovine romane”, Artnet News, 4 agosto 2015.
  2. Gaston Bachelard, “L’Acqua e i Sogni”, José Corti, Parigi, 1942.
  3. Edmund Husserl, “Idee guida per una fenomenologia”, Gallimard, Parigi, 1950.
  4. Intervista a Pablo Atchugarry di Giulia Ricciotti, “Pablo Atchugarry: Il Suono dell’Eternità”, Regia Mag, 2022.
  5. Sarah Cascone, “Pablo Atchugarry, Maestro moderno del marmo di Carrara, si integra perfettamente tra le rovine romane”, Artnet News, 4 agosto 2015.
  6. Victor Hugo, “Notre-Dame de Paris”, Libro V, Capitolo 2, “Questo ucciderà quello”.
  7. Gabriella Angeleti, “Mettere l’Uruguay sulla mappa dell’arte: lo scultore Pablo Atchugarry sta costruendo un museo di livello mondiale nel suo paese natale”, The Art Newspaper, 31 agosto 2021.
  8. Intervista a Pablo Atchugarry di Giulia Ricciotti, “Pablo Atchugarry: Il Suono dell’Eternità”, Regia Mag, 2022.
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Riferimento/i

Pablo ATCHUGARRY (1954)
Nome: Pablo
Cognome: ATCHUGARRY
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Uruguay

Età: 71 anni (2025)

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