Ascoltatemi bene, banda di snob, quando vi parlo di un artista che sconvolge i nostri sensi senza fare rumore mediatico, sto parlando di Paresh Maity. Quest’uomo il cui nome risuona ormai nelle cerchie artistiche da Delhi a Londra naviga in un mondo estetico che supera di gran lunga le convoluzioni visive a cui siamo abituati.
Nato nel 1965 a Tamluk, questo piccolo villaggio del Bengala Occidentale, Maity si è costruito la reputazione di alchimista dei colori. Le sue acquerelli, prima passione e medium prediletto, compiono quel raro miracolo: catturare la luce come una farfalla, imprigionarla sulla carta senza romperle le ali. Le sue opere non si limitano a rappresentare un paesaggio; lo trasformano in un’esperienza quasi sinestetica dove l’acqua diventa pigmento e il pigmento diventa luce.
Bisogna capire che Maity non è semplicemente un pittore, è un nomade visivo. I suoi viaggi attraverso l’India e il mondo, da Benares a Venezia, passando per il Rajasthan e i canali norvegesi, costituiscono la materia prima della sua opera. Assorbe i paesaggi e li restituisce trasformati dal suo sguardo singolare, come filtrati attraverso un caleidoscopio in cui predominano i rossi incandescenti, i blu profondi e gli ocra sfavillanti.
Il suo percorso artistico è un esempio perfetto di quello che la filosofa Hannah Arendt chiamava “la condizione umana nella sua pluralità” [1]. Radicato al contempo nel suo territorio natale e profondamente cosmopolita, Maity incarna questa capacità di essere contemporaneamente qui e altrove, di appartenere a una tradizione pur trascendendola. Le sue opere portano l’impronta di questa dualità: fedeli alle tradizioni pittoriche indiane nella loro sensibilità cromatica, ma decisamente contemporanee nella loro composizione e audacia.
A chi si stupisce della sua produttività, più di 80 mostre personali in quarant’anni di carriera, ricordo che la creazione non è una questione di quantità ma di intensità. E che intensità in questi grandi formati in cui il paesaggio diventa cosmo! L’opera monumentale che ha creato per l’aeroporto internazionale Indira Gandhi di Nuova Delhi, un affresco di 250 metri, il più lungo dell’India, non è semplicemente un’impresa tecnica, è un’odissea visiva che ci fa viaggiare nell’anima del subcontinente.
Quello che mi piace del suo lavoro è questa capacità di catturare l’essenza stessa della luce. “Ho sempre creduto che la luce sia la vita e la vita sia luce. Per vedere qualsiasi cosa, hai bisogno di luce”, confida [2]. Questa ossessione per la luminosità ricorda le ricerche di Turner o Monet, ma Maity vi aggiunge quella particolare vibrazione, quella pulsazione che appartiene solo all’India.
La transizione dall’acquerello verso altri mezzi espressivi, come olio, acrilico, sculture, installazioni, non rappresenta per lui una tradimento. È piuttosto l’estensione naturale di una ricerca sulla materialità della luce e sulla sua capacità di trasformare la nostra percezione del mondo. Le sue sculture recenti, come il monumentale Urbanscape che pesa sette tonnellate e rappresenta un jackfruit gigante, esplorano la densità urbana con la stessa sensibilità con cui i suoi acquerelli esplorano la fluidità dell’acqua.
Ciò che mi irrita profondamente in alcuni critici è la loro incapacità di vedere oltre le categorie predefinite. Si parla di Maity come di un “maestro dell’acquerello”, cosa che indubbiamente è, ma si dimentica troppo spesso di menzionare la sua virtuosità nel navigare tra diversi mezzi espressivi, la sua capacità di reinventare costantemente il suo linguaggio visivo. Non è un artista fissato nella sua tecnica, ma un esploratore instancabile delle possibilità espressive dell’arte.
Il suo rapporto con la ceramica illustra perfettamente questa insaziabile curiosità. Ispirato da Picasso durante una visita al museo di Parigi durante gli studi, ha sviluppato per vent’anni una pratica personale della ceramica, lontano dai riflettori, prima di rivelarla infine al pubblico. Questa pazienza, questa lenta maturazione di una pratica artistica lontana dal rumore mediatico, testimonia un’integrità rara nel mondo dell’arte contemporanea.
La critica cinematografica francese Pauline Kael scriveva che “l’arte è l’unica forma di vita che può essere indefinitamente perseguita” [3]. Questa osservazione potrebbe definire l’approccio di Maity. Quando dichiara: “L’arte è la mia vita. Non ho ancora iniziato, sono sempre in ricerca. A volte ho l’impressione di avere bisogno di 72 ore al giorno” [4], esprime questa ricerca perpetua, questa feconda insoddisfazione che caratterizza i grandi creatori.
Se si esamina il suo lavoro attraverso il prisma della teoria estetica di John Dewey, si comprende meglio la natura della sua arte come “esperienza”. Per Dewey, l’esperienza estetica non è separata dall’esperienza ordinaria, ma ne è l’intensificazione e la chiarificazione. I paesaggi di Maity non sono rappresentazioni fredde di un luogo, ma l’espressione di un incontro vissuto, di un dialogo tra l’artista e il suo ambiente. È proprio questa qualità esperienziale che dà alle sue opere quel particolare potere evocativo.
Sono particolarmente affascinato dalla sua serie su Benares/Varanasi. In queste opere riesce a catturare non solo l’aspetto fisico di questa città mitica con i suoi ghats e rituali sulle rive del Gange, ma anche la sua dimensione spirituale, quella particolare luce che sembra emanare dai luoghi stessi. C’è in questi dipinti qualcosa che trascende la semplice rappresentazione per raggiungere una forma di verità emotiva.
Questa capacità di trasformare la materia in emozione è evidente anche nelle sue sculture. “The Pair”, quest’opera monumentale di sette tonnellate menzionata nella mostra “Infinite Light”, gioca sulla dualità maschile/femminile con una sensibilità che evita le trappole del simbolismo facile. L’opera impone la sua presenza fisica mentre invita a una contemplazione quasi metafisica.
Il critico Ranjit Hoskote parla di “profonda fascinazione per la luce come potere di trasformazione, con il colore come fondamento dell’essere, e con l’essere umano come testimone e partecipante in drammi cosmici di scala epica” [5]. Questa osservazione tocca l’essenza stessa del lavoro di Maity: la luce non è semplicemente un fenomeno ottico, ma una forza strutturante che dà forma e senso al mondo.
Questa preoccupazione per la luce non è senza ricordare le ricerche della fenomenologia sulla percezione. Senza cadere nelle trappole concettuali di questa scuola filosofica, si può comunque osservare che Maity, come i fenomenologi, si interessa a come il mondo si dà a noi attraverso i nostri sensi e a come la nostra percezione trasforma ciò che vediamo.
Devo ammettere che inizialmente ero dubbioso riguardo alle sue incursioni nell’arte pubblica. Troppe volte, le opere monumentali sacrificano la sottigliezza sull’altare dello spettacolare. Tuttavia, anche su larga scala, Maity riesce a mantenere quell’intimità, quella delicatezza che caratterizza le sue acquerelli. Il suo murale per l’aeroporto di Delhi non è una concessione al commerciale, ma un’amplificazione della sua visione, come se il suo sguardo intimo sul mondo potesse ora essere condiviso con migliaia di viaggiatori.
Ciò che mi piace particolarmente anche in questo artista è il suo modo di trattare il tempo. Nei suoi paesaggi, il tempo sembra allo stesso tempo sospeso e in movimento perpetuo, come se ogni istante contenesse in sé passato e futuro. Questa concezione del tempo richiama le riflessioni di Henri Bergson sulla durata come flusso continuo piuttosto che come successione di istanti discreti. I paesaggi di Maity non sono fotografie ferme, ma momenti che respirano, che pulsano di vita.
Osservando l’evoluzione della sua pratica nel corso dei decenni, non si constata rotture, ma un approfondimento graduale delle sue preoccupazioni essenziali. Dalle sue prime acquerelli alle sue recenti opere multimediali, è sempre la stessa ricerca della luce, la stessa fascinazione per il modo in cui essa trasforma la nostra percezione del mondo.
Il suo rapporto con la natura è particolarmente interessante. Nato in una regione del Bengala dove l’acqua è onnipresente, fiumi, stagni, canali, Maity ha sviluppato una sensibilità particolare per l’elemento acquatico. Questa affinità si traduce non solo nella sua scelta iniziale dell’acquerello come medium, ma anche nel suo modo di concepire lo spazio pittorico come uno spazio fluido, in costante trasformazione. Come afferma lui stesso: “Sono inseparabile dall’acqua, siamo una cosa sola.” [6]
Questa fusione con gli elementi naturali richiama la concezione romantica dell’artista come mediatore tra la natura e l’uomo. Ma Maity sfugge alle trappole del romanticismo ingenuo grazie alla sua coscienza acuta delle realtà sociali e culturali che plasmano il nostro rapporto con l’ambiente. I suoi paesaggi non sono mai semplici celebrazioni di una natura idealizzata, ma esplorazioni complesse della nostra relazione ambivalente con il mondo che ci circonda.
La versatilità di Maity potrebbe sembrare sconcertante: come può un solo artista eccellere in medium così diversi come l’acquerello, l’olio, la scultura o la ceramica? La risposta risiede forse nel suo approccio fondamentalmente sensoriale all’arte. Qualunque sia la tecnica usata, è sempre la stessa ricerca della sensazione visiva nel suo stato più puro, la stessa fascinazione per il modo in cui la luce e il colore possono trasformare la nostra esperienza del mondo.
Se dovessi riassumere in poche parole l’essenza della sua arte, sarebbe: trasformazione, fluidità, luminosità. Maity non rappresenta il mondo, lo rivela nella sua dimensione nascosta, quella dimensione che sfugge alla nostra percezione ordinaria ma che costituisce tuttavia la sua verità più profonda.
L’arte di Paresh Maity ci ricorda che vedere veramente il mondo è un atto creativo, una trasformazione costante piuttosto che una semplice ricezione passiva. In ciò, la sua opera costituisce non solo un contributo importante all’arte contemporanea indiana, ma anche un invito a ripensare il nostro rapporto con il visibile, con la luce, con quella sfolgorante ordinarietà che ci circonda e che troppo spesso abbiamo smesso di vedere.
- Arendt, Hannah, “La condizione umana”, The University of Chicago Press, 1958
- The Established, “L’artista Paresh Maity è alla ricerca della luce giusta attraversando media e linee temporali”, intervista di Anannya Sarkar, 2022
- Kael, Pauline, “L’ho perso al cinema”, Little, Brown and Company, 1965
- T2online, “La vita per me è arte. Non ho ancora iniziato, sto ancora cercando. A volte sento di avere bisogno di 72 ore al giorno”, Paresh Maity”, intervista di Saionee Chakraborty, 23 gennaio 2024
- Abirpothi, “‘Luce Infinita’ Esprime il Viaggio di Paresh Maity di Tre Decenni nell’Arte”, 2022
















